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L’allarme di Obama sulla crisi dell’Europa vede l’economia come parte della sicurezza nazionale

Una ricerca dell’Istituto di studi strategici spiega le ragioni della crescente preoccupazione americana per la crisi economica europea: per Obama (ma anche per Bush e Clinton) l’economia è parte della sicurezza nazionale e va affrontata globalmente, con l’occhio alla stabilità – Monti è un interlocutore fondamentale degli Usa ma deve incalzare la Germania

L’allarme di Obama sulla crisi dell’Europa vede l’economia come parte della sicurezza nazionale

Perché gli Stati Uniti hanno lanciato l’allarme sulla crisi europea? La pressione va avanti dall’autunno scorso con un crescendo culminato nel rude faccia a faccia del G7 finanziario. E ieri il presidente Usa è tornato alla carica. La spiegazione più ovvia è che Barack Obama teme di non essere rieletto nel novembre prossimo. Il rischio è elevato, Romney si consolida e, senza una solida ripresa, è molto più probabile che gli elettori vogliano un cambiamento comunque. Del resto, questo è il clima che spira in ogni paese, l’America non è certo immune. Anzi. La gente comune è convinta che gli Stati Uniti siano ancora in recessione, nonostante il prodotto lordo salga senza interruzione ormai dal 2010. Ma una crescita asfittica per gli standard a stelle e strisce, una disoccupazione che resta elevata, le famiglie che stentano a ridurre i loro debiti, il mercato immobiliare fermo, tutto ciò trasforma le cifre ufficiali in una illusione statistica.

Dunque, gli Usa non riescono più a far da locomotiva all’economia. La speranza che possa essere la Cina è svanita perché la fabbrica mondiale rallenta. Entro certi limiti è un bene per ridurre l’inflazione interna e sgonfiare la bolla immobiliare prima che esploda. Ma l’impatto sulla domanda internazionale è negativo. Dunque, toccherebbe all’Europa prendere in mano la fiaccola, però in queste condizioni la Ue è una zavorra.

Nel nuovo paradigma post guerra fredda, la sicurezza economica è per gli americani una questione di sicurezza nazionale. Lo spiega molto bene l’Istituto di studi strategici in una ricerca curata da Sheila R. Ronis che guida il progetto di riforma della sicurezza nazionale su mandato del Congresso. Bill Clinton lo ha messo nero su bianco. Insieme a Robert Rubin, “il Cavour della globalizzazione” come lo chiama John Morton, ha fissato i tre principi guida: gli Stati Uniti dovevano funzionare come il facilitatore, il relais di un unico mercato globale e mantenere la pace e la stabilità in modo da consentire il buon funzionamento del sistema multilaterale di scambi mercantili e finanziari. Con Rubin lavoravano Larry Summers e Tim Geithner. Ma anche il banchiere centrale, Alan Greenspan, condivideva lo stesso approccio e per far funzionare al meglio il meccanismo, aveva consigliato al giovane presidente di risanare le finanze pubbliche e portare il bilancio in pareggio. A quella dottrina è rimasto fedele anche George W. Bush e lo è Barack Obama, tanto più dopo la nuova alleanza con Clinton.

All’indomani dell’11 settembre, la grande paura era che partisse un attacco finanziario tale da far crollare Wall Street. Di qui l’ordine di stampare moneta a rotta di collo. Lo racconta Greenspan nella sua autobiografia e sta qui la radice degli “errori” di politica monetaria commessi negli anni successivi: nessuno se la sentiva a quel punto di sgonfiare la grande bolla. Negli equilibri economico-politici di questo nuovo decennio, è ormai chiaro che le aree di primaria importanza strategica circondano due mari: il Mediterraneo e il Mar Cinese. Per controllare quest’ultimo, gli Usa fanno affidamento sul Giappone e, sempre più, sulla Corea del Sud e sulle Filippine (senza contare che il Vietnam sta diventando un paese essenziale nel contenimento dell’espansionismo cinese). Per il Mediterraneo, ci vuole l’Europa. Ebbene, le primavere arabe e la guerra libica hanno dimostrato che gli europei vanno in ordine sparso, tentati dal culto avventuristico per l’azione diretta come nel caso di Sarkozy o dal fascino discreto del disimpegno come nel caso della Germania.

La stessa Nato, a questo punto, è a rischio. Mentre appare allarmante sotto ogni profilo che vengano indeboliti e lasciati a se stessi i tre pilastri della stabilità militare nel Mediterraneo: l’Italia, la Grecia e la Spagna. Guarda caso proprio i paesi prostrati dalla crisi e messi alla gogna dalla Germania. Per l’Italia, il potenziamento delle basi militari è già in atto e la decisione di dotare di missili i droni sul territorio italiano è un messaggio chiaro (anche in vista di un eventuale conflitto con l’Iran che nessuno vuole, ma di cui tutti parlano). In Grecia le strutture chiave sono i porti messi nel mirino dai cinesi per ragioni economiche e dai russi per ragioni strategico-militari. Quanto alla Spagna, più appartata rispetto all’arena medio-orientale, è tuttavia essenziale per contenere l’onda sociale e politica nord africana.

Sicurezza e stabilità, dunque, sono priorità assolute che abbracciano, senza soluzione di continuità, politica economica, estera e militare. Gli americani vorrebbero che la Bce stampasse moneta, acquistasse i titoli degli stati e delle banche in difficoltà, mentre i governi alimentano l’ESM che dovrebbe partire ai primi di luglio. Ciò potrebbe invertire le aspettative dei mercati e dare almeno sei mesi di tempo (probabilmente molto di più) consentendo di consumare la tragedia greca e attendere che la Germania vada con meno angoscia e, si spera, più visione, al voto nel settembre 2013. Intanto, saranno passate le elezioni americane.

Se vince Obama, il multipolarista, aumenterà la sua pressione affinché l’Europa diventi sempre più un soggetto attivo e unificato. Se prevale Romney, che pure non è un isolazionista, è molto probabile che gli Usa agiscano in modo più drastico, recuperando la piena autonomia del dollaro (sia verso l’euro sia verso lo yuan) e alzando la posta militare a sostegno di Israele e contro l’Iran. A quel punto, l’Italia diventa una gigantesca portaerei.

Tutto questo fa parte del lavorio diplomatico in vista del G20 (il 17 e 18 a Guadalajara, in Messico). Dovrebbe entrare anche nel vertice europeo di fine mese. Se la crisi non viene affrontata finalmente con un respiro politico non solo eurocentrico, non se ne esce. E’ interesse dell’Italia che ciò avvenga, Mario Monti se ne rende conto. E fin dall’incontro di gennaio scorso ha giustamente messo in risalto il legame tra Italia e Stati Uniti, talvolta appannato, mai allentato e tornato di nuovo saldo in questa fase.

Il presidente del Consiglio dovrebbe dunque presentarsi a Bruxelles con due dossier sotto il braccio: a destra la crisi dei debiti e a sinistra la nuova strategia mediterranea. Incalzando su questo la Germania e sfidando Berlino a mostrare quella solidarietà di alleato che è venuta meno nel caso della Libia e nella strategia sull’immigrazione illegale (anche se qui lo sgarbo peggiore è venuto dalla Francia). Tutto si tiene, uno degli errori analitici e politici commessi dai tedeschi è aver isolato gli aspetti finanziari della crisi, ammantandoli di giustificazioni etico-ideologiche talvolta fondate talvolta vittime dei luoghi comuni e dei pregiudizi. Quel che ci vuole oggi, è un approccio a tutto tondo. Ciò attribuisce nuove e forse ancor più gravi responsabilità ai paesi in prima linea. Ma essi hanno bisogno di solide retrovie e rifornimenti sicuri: come ogni buon comandante sa, le guerre si perdono quando le avanguardie restano isolate. Gli americani lo chiamano overstretching, ma già Napoleone ne ha fatto le spese. Per non parlar di Hitler.

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