Condividi

Cinema: “The Place”, il patto diabolico di Paolo Genovese

Il film, presentato al recente Festival del cinema di Roma, è tratto da una serie Tv americana “The booth at the end” che sembra aver avuto un discreto successo negli scorsi anni e da poco visibile anche in Italia – Nel cast torna Marco Giallini, entrano Valerio Mastandrea, Rocco Papaleo, Vittoria Puccini.

Nel buddismo sono tre i veleni in grado di inquinare l’anima degli esseri umani: collera, ignoranza e avidità. Quando succede che un individuo entra in uno o più di questi labirinti malefici, per uscirne o liberarsene è possibile che si voglia pagare un prezzo. Può accadere che si debba fare un compromesso con la propria morale oppure cedere una parte o tutta della propria natura, o della stessa propria coscienza. 

Questo il filo rosso del film “The place”, da pochi giorni nelle sale a firma di Paolo Genovese. Si tratta di un racconto cinematografico complesso, articolato, difficile. Un uomo misterioso, ottimo Valerio Mastrandrea, occupa lo stesso tavolo all’interno di un bar (gestito dalla sempre bella e brava Sabrina Ferilli) dove incontra persone che gli pongono  la volontà di realizzare desideri apparentemente impossibili o almeno molto difficili. In cambio della possibile soluzione, gli chiede di fare qualcosa di violento e drammatico. Tutti accettano il patto diabolico ma non sempre riusciranno a portare a termine il compito.  

I diversi personaggi (eccellente il cast: da Marco Giallini a Alba Rorhwacher, Vittoria Puccini, Rocco Papaleo ed altri ancora) si alternano a porre le loro difficoltà e le loro speranze ma, anzitutto, evidenziano la loro solitudine. Questa una possibile chiave di lettura del film, peraltro suggerita anche da immagini e sequenze che richiamano fortemente alcuni quadri del pittore americano Edward Hopper dove sono frequenti i riferimenti alla solitudine e disperazione metropolitana. 

Ognuno è artefice del proprio destino o, per riportare meglio Salvatore Quasimodo, “Ognuno sta solo nel cuor della terra trafitto da un raggio di sole, ed è subito sera”,  e con questa visione i personaggi che si alternano sullo schermo rappresentano perfettamente i drammi che ogni individuo, in un momento o in un altro, è costretto ad affrontare e risolvere talvolta dovendo raggiungere un compromesso. Fino a che punto però si può alzare l’asticella della propria moralità? Quale può essere il limite invalicabile della propria coscienza? Ognuno ha un proprio perimetro dentro il quale è difficile entrare e, ancor più, giudicare quello degli altri. 

“The place” riprende bene la cifra narrativa del precedente successo di Genovese, “Perfetti sconosciuti”, dove tutta la storia si svolge in un unico ambiente e dove la qualità del racconto è tutta teatrale, tutta affidata alle capacità espressive degli attori, alla validità dei testi. Da questo punto di vista “The Place” regge bene, la sceneggiatura è compatta anche se talvolta fa avvitare eccessivamente lo svolgimento delle singole vicende. 

Nel panorama spesso desolante del cinema italiano che appare preso da eccessiva autoreferenzialità, questo film affronta un tema universale con un linguaggio globale. Da vedere con carta e penna, esattamente come fa il protagonista quando incontra i suoi “clienti” ed ha sempre di fronte a sé un grande blocco di appunti dove annota domande e risposte. 

“The place”, presentato al recente Festival del cinema di Roma, è tratto da una serie Tv americana “The booth at the end” (traducibile come il pedaggio a fine corsa) che sembra aver avuto un discreto successo negli scorsi anni e da poco visibile anche in Italia. Si tratta di una delle poche volte che un film è tratto dalla televisione e non viceversa. Tutto però è tratto dalla vita vera, reale, vissuta, che rimane sempre il più grande spettacolo cinematografico. Potrà anche non piacere a tutti ma certamente merita attenzione.

Commenta