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Il lavoro non si crea con il vincolismo garantista e il decreto Poletti sa troppo di passato

Parafrasando un Carosello di molti anni fa (“Gigante buono, pensaci tu”) bisognerebbe dire: “Renzi pensaci tu con il tuo jobs act”, anche se il cammino della conversione in legge del Decreto Poletti non è un prologo dei migliori, condizionato com’è da quelle persistenti forze conservatrici e sindacali tuttora ancorate a una cultura novecentesca del lavoro.

Il lavoro non si crea con il vincolismo garantista e il decreto Poletti sa troppo di passato

Negli ultimi 25/30 anni il mondo del lavoro è stato investito da una serie di fenomeni che ne hanno progressivamente modificato la strutturalità. A metà degli anni ottanta la rivoluzione tecnologica dei sistemi produttivi ha trasformato l’operaio-massa da fattore di produzione a tecnico conduttore/controllore di impianti automatizzati ed informatizzati.

Nel decennio successivo, la focalizzazione delle imprese sul proprio “core business” ha determinato un processo di ridisegno dei perimetri organizzativi aziendali mediante la “esternalizzazione” delle attività ritenute non strategiche, cioè di tutto ciò che, non essendo percepito come valore distintivo dal cliente, può essere acquistato da terzi a costo inferiore.

Si sono così implementate aziende che, a loro volta, hanno fatto della loro attività un business distintivo, dalla logistica ai servizi generali, dalla impiantistica industriale alla manutenzione ordinaria e straordinaria, dai servizi alla clientela con i call center ai servizi di back office, dalla information and comunication technology all’ e-commerce, e così via.

L’oscillazione della domanda in questi settori ha nel contempo comportato l’affermazione di forme di lavoro diversificate e flessibili, come il lavoro parasubordinato, quello interinale o autonomo. La globalizzazione produttiva e l’internalizzazione dei mercati ha poi accentuato le esigenze di un rapido adattamento degli organici delle imprese alle variazioni della domanda: da qui la necessità di rispondere in tempi sempre più rapidi alle mutevoli condizioni del mercato con la propensione delle aziende a instaurare, la ove possibile, rapporti di lavoro a tempo determinato o, nel caso di rapporti a tempo indeterminato, a flessibilizzare la prestazione lavorativa in termini di modulazione dell’orario di lavoro.

Per ultimo, la perdurante crisi economica e finanziaria sta ora desertificando nel nostro Paese la presenza manifatturiera, in particolare della piccola e media impresa, con la conseguente messa in crisi del sistema degli ammortizzatori e del welfare sociali. In questo contesto, le leggi del mercato globale e la crisi economica hanno definitivamente reso obsoleto uno degli assi portanti su cui si è modellato il nostro diritto del lavoro, il posto di lavoro garantito a vita. 

Se con il modello fordista-taylorista, basato sulla suddivisione tra chi pensa e chi esegue, si era affermato, come prototipo normativo del lavoratore subordinato, l’operaio comune, nel mondo del lavoro odierno si è ormai realizzata una diversificazione delle identità sociali dei lavoratori. Ciò comporta la progressiva insostenibilità delle tradizionali pratiche garantiste che continuano a permeare le normative sul lavoro, mentre non è più dilazionabile l’esigenza di sostituire alla rigidità il principio della flessibilità nella disciplina del rapporto di lavoro.

Tramontato definitivamente il mito di perseguire, a volte con notevoli forzature, l’obiettivo della piena occupazione con una normativa vincolistica del rapporto di lavoro, mito che ha caratterizzato nel secolo scorso generazioni di giuslaboristi, legislatori e magistrati del lavoro, il legislatore nel corso degli anni e’ intervenuto solo sulla flessibilizzazione delle tipologie contrattuali piuttosto che sulla regolamentazione della flessibilità in uscita o della prestazione lavorativa. In altri termini, a differenza del modello tedesco, il campo di azione legislativa si è limitato al mercato del lavoro non protetto dal sindacato, giovani, partite IVA e disoccupati, mentre non si è voluto o potuto intervenire sui “diritti garantiti” dei lavoratori a tempo indeterminato ed iscritti al sindacato.

Infatti, nonostante l’organizzazione delle imprese su base multinazionale permetta ora di realizzare veri e propri ordinamenti e mercati del lavoro autonomi, modulati sulle varie normative nazionali, legali e contrattuali e di fare shopping fra quelle più favorevoli, nel nostro diritto del lavoro permangono tetragoni i due tabù sia della rigidità in uscita con la tutela “reale” del posto di lavoro, garantita dall’ art. 18 dello Statuto dei Lavoratori del 1970, che della rigidità della prestazione di lavoro con la immodificabilità in peius delle mansioni e della irriducibilita’ della retribuzione, sancite dall’ art. 2103 del codice civile.

La vera riforma strutturale del nostro diritto del lavoro sarà dunque quella di spogliarsi dei retaggi del passato per ricercare nuove vie come “il diritto alla formazione permanente e alla impiegabilita’”, l’unica vera “tutela” che il lavoratore dovrà esigere in un futuro sempre più caratterizzato da una vita lavorativa spezzata tra lavoro e ineludibile aggiornamento professionale.

Parafrasando un Carosello di molti anni fa da “Gigante buono pensaci tu” a “Matteo Renzi pensaci tu con il tuo jobs act”, anche se il cammino della conversione in legge del Decreto Poletti non è un prologo dei migliori, così come condizionato da quelle persistenti forze conservatrici e sindacali tuttora ancorate ad una cultura novecentesca.

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