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Il reddito di cittadinanza non è la leva per lo sviluppo del Sud

Il Sud, che ha un Pil superiore a quello di Grecia e Portogallo insieme, vive una vera emergenza sociale ma non è fatalmente destinato a una perenne condizione di ritardo strutturale: bisogna decidere che cosa si vuole che sia e che cosa può fare il sistema Italia ma misure assistenziali come il reddito di cittadinanza non sono la via giusta per rilanciarlo

Il reddito di cittadinanza non è la leva per lo sviluppo del Sud

Non si può non concordare con Francesco Drago e Lucrezia Reichlin i quali, sul Corriere del 21 ottobre, dopo aver rilevato che nel documento programmatico di bilancio dell’attuale governo si cita il Mezzogiorno solo due volte (in relazione al progetto di ciclovia dal Brennero a Palermo e del binomio enogastronomia e turismo), hanno dimostrato in maniera inconfutabile il significato solo assistenziale del “reddito di cittadinanza”. L’analisi dei due autori si aggiunge a quelle di numerosi altri che nelle ultime settimane, con varie ragioni, hanno sostenuto non fosse questa la leva per determinare lo sviluppo del Sud. In questo modo, anzi, si irrigidisce la politica economica del governo, si determina come molto probabile il rischio di frenare la tendenza alla ripresa dell’economia meridionale e di quella nazionale, si rende impossibile raggiungere il livello pre-crisi di produzione e di occupazione, si utilizzano risorse in direzioni diverse da quelle che sarebbero necessarie per iniziare ad affrontare i problemi che stanno configurando un futuro straordinariamente preoccupante per il Sud, denso di riflessi negativi su tutto il Paese.

Non c’è dubbio che nel Mezzogiorno si stia diffondendo una vera emergenza sociale (che, tra l’altro, seppure in misura inferiore, interessa anche il centroNord) e che consiste in:

a) un impoverimento demografico numerico e generazionale drammatico. Si prevede che nei prossimi cinquanta anni la popolazione italiana diminuirà di circa 7 milioni, di cui -1.9 nel CentroNord e ben -5.3 nel Mezzogiorno, dove si passerà dagli attuali 20 a 15 milioni di persone, con un indice di vecchiaia che aumenterebbe dal 161% al 275%.

b) un livello di povertà crescente. 10 meridionali su 100 sono in condizione di povertà assoluta (erano 5 nel 2006) e 6 nel Centro-Nord (erano 2.4), in genere concentrati nelle periferie urbane.
c) una estromissione dei giovani dal lavoro. Il tasso di occupazione dei giovani è passato dal 35.8% del 2008 al 28.5% del 2016 (59.8% e 48.1% rispettivamente nel Centro-Nord).

c) un persistente depauperamento di capitale umano. Dal 2002 al 2016 il Mezzogiorno ha visto emigrare 565 mila giovani (su 783 mila del totale Italia) di cui 164 mila laureati ( 219 mila in totale).

E tutto questo sta avvenendo mentre è in atto un processo di trasformazione che sta interessando in profondità i modelli produttivi e il sistema economico globale.

L’alternativa è netta per il Mezzogiorno: si può guardare a questi fenomeni come dati ormai strutturali di un’area destinata irrimediabilmente al ristagno o, al contrario, considerarli criticità profonde e drammatiche contraddizioni, tipiche delle composite società contemporanee che si confrontano ovunque, nella dimensione globale attuale, con problemi simili. Si tratta di scegliere se partecipare, o meno, come sistema Italia comprensivo del Mezzogiorno, alla costruzione del futuro che si sta delineando, appunto, su scala globale.

Il Mezzogiorno non è destinato a una perenne condizione di ritardo strutturale. Siamo di fronte a un’economia che, attraverso una radicale trasformazione, e nonostante le criticità più volte denunciate, si è lasciata alle spalle una realtà terribile di diffusa miseria e arretratezza sociale e produttiva, e che oggi costituisce un pezzo rilevante dell’economia italiana: il Pil meridionale ha una dimensione superiore a quella del Pil della Grecia e del Portogallo messi insieme. Il Mezzogiorno, a livello nazionale, è parte integrante del made in Italy, del sistema turistico, del patrimonio culturale e ambientale, è componente importante del commercio internazionale, rappresenta quasi un terzo della produzione agricola del Paese, ha punte tecnologicamente avanzate nel manifatturiero, esercita un’autorevole e riconosciuta presenza nel mondo della conoscenza e della ricerca.

In più, anche se in un contesto nazionale e internazionale di grande incertezza, e nonostante permanga forte l’emergenza sociale, il Mezzogiorno, come ha rilevato la Svimez, ha consolidato nel triennio 2015-17 un trend di crescita comparabile a quello del resto del Paese, sulla spinta delle esportazioni, dei consumi agroalimentari, della tenuta del turismo (drasticamente diminuito nel Mediterraneo) e del recupero del valore aggiunto del settore manifatturiero. La stessa Confindustria-SRM, a conferma di ciò, ha registrato per due anni consecutivi l’andamento positivo dell’Indice sintetico dell’economia meridionale che tiene conto di ricchezza prodotta, occupazione, numero imprese, export, investimenti (+15 punti solo nel 2017). E ha individuato interessanti segnali di vitalità nell’insieme del mondo delle imprese meridionali , in particolare quelle in rete, le start-up innovative e quelle giovanili.

Alcune luci, quindi, e molte ombre che, insieme, spingono a contrastare la pluriennale caduta di attenzione per quello che è un problema dell’Italia di oggi. In questi ultimi decenni si è passati dalla straordinarietà alla rimozione dell’intervento per il Mezzogiorno, e la politica economica non ha fatto dell’azione di coesione una componente integrante e aggiuntiva dell’azione di sviluppo complessivo.

Di fronte a ciò un’elargizione di denaro per raggiungere 780 euro pro capite è, a dir poco, insufficiente e superficiale. È invece necessario impostare un ventaglio di politiche sociali mirate a combattere a monte la mancanza di reddito, con azioni che incidano sui sistemi educativi e sulla formazione, con prestazioni monetarie per i figli, per la scuola, per i periodi di disoccupazione, per sostenere gli affitti. Ma, soprattutto, bisogna decidere cosa si vuole che sia il Mezzogiorno attuale e cosa si può fare come sistema Italia, agendo in termini differenziali per il Sud ma con visione nazionale. I temi su cui lavorare sono: rilancio degli investimenti pubblici, riforma delle politiche di coesione, continuazione di Industria 4.0, nuovi lavori, collegamento stretto tra Ricerca e Imprese per il trasferimento dell’innovazione tecnologica, collocazione attiva nell’area mediterranea.

1 thoughts on “Il reddito di cittadinanza non è la leva per lo sviluppo del Sud

  1. apprezzo la sua onesta e corretta analisi. Da responsabile vendite di una multinazionale non solo mi trova d’accordo ma io non scopro nulla. Troppo spesso qualcuno per coprire magagne evidenti “usa l’alibi del Sud” . In questo Paese con un livello generale di cultura pauroso si giudica spesso e per comodo con tabelle , statistiche e altro. Al settore agro alimentare aggiungerei aziende tecnologiche di primo ordine e Università che se ne dica che sfornano ottimi laureati. Una becera politica localistica regionale a fermato questo Paese per 30 anni. Solo ritrovando il concetto di Sistema- Paese possiamo sopravvivere all’ Europa e al Mondo …la Storia stupenda della rinascita del dopoguerra insegna

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