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Quanto vale un laurea in tempi di crisi? Sempre meno, soprattutto se altamente qualificata

Secondo lo studio di Almalaurea sulla condizione occupazionale dei laureati italiani, emerge che il titolo di studio tanto ambito vale sempre meno – Sono penalizzati soprattutto gli studenti altamente qualificati, che trovano sempre meno lavoro e vengono pagati meno dei colleghi europei – Ancora troppo ampio il divario uomini-donne e Nord-Sud.

Quanto vale un laurea in tempi di crisi? Sempre meno, soprattutto se altamente qualificata

Più sono qualificati, meno lavorano. E soprattutto, guadagnano sempre meno. E’ il quadro, piuttosto desolante, che emerge dallo studio sulla Condizione occupazionale dei laureati italiani condotto e presentato oggi da Almalaurea.

La fotografia di un Paese in crisi vale sia per i laureati recenti (dal 2007 in poi), per i quali il tasso di disoccupazione è cresciuto di 8 punti percentuali, arrivando al 19,4% per gli studenti che hanno conseguito il titolo nel 2010, sia per chi la laurea l’ha presa tra il 2000 e il 2002, ovvero è entrato nel mondo del lavoro da circa 10 anni. Se è vero che l’88% di loro un lavoro ce l’ha, è altresì vero che la busta paga mensile netta non supera, in media, i 1.620 euro, con alcuni settori, come l’architettura, il letterario e l’insegnamento, che scendono abbondantemente sotto i 1.400.

Non va meglio alla classe 2006, ovvero i lavoratori quinquennali, che hanno visto le loro retribuzioni ridursi del 17% rispetto ai sopracitati colleghi (1.250 euro mensili, -8% solo nell’ultimo anno) e il loro tasso di disoccupazione salire di 3 punti percentuali.

Ma il dato più preoccupante, e più in controtendenza rispetto alla media europea, è quello sul lavoro altamente qualificato. Che, seppure risulti giustamente il più retribuito (medici e ingegneri in testa, con una media di oltre 2mila euro netti al mese tra i lavoratori “decennali”), vede la propria quota di occupati contrarsi, mentre nel resto d’Europa al calo dell’occupazione si è affiancato un incremento delle professioni più qualificate. In Olanda e Gran Bretagna, per esempio, quasi un lavoratore su tre è un “cervellone”, rispetto al 28% registrato a Londra nel 2004. La media Ue è del 22%, stesso valore della Francia, mentre persino la Spagna è passata dal 19 al 21,8% dal 2008 al 2010. In Italia invece solo il 17% dei lavoratori è altamente qualificato, mentre 8 anni fa erano il 19%.

Senza contare, poi, che in Italia rispetto ad altri Paesi i giovani sono pochi e ancora poco formati: solo 20 laureati ogni cento ragazzi di età tra i 25 e i 34 anni, contro la media dei paesi Ocse pari a 37 (mentre in Germania sono 26 su cento, negli Stati Uniti 41, in Francia 43, nel Regno Unito 45, in Giappone 56). Proprio perchè i giovani con una preparazione universitaria costituiscono nel nostro Paese una quota modesta, dovrebbero risultare più appetibili per il mercato del lavoro interno. Invece accade il contrario e, per quanto riguarda l’alta qualificazione, è sempre più probabile che vadano all’estero, dove c’è più domanda e vengono pagati meglio.

Questa fuga di cervelli, sempre secondo l’analisi di Almalaurea, ha radici lontane negli scarsi investimenti in istruzione, ricerca e sviluppo. Fra i 31 paesi dell’Ocse considerati, il finanziamento italiano, pubblico e privato, in istruzione universitaria è più elevato solo di quello della Repubblica Slovacca e dell’Ungheria (l’Italia destina l’1% del PIL, contro l’1,2 della Germania e del Regno Unito, l’1,4 della Francia e il 2,7 degli Stati Uniti). Né le cose vanno meglio nel settore strategico della ricerca e dello sviluppo: il nostro Paese, nel 2009, ha destinato ad esso l’1,26% del PIL, risultando così ultimo fra gli Stati europei più avanzati (Svezia 3,62%, Germania 2,82%, Francia 2,21%, Regno Unito 1,87%). In un settore come questo, cruciale per la possibilità di competere a livello internazionale, risulta debole anche l’apporto proveniente dal mondo delle imprese. In Italia il concorso del mondo imprenditoriale è pari allo 0,67% del PIL, poco più della metà dell’investimento complessivo, molto meno di quanto non avviene nei paesi più avanzati. 

Infine, le disparità. Ancestrale – e confermata dai dati – quella tra Nord e Sud: l’occupazione dei laureati settentrionali del 2010 supera di 17% quella dei colleghi del Mezzogiorno, che guadagnano in media anche il 16,9% in meno. E poi, alla vigilia dell’8 marzo, le donne: anche se rispetto alla media Ue lo scarto tra le retribuzioni di uomini e donne è fra i più bassi, l’Italia è fanalino di coda in quanto a occupazione femminile. Sia in generale, sia, nello specifico dello studio di Almalaurea, tra i laureati a un anno dal conseguimento del titolo (con specializzazione biennale): lavora poco più di una donna su due (54%, 61% i maschi), e solo il 31% di loro ha un’occupazione stabile (37% gli uomini).

Dall’analisi di Almalaurea emerge pertanto il quadro di un Paese che non investe sulla formazione e sui giovani, e che non garantisce ancora condizioni di lavoro (economiche e contrattuali) all’altezza di altri Paesi avanzati. Non è un Paese per giovani, sarebbe banale e scontato commentare. Ma qui c’è di più: oltre alle donne e a chi è nato da Roma in giù, in questo Paese non trovano spazio neppure i migliori. Anzi, sono soprattutto i laureati più veloci e qualificati, con buona pace del sottosegretario Michel Martone, ad essere penalizzati. La domanda è: che futuro può avere un Paese che mortifica le sue eccellenze?

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