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America Latina: segnali di ripresa in Argentina ma non in Brasile

Un report di Intesa Sanpaolo prevede per l’Argentina una crescita del PIL a +2,9% quest’anno e +3,3% nel 2018, mentre in Brasile prosegue il rallentamento della produzione industriale (-6,8%). Una speranza arriva dalle Zone Speciali per industria ed export.

America Latina: segnali di ripresa in Argentina ma non in Brasile
In Argentina le misure governative finalizzate ad eliminare squilibri e distorsioni microeconomiche hanno avuto effetti depressivi sulla domanda interna, portando l’economia in recessione nel corso del 2016 (-2,3% in termini reali). Lo scorso gennaio l’indicatore dell’attività economica EMAE è tornato in territorio positivo (+1%), segnalando che gli effetti depressivi delle misure di aggiustamento si stanno esaurendo e l’economia è tornata su un sentiero di crescita. Le più recenti stime degli analisti indicano per l’Argentina una crescita del PIL a +2,9% quest’anno e +3,3% nel 2018. Allo stesso tempo, a partire da maggio 2016, la Banca Centrale ha iniziato un processo di riduzione dei tassi: il tasso interbancario a 7 giorni è sceso dal 38% al 24,75% in occasione dell’ultimo taglio operato a fine novembre. Successivamente, le rinnovate spinte al deprezzamento sul cambio e le nuove pressioni inflazionistiche hanno indotto l’Autorità monetaria ad interrompere la propria azione distensiva, arrivando lo scorso aprile ad alzare il tasso di riferimento al 26,25%.

Nell’area di Buenos Aires, lo scorso dicembre il tasso tendenziale d’inflazione era pari al 41% mentre quello medio 2016 si collocava al 41,2%. Quest’anno nuove spinte al rialzo sui prezzi verranno dai nuovi adeguamenti tariffari; tuttavia il tendenziale è atteso frenare sensibilmente nei mesi finali del 2017, pur rimanendo sopra il limite superiore della nuova fascia obiettivo (12%-17%).

A partire dal 2011, con l’inizio dei pagamenti degli interessi sui titoli del default ristrutturati, il saldo corrente è passato in deficit. Il deficit corrente si è così contratto a 15 miliardi di dollari, da 16,8 mld nel 2015. Nell’ultimo anno le riserve valutarie sono più che raddoppiate, raggiungendo i 45,6 mld. Il dato delle riserve si confronta con un fabbisogno finanziario estero 2017 stimato pari a 61 mld e un debito estero pari a circa 160 mld (31% del PIL). A fine 2015 lo stock di attività in valuta dei residenti, soprattutto depositi, superava le passività, principalmente IDE, e la posizione finanziaria netta era positiva per 55,5 mld (9% del PIL). Parte di questi fondi sta ora rientrando, sfruttando il condono fiscale concesso dal Governo per i capitali detenuti all’estero. Nel 2016, il deficit pubblico primario in rapporto al PIL, pari al 4,6%, è stato inferiore all’obiettivo del 4,8%, mentre quest’anno il Governo ha indicato un deficit primario obiettivo del 4,2%. Negli ultimi cinque anni il debito pubblico in rapporto al PIL è salito di 15 punti percentuali portandosi al 51% nel 2016, laddove circa il 70% è in valuta. Ecco allora che il debito sovrano in valuta dell’Argentina, pur essendo ancora considerato altamente speculativo dalle agenzie di rating (B S&P, B per Fitch e B3 per Moody’s), è stato interessato nell’ultimo anno da miglioramenti delle valutazioni.

Se passiamo al vicino Brasile, i dati relativi al 2016 sugli scambi commerciali con il resto del mondo, riportati dal Centro Studi e Ricerche Intesa Sanpaoloevidenziano un calo del valore in dollari sia delle importazioni (a 137,6 mld, -19,8%) che dell’export (185,2 mld, -3,1%). Il valore degli scambi è stato condizionato anche dall’andamento del cambio del real che nel 2016 ha visto un deprezzamento nei confronti del dollaro del 6,9%, oltre che dai prezzi delle principali materie prime e dall’andamento della domanda interna. Gli scambi commerciali sono prevalentemente con mercati asiatici e americani, in particolare con Cina, USA, Argentina e Germania, laddove l’Europa riveste circa il 24% del totale scambiato. L’Italia si è collocata al 6° posto tra i maggiori fornitori e al 9° posto tra i clienti, con una quota di circa il 3% delle importazioni e del 2% nell’export.

In riferimento agli scambi bilaterali con l’Italia, sulla base dei dati ISTAT nel 2016 le esportazioni italiane in Brasile sono calate del 17,1% e hanno raggiunto quota 3,2 miliardi di euro, mentre le importazioni sono cresciute dell’1,0% (3,2 mld). Per il nostro Paese il saldo netto delle esportazioni è risultato negativo per i prodotti agricoli, legno carta e stampa, minerali, tessile e abbigliamento, metalli e prodotti alimentari, mentre è stato positivo per macchinari meccanici, mezzi di trasporto, prodotti farmaceutici, chimici e apparecchi elettrici. In questo scenario, lo stock di IDE in entrata in Brasile a fine 2015 era pari a 486 miliardi di dollari (27,9% del PIL) e i maggiori investitori risultavano essere proprio i Paesi europei (l’Italia si colloca al 9° posto, con il 3,3%), sebbene molti con il ruolo di mercati di transito: i principali settori di destinazione sono rappresentati da manifattura, finanza e minerario estrattivo.

Le Zone Speciali istituite in Brasile consentono alle imprese che vi si localizzano di ottenere benefici fiscali e amministrativi, e si dividono in tre categorie: quelle orientate all’export (collocate vicino ai Paesi limitrofi con la speranza di sviluppare le zone di confine), a particolari settori industriali e allo sviluppo di tecnologie. L’industria brasiliana vede il prevalere di chimica e lavorazione dei prodotti petroliferi, agro-alimentare, mezzi di trasporto, macchinari e lavorazione dei metalli. Nel corso del 2016 l’indice della produzione industriale ha visto un ulteriore rallentamento rispetto all’anno precedente, pur se a livelli più contenuti, attestandosi a -6,8%. Tuttavia, già dallo scorso ottobre si è riscontrato un miglioramento della variazione annua, che ha raggiunto a dicembre un tasso di crescita positivo (+0,8%).

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