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Steve Jobs e la sua passione per la calligrafia: alle origini dell’editoria elettronica

La calligrafia catturò fin da ragazzo l’immaginazione del fondatore di Apple che abbandonò l’università per seguire gli insegnamenti del frate trappista Robert Palladino – Era l’equilibrio tra il bello e l’utile ad attrarlo e la rivoluzione del Macintosh nacque da lì: “Alla fine è tutta una questione di gusto”

Steve Jobs e la sua passione per la calligrafia: alle origini dell’editoria elettronica

Tutto comincia a Portland

La calligrafia, al pari dell’India e delle sostanze per allargare la mente, catturava l’immaginazione del giovane Steve Jobs. La famiglia che l’aveva adottato, i Jobs appunto, si era formalmente impegnata con la madre biologica a far svolgere a Steve degli studi superiori. La madre, che aveva consentito all’adozione a malavoglia per via che nessuno dei Jobs era laureato, alla fine aveva acconsentito per quell’impegno nei confronti dello studio. A 17 anni nel 1972, quattro anni prima di avviare la Apple Computers che oggi compie 40 anni, Steve Jobs iniziò i suoi studi al Reed College a Portland in Oregon, una delle università più anticonformiste e costose degli Stati Uniti (la retta degli interni tocca i 50mila dollari l’anno). Il campus del Reed si estende su un territorio di 20mila ettari e il NYTimes l’ha definita “la più intellettuale università degli Stati Uniti”.

Al Reed sono le discipline umanistiche a primeggiare e le arti liberali hanno un grandissimo riconoscimento. Pensando all’importanza che Jobs ha poi riconosciuto a questi aspetti dell’attività umana, pare un paradosso che non si trovasse a proprio agio ai corsi che frequentava al Reed. Gli studi gli sembravano una grande perdita di tempo e di denaro dei genitori e così decise di abbandonare i corsi per frequentarne un solo, quello di calligrafia. Lo stesso Jobs ricorda così quella scelta: “Ho abbandonato il Reed College dopo appena sei mesi. Però, prima di lasciare definitivamente la scuola mi sono imbucato in un corso per altri diciotto mesi”. Che cosa c’era nella calligrafia che attraeva Jobs? C’era un intimo equilibrio tra il bello e l’utile, tra la forma e la funzione che poi è ciò che definisce il design.

L’insegnamento di Robert Palladino

“Gran parte delle cose in cui mi sono imbattuto per caso al Reed College e le riflessioni che mi hanno stimolato, si sono rivelate inestimabili nella mia vita… Nulla di tutto questo sembrava avere una qualche applicazione pratica immediata nella mia vita, ma dieci anni dopo, quando stavamo progettando il primo Mac, questa esperienza mi tornò utile”. Con queste parole Steve Jobs ha descritto quella esperienza nel discorso del 12 giugno 2005, di fronte ai neolaureandi della Stanford University.

“Alla fine è tutta una questione di gusto. Devi esporti alle cose migliori che l’umanità abbia mai prodotto e poi provare a metterle in quello che stai facendo”. È questo il principio che Steve Jobs ha cercato di mettere in pratica in tutto ciò che ha fatto.
L’uomo che ha contribuito tanto a trasmettere a Jobs una sensibilità artistica ed estetica inconfondibile è stato proprio il suo insegnante di calligrafia al Reed College, il frate trappista Robert Palladino, inconfondibilmente di origini italiane.

Il corso di Robert Palladino stimolava non solo la manualità, ma soprattutto il ragionamento, allenava l’occhio a discernere i modi in cui centinaia di variabili possono fondersi per creare un effetto armonioso. Quella “Divina Proportione” che un altro frate, il toscano conterraneo di Piero della Francesca e amico di Leonardo da Vinci, Luca Pacioli aveva definito con l’aiuto del Da Vinci in un famoso omonimo trattato del 1497. Come il Pacioli, Palladino era un personaggio singolare: si era fatto monaco vivendo in clausura, aveva osteggiato il modernismo del Concilio Vaticano II, aveva poi abbandonato e lo stato sacerdotale per sposarsi per poi riacquisirlo dopo la scomparsa della moglie. Questo eccentrico intellettuale, simile in questo a Jobs, ha rappresentato una fonte di ispirazione fondamentale per il design raffinato del co-fondatore di Apple, determinandone la precisione, l’eleganza, l’armonia, la proporzione degli infiniti elementi che formano un oggetto tecnologico e l’attenzione paranoica a ogni dettaglio, anche non visibile. Come recita un famoso e seminale libro di Andy Groves, uno dei padri fondatori della cultura imprenditoriale della Silicon Valley e mentore di Jobs, “Solo i paranoici sopravvivono”. E Jobs era un paranoico come lo era Palladino nella sua ricerca della perfezione.

La calligrafia, cioè la scrittura decorativa, è un’arte spirituale, mistica, universale, in quanto tende alla perfezione unendo il calcolo meticoloso alla grazia e si fonde con l’arte tipografica nello studio dell’interazione fra i caratteri su una determinata superficie, in una sintesi di estetica ed esecuzione: la prova che tanto il pragmatismo, quanto la bellezza, influiscono sul risultato finale di qualsiasi progetto, convinzione che costituisce da sempre uno dei maggiori punti di forza della visione di Steve Jobs.

Il grande merito di Palladino è stato quello di “inculcare” al fondatore di Apple il concetto di arte come valore assoluto, a cui la tecnologia dovrebbe cercare di avvicinarsi per imparare i segreti della perfezione: “Picasso diceva ‘i bravi artisti copiano, i grandi artisti rubano’ e noi siamo sempre stati sfacciati nel rubare grandi idee”, ammise Jobs in persona nel 1994, “Credo che il Macintosh abbia avuto così tanto successo perché è stato creato da musicisti, poeti, artisti, zoologi e storici che si dà il caso fossero anche i più grandi esperti di computer del mondo”. La tecnologia è un’arte applicata e non può prescindere dal design.

Il Mac e la nascita del desktop publishing

Nel campo della tipografia, infatti, si può dire che il Macintosh, dai tempi di Gutenberg, abbia prodotto una vera e propria rivoluzione (nel 1984), consentendo di visualizzare sul monitor un risultato identico a quello che si sarebbe ottenuto su un foglio stampato. Il Mac e la sua stampante (la LaserWriter) sono stati i primi dispositivi a supportare il linguaggio di descrizione della pagina Postscript messo a punto da una start-up dell’epoca, di nome Adobe, fondata da due ex-ricercatori dello Xerox PARC. Il Postscript permetteva a Jobs di mettere in pratica una delle sue idee forti, veramente antesignana per l’epoca: “What You See Is what you Get” (WYSIWYG) – quello che vedi è quello che hai. Senza la realizzazione di questa idea non ci sarebbe stata l’editoria elettronica.

Dunque il neonato desktop publishing e la possibilità di accedere a una vastissima gamma di font hanno permesso l’ascesa e il successo della tipografia elettronica, alla portata di tutti i possessori di un PC, e la sua capacità di rivaleggiare con la tipografia tradizionale che vantava secoli di esperienza e eccellenze professionali. Ciò si deve soprattutto all’eleganza pretesa da Jobs nel design e nella tipografia del Mac, caratteristica che è rimasta uno dei tratti distintivi del marchio californiano.

L’aspetto dei caratteri è fondamentale nelle interfacce uomo-macchina

La tipografia, nel senso di aspetto e forma dei caratteri, era una delle maggiori preoccupazioni di Jobs e lo è anche del suo erede Jonathan Ive. La tipografia è limitata da confini piuttosto rigidi (il set di lettere e numeri) e allo stesso tempo libera di trasformare caratteri e glifi la cui struttura di base è rimasta cristallizzata attraverso i secoli. Oltre allo scheletro delle lettere e dei numeri, però, esistono infinite variazioni di intensità, di spessore, di spazio, ci sono caratteri più geometrici o dalle linee più dolci, dall’asse più o meno obliquo e naturalmente “con grazie” (serif) e “senza grazie” (sans serif), cioè quelle rifiniture alle estremità delle lettere e dei numeri tipiche del classico Times New Roman o del Garamond, ad esempio. I primi sono più diffusi nella stampa e nei testi lunghi, mentre i secondi sono più adatti alla lettura su schermo e ai testi scritti in piccolo. Sullo schermo, a causa della minore risoluzione rispetto alla stampa, i caratteri san serif sono più netti, contrastati e distinguibili dal cervello umano. Una ricerca psicometrica ha mostrato come il Verdana, introdotto da Microsoft, sia il carattere più leggibile a schermo. Oggi i dispositivi di Apple hanno l’Helvetica Neue, anch’esso un san-serif, come carattere di visualizzazione del testo.

Il bello è che ogni singolo cambiamento sortisce un certo effetto sull’osservatore, producendo sensazioni diverse a seconda dei casi, al punto che alcuni font rimandano direttamente a epoche storiche ben precise, da quelli gotico-medievali a quelli più moderni e lineari. Tenendo conto di queste infinite variabili, la stessa Apple ha ponderato con attenzione i suoi font aziendali, sia nel marketing che nell’interfaccia utente, optando per la pulizia e la leggibilità del sans serif.

Ecco fino a che punto l’esperienza della calligrafia ha cambiato non solo la vita di Steve Jobs, ma anche la storia della tecnologia, restituendo alla scienza il suo naturale valore aggiunto, cioè l’arte. Ogni microscopico elemento può essere curato nei minimi dettagli, perché può racchiudere un significato importante, e il risultato è che per descrivere l’intero universo Apple basta una piccola, semplice “i”.

Di seguito riproduciamo, nella traduzione italiana e nell’adattamento di Ilaria Amurri, l’articolo di Tim Appelo dal titolo Come la calligrafia ha cambiato la vita di Steve Jobs, pubblicato dal magazine “The Hollywood Reporter”. Il senso di questo è che quando si collegano i puntini, tutte le esperienze, anche quelle più bizzarre e apparentemente insignificanti, iniziano a prendere un significato preciso e diventano parte di un disegno. È proprio il caso della calligrafia per Steve Jobs.

Il primo passo di un cammino prodigioso

Steve Jobs apprese l’arte della calligrafia da un monaco trappista, grazie al quale iniziò un cammino spirituale che lo avrebbe portato a cambiare il mondo.

So bene da dove deriva l’ispirazione di Steve Jobs, perché sono entrato nello stesso luogo tre mesi dopo che lui se ne era andato, nel 1974, e quel posto è il centro di calligrafia del Reed College di Portland, nell’Oregon. “La prima impressione che ho avuto è che stesse simpatico a tutti gli studenti”, racconta Robert Palladino, il primo professore di calligrafia di Steve Jobs (e anche il mio). “Ero sorpreso, perché lì era pieno di geni, mentre Steve aveva abbandonato gli studi, eppure gli altri ne intuivano già la grandezza”.

Oltre ad essere un genio era molto motivato, così dopo il suo unico semestre da pagante, nel 1972, rimase a Reed per altri 18 mesi, studiando calligrafia con la determinazione di un monaco. Più tardi fece un viaggio con un suo compagno del college (che poi entrò in Apple), nell’intento di studiare sull’Himalaya proprio come un monaco, a piedi nudi, con la testa rasata e con la tonaca, ma il suo primo monastero fu l’aula di calligrafia di Reed, sotto la guida di Palladino, che era già un monaco trappista da 18 anni.

L’uomo che sarebbe diventato una delle menti più sensazionali della Silicon Valley fu istruito da un monaco che aveva osservato per anni il voto del silenzio. “Il Reed College a quel tempo offriva i migliori corsi di calligrafia del Paese. Nel campus i poster, le insegne erano stampati con splendidi caratteri tipografici”, disse nel discorso ai neolaureati di Stanford, nel 2005. “Avendo abbandonato i corsi ufficiali e non dovendo, quindi, seguire le lezioni secondo il piano di studi, decisi di frequentare un corso di calligrafia per imparare a fare cose belle come quelle che vedevo nel campus. Ho imparato a usare caratteri serif e sans-serif, a variare la spaziatura tra le lettere e tutto quello che serve per creare una bella scrittura. Era bellissimo, antico e così artisticamente delicato che la scienza non avrebbe mai potuto raggiungere. Tutto ciò era affascinante”.

La calligrafia dei monaci ha trasmesso a Steve Jobs un senso estetico che in genere manca ai giganti del settore tecnologico (come Bill Gates).

Il secondo passo, il Mac

“Circa due anni dopo Steve tornò a Reed per dirmi che stava lavorando con i computer nel garage dei suoi genitori – racconta Palladino – Voleva consultarsi con me riguardo al mio alfabeto greco”. Come disse Jobs a Stanford “…dieci anni dopo, quando stavamo progettando il primo Mac, questa esperienza mi tornò utile. Il Mac era il primo computer con dei caratteri bellissimi. Se non avessi abbandonato gli studi, il Mac non avrebbe così avuto tanti caratteri tipografici. E se Windows non avesse copiato il Mac, nessun personal computer oggi li avrebbe. Se non avessi abbandonato i corsi, se non mi fossi imbattuto in quel corso di calligrafia, i computer oggi sarebbero peggiori”.

Quella che Jobs aveva acquisito a Reed non era semplicemente un’abilità calligrafica, ma una forma mentis. Alle matricole veniva detto “Siete qui per misurare la vostra mente con quella della persona che siede accanto a voi e con le più grandi menti che siano mai esistite”. I tassi di rinuncia agli studi, di suicidio e di ammissione ai dottorati erano alle stelle, ma le abilità sociali e le medie dei voti erano basse. A Stanford i voti sotto la C non venivano neanche verbalizzati, mentre a Reed non esitava la C di cortesia e gli studenti erano considerati fin troppo puri per chiedere di conoscere i loro voti. L’obiettivo era la perfezione. Tutto ciò che contava era l’individualismo, l’originalità, la spietata meritocrazia. Perfino lo stemma del college era un’immagine di ardente ambizione: un grifone fiammeggiante.

Oltre la perfezione

“La mente di Steve era come un lanciafiamme”, dice Tim Girvin, calligrafo ed ex studente di Reed che ha disegnato loghi per 400 film, da Apocalypse Now a Le avventure di Tintin, ma anche per Jobs, il quale lo invitò a contribuire alla creazione di un Mouse-Activated Computer, cioè un M.A.C. “Steve mi disse ‘devi venire ad Apple, devo farti vedere una cosa’. Ero entusiasta di partecipare alla sperimentazione tipografica di una tecnologia che era ancora avvolta nel mistero. Mi aveva chiamato a lavorare per lui da esterno, perché pensassi a quel design diversamente, in modo nuovo”.

“Il mouse, il puntatore, stava dentro una specie di scatola di cartone da cui usciva un filo. ‘Saresti in grado di disegnare un logo per il Mac con questo puntatore direttamente sul monitor?’, mi chiese. Non potevo, lo schermo era piccolo, i pixel troppo grandi. Allora disegnai il logo e il computer a mano, il tutto con una penna calligrafica.”

Jobs ne fu decisamente soddisfatto, per fortuna. “Se ti prendeva in simpatia era per sempre, come avresti potuto superare la perfezione? Cos’altro avresti potuto fare di meglio? Ma se sgarravi era la fine. Steve aveva un certo temperamento, urlava (anche se non con me), scaraventava cose in giro. Aveva un vero obiettivo, una strada da percorrere, o camminavi con lui o eri fuori. Molti dicevano di essere terrorizzati da Steve Jobs e penso che fosse a causa della sua grande passione e del fuoco che lo alimentava. Desiderava ardentemente fare cose nuove e straordinarie”.

“Eticamente parlando, Steve era il ragazzo più gentile del mondo”, dice Palladino, che l’ha conosciuto quando ancora non lanciava le sedie per aria, “un tipo davvero simpatico”. I tentativi di Palladino di rimettersi in contatto con lui dopo che era diventato famoso furono respinti dagli uffici di Apple, che risposero con un silenzio più impenetrabile di quello dei trappisti. Dopo la morte di Jobs, invece, Palladino ricevette telefonate perfino dalla Cina, di gente che voleva sapere da dove derivasse il talento del mitico genio. Gli fu chiesto quali attori fossero più adatti per interpretare la sua parte e quella di Steve Jobs nell’adattamento cinematografico della biografia scritta da Walter Isaacson (uscita il 24 ottobre del 2011), che doveva essere prodotto dalla Sony. “Non guardo molti film”, confessa Palladino, “non ho mai visto una televisione finché non sono uscito dal monastero”.

Collegare i puntini…

Jobs assunse Girvin affinché realizzasse una serie di progetti nel corso dell’anno. “Quando nacque NeXT [società di computer fondata da Jobs nel 1985], mi disse ‘Potresti formulare un’espressione visiva della storia di NeXT?’. Disse che il marchio era troppo severo e professionale, che c’era bisogno di una maggiore forza espressiva, di un tocco magico.” Per Steve Jobs, in sostanza, la calligrafia è la magia che ravviva la scienza. “Ci scrivevamo quasi sempre a mano, il ritorno alla scrittura manuale faceva parte della nostra connessione.” L’ultima volta che si misero in contatto, sette o otto anni fa, Girvin lo trovò cambiato. “Era diventato molto più pacato. All’inizio era così giovane, appassionato, folle, diretto, aveva un’energia diversa. Penso che fosse diventato semplicemente più calmo”.
“Il giorno in cui è morto ho preso il mio iPad e ho iniziato a fare schizzi del Mac, cominciando esattamente dal punto in cui eravamo trent’anni prima”. Non aveva più bisogno di una penna calligrafica, in più l’iPad costa molto meno della Pelikan di Palladino. “Oggi con l’iPad si possono fare foto, scrivere appunti, disegnare e abbozzare idee facendo convergere il tutto in un unico spazio”. Adesso Girvin può fare ciò che gli era stato chiesto molto tempo fa, “Siamo tornati direttamente al sogno iniziale”.

“Certamente, all’epoca, non era possibile unire i puntini – disse Jobs a Stanford – per costruire il quadro del futuro; ma tutto divenne leggibile quando dieci anni dopo guardai indietro. Non si possono unire i puntini guardando in avanti, si può farlo solo guardando indietro: dovete quindi avere fiducia che, nel futuro, i puntini che oggi vi paiono sparsi e privi di senso possano unirsi domani a dare un significato alle cose. Dovete credere in qualcosa: il vostro ombelico, il vostro karma, la vostra vita, il vostro destino, chiamatelo come volete… questa regola non mi ha mai lasciato a terra e ha fatto la differenza nella mia vita”.

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