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Elkann: l’Italia vuole ancora l’industria dell’auto come la vuole la Fiat?

Orgogliosa impennata del presidente della Fiat che, al meeting di Rimini, va al cuore del problema che blocca l’Italia da anni: vogliamo o no l’industria e le multinazionali? Senza dare una risposta chiara a questa domanda e alle implicazioni politiche e sociali che essa comporta il nostro Paese rischia di perdere la partita dello sviluppo

Elkann: l’Italia vuole ancora l’industria dell’auto come la vuole la Fiat?

“La Fiat continuerà a fare auto. Ma la vera domanda è che cosa ha intenzione di fare l’Italia, se l’Italia ha voglia di fare auto. È necessario creare le condizioni perché si investa nel Paese”. Parola di John Elkann, presidente della Fiat, che assumono un particolare valore data la congiuntura “calda”, non solo sul piano meteorologico, in Italia e nel mondo.
La Fiat, dice l’azionista numero uno del gruppo, non cambia le sue strategie di fronte ad una crisi probabilmente ben più grave delle proiezioni dello stesso Lingotto: il mercato italiano, come ha ricordato Sergio Marchionne, è nelle condizioni peggiori dal 1996 ad oggi (ma forse le cose vanno ancora peggio, ha sottolineato); negli Usa, ormai la seconda patria del gruppo, non si andrà oltre i 12,5 milioni di pezzi venduti nel 2011, come già prevedevano i piani, prudenti per Chrysler (ma si sperava in qualcosa di più); la brutale caduta dei titoli in Borsa (il 42 per cento da inizio agosto) potrebbe far tremare l’azienda più solida del pianeta, cosa che Fiat di sicuro non è.

In questa cornice potrebbe prender corpo la tentazione di scendere a patti con chi sostiene che “oggi la Fiat ha bisogno dell’Italia”, sollecitando implicitamente una marcia indietro del Lingotto sul fronte delle scelte di investimento o nei rapporti con il sindacato o la politica. Ma Elkann ha rifiutato esplicitamente questa strada: la Fiat, azienda guidata da una famiglia che nella sua storia ha affrontato tempeste finanziarie ed economiche altrettanto violente, non intende cambiar rotta. Al contrario continuerà a produrre auto, considerando la fusione con Chrysler, che ha fatto salire a 4 milioni di pezzi il potenziale produttivo, una tappa verso l’obiettivo dei 6 milioni di auto, la soglia critica per essere un produttore globale.

Il gruppo intanto non abdica alle sue radici italiane. Tutt’altro: lo dimostra l’omaggio di Sergio Marchionne e John Elkann al presidente Giorgio Napolitano ; lo conferma la franchezza con cui Elkann e Marchionne intervengono sul caso Italia.
Il problema, dicono i due, non sta solo o soprattutto nel debito pubblico. Il vero nodo riguarda la credibilità del Paese, sia a proposito dei suoi impegni fiscali e finanziari, sia come luogo di lavoro e di sviluppo. Sia, soprattutto, sul fronte della moralità della classe dirigente. Non è il momento, insomma, per chiedere “aiuti” al bilancio pubblico o di dire grazie se, finalmente, nell’ambito della manovra viene riconosciuta la realtà dei rapporti di lavoro così come vengono regolati in giro per il mondo (la “libertà di licenziare”, come viene sbrigativamente riassunta nel gergo quotidiano).

La Fiat , insomma, non chiede di alzare barriere a sua protezione in un Paese che si ostina a difendere le sue diversità clientelari, ma, al contrario, si propone come punto di riferimento per ridurre il gap tra l’Italia e quanto avviene nel resto dell’economia globale. Questo vale per i rapporti di lavoro, cosa che ha suscitato l’ira di parte della sinistra e fortemente imbarazzato le strutture della Confindustria, ma vale anche per l’approccio al debito pubblico. L’affondo di Luca di Montezemolo a favore di una patrimoniale per i super ricchi non dispiace (anzi piace) a Marchionne e, probabilmente, ad Elkann che non si esprime in maniera esplicita per non coinvolgere troppo da vicino Fiat in materie che non competono al gruppo. Ma è evidente che la strada è quella della lotta all’evasione e del contributo di solidarietà a carico di chi può dare e che tanto ha avuto in questi anni di crescita a vantaggio dei profitti e della rendita ma che hanno gravato sulle spalle dei ceti medi e dei più poveri. E’ questa la strada maestra, assai più dell’aumento delle tasse, Iva compresa, che non può che avere effetti depressivi sulla domanda e, di riflesso, sull’economia.

Insomma, in sintesi: 1) la crisi non cambia le strategie Fiat; 2) la scelta di puntare sull’Italia, al di là di quanto già deciso per Pomigliano, riguarda il Paese più che la stessa Fiat che, di fronte agli azionisti, non può accettare trattamenti speciali per il Bel Paese; 3) il gruppo non solo non rinnega le radici italiane ma intende continuare a dir la sua sul caso Italia; 4) la discesa in campo di Luca di Montezemolo non coinvolge la Fiat ma gode della più assoluta simpatia da parte di Marchionne e di Elkann.

Perciò, guai a metter in testa al Lingotto un’etichetta favorevole al centrodestra o alla sinistra. O a sollevare l’eterno ritornello sugli aiuti ricevuti nei decenni passati. Oggi come allora, in realtà, Fiat ha svolto un ruolo essenziale per tenere il Paese agganciato al plotone di testa dei Paesi civili. E intende svolgerlo ancora, al pari di quanto avviene in Polonia o in Brasile. Anche se la via, in tempi di domanda calante e di pressione finanziaria crescente, non sarà facile. Ma tutto è possibile, quando si è credibili. “Io sono disposto a fare qualsiasi cosa per aiutare il Paese se l’obiettivo e’ chiaro”, ha detto Marchionne. Magari anche a spostare la sua residenza fiscale, se questo atto non si presenterà come un ricatto demagogico: l’ad di Fiat non ha da temere per i tributi sulle sue stock options assai pubblicizzate quando valevano centinaia di milioni, dimenticate oggi quando sono in pratica finite in fumo con i ribassi di questi giorni.

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