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FonSai, l’inesorabile tramonto di don Salvatore Ligresti

Ancora pochi giorni e si saprà se Mediobanca riuscirà nell’intento di maritare Fondiaria Sai e Unipol, l’ex gallina dalle uova d’oro delle Coop – Comunque vada a finire, nulla sembra in grado di arrestare il tramonto del gruppo Ligresti e di don Salvatore, che per decenni ha saputo fare da ponte, sotto il segno degli affari, tra politica e business

FonSai, l’inesorabile tramonto di don Salvatore Ligresti

Ancora pochi giorni e si saprà se Alberto Nagel, il dinamico amministrator delegato di Mediobanca, riuscirà nell’intento di maritare Fondiaria Sai, già così care ad Enrico Cuccia e a Vincenzo Maranghi, con Unipol, l’ex gallina dalle uova d’oro delle Coop. Per ora, quel che si sa è che, comunque vada a finire, nulla sembra in grado di arrestare il tramonto dell’uomo che ha custodito in portafoglio per decenni le chiavi d’accesso al club più esclusivo del potere finanziario (cioè quote strategiche in Mediobanca, Rcs, Pirelli, Generali e non solo) e che per anni ha saputo far da ponte, sotto il segno degli affari, tra politica e business: don Salvatore Ligresti.

Non a caso fu proprio Ligresti, nel 1986, ad organizzare, con grande discrezione il primo incontro tra Cuccia e l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi, Ora, quel potere sta andando a pezzi, picconata dopo picconata, anche tra i recinti telematici di piazza Affari che ha espulso Fonsai dal paniere delle blue chip. Prima l’ingiunzione di Mediobanca di procedere ad un robusto aumento di capitale di Fondiaria, così robusto da non poter essere affrontato da Ligresti. Poi le ingiunzioni di Consob ed Isvap, prima così distratte, ora assai vigili ed attente. Infine, l’epitaffio-licenziamento via Corriere della Sera nel cui cda siede ancora la diletta figlia Jonella. La pubblicazione di una lettera all’ingegnere di Vincenzo Maranghi, il banchiere che aveva consegnato Fondiaria al costruttore siciliano.

“Sono convinto che Lei sarà consapevole che la gestione del secondo gruppo assicurativo italiano non può più avere un taglio famigliare ma postula un cambio di passo”. Ahimè, quel “cambio di passo” non c’è stato. E quella lettera, ben nota ad Alberto Nagel e Renato Pagliaro, gli eredi di Maranghi, assume oggi il valore del licenziamento postumo. Eppure un anno fa sembrava che l’ingegnere di Paternò avesse trovato ancora una volta un “cavaliere bianco”: Vincent Bolloré, il vicepresidente delle Generali, che aveva individuato in Jean Azéma, numero uno del gruppo assicurativo Groupama il sostegno ideale per Fonsai. Ma l’affare, alla fine, non si fece causa l’obbligo d’Opa imposto dalla Consob di Giuseppe Vegas (buon amico dell’allora ministro Giulio Tremonti). Ligresti, però, riuscì a sostituire Groupama con Unicredit, protagonista di un tentativo di salvataggio costoso quanto inutile.

Fu il canto del cigno per Ligresti, il maestro del capitalismo di relazione che di lì a pochi mesi perse il vero punto di riferimento del sistema: Cesare Geronzi, defenestrato dal vertice del Leone anche grazie all’operoso silenzio di Giulio Tremonti. Intanto saltava anche l’alleato più prezioso sull’altra sponda: Alessandro Profumo, il banchiere di riferimento che lo stesso Ligresti, fino a pochi mesi fa consigliere di Unicredit, aveva difeso a spada tratta fino all’ultimo. All’improvviso, dunque, Ligresti si è scoperto solo, per giunta nel momento peggiore per chi possiede debiti e mattone in quantità industriale. Una catena di disgrazie, dunque, aggravate da una gestione famigliare improvvida. Proprio quel che temeva Maranghi, già “tradito” a vantaggio di Geronzi.

I conti di Fonsai, infatti, sono in piena emergenza: 952 milioni di deficit nel solo 2011, compresa la scoperta di un “buco” di 660 milioni nelle riserve tecniche a garanzia degli assicurati. Per non parlare delle svalutazioni del portafoglio azionario ed obbligazionario (350 milioni in tutto) o della svalutazione di avviamenti (120 milioni) o di immobili (altri 165 milioni). Una vera ecatombe che ha messo a rischio l’indice di solvibilità che misura la capacità di una compagnia di far fronte al pagamento dei sinistri ed agli impegni verso gli assicurati. In casa Fonsai, in questi anni, è stata applicata la regola del cinque: ovvero cinque milioni a testa di stipendio per i tre figli di don Salvatore, Jonella, Giulia e Paolo ma anche per l’ad Fausto Marchionni, uscito nel 2010 con il gruppo in piena sofferenza.

Nessuno ha trovato nulla da ridire, a partire dai collegi sindacali o dai revisori, scelti con cura dall’ingegnere o dai suoi amici (vedi Francesco Micheli in Premafin). E che dire dei periti che hanno ritenuto congruo il prezzo con cui la famiglia ha venduto alla compagnia gli alberghi Atahotels? Sei mesi dopo “l’affare” (25 milioni intascati dai Ligresti) è stata necessaria una svalutazione di 17 milioni più un’altra di 30 milioni l’anno dopo, quando Atahotels ha registrato una perdita di 52 milioni su 110 di fatturato. Una galleria di distratti, tra i quali spicca l’Isvap che, dopo dieci anni di silenzio, dopo anni di silenzio, ha effettuato la prima ispezione su Fonsai nell’ottobre del 2010. L’unico davvero innocente è Toulon, il purosangue della scuderia di Jonella, acquistato nel 2008 grazie ad un leasing di Unicredit: 6,1 milioni per quattro puledri di razza che, per la modica cifra di 1,4 milioni annui, sono stati sponsorizzati da Fondiaria. Eppure su di lui l’Isvap ora ha chiesto “chiarimenti” su di lui, cavallo di razza in mezzo a tanti brocchi.

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