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Giustizia, il Recovery richiede una vera riforma e non pannicelli caldi

La riforma della giustizia è una delle priorità che la Commissione europea ci chiede per attivare i finanziamenti del Recovery Plan ma è non quella timidissima in discussione in Parlamento: per aggredire davvero i nodi che paralizzano il sistema giudiziario italiano occorrono cambiamenti profondi e coraggiosi in grado di produrre risultati verificabili

Giustizia, il Recovery richiede una vera riforma e non pannicelli caldi

La riforma della giustizia discussa in Parlamento non è la risposta alle raccomandazioni della Commissione europea di rendere efficiente il sistema giudiziario in Italia. Quindi non servirà a far accettare il Recovery Plan e ad attivare i suoi finanziamenti, prestiti e sussidi. Vediamo perché, alla luce delle linee guida riviste appena pubblicate dalla Commissione.

Il Recovery Plan italiano ha adottato nella sua premessa la riforma della giustizia e della Pubblica Amministrazione come priorità. È sempre più facile mettere le scelte giuste nella premessa che specificare l’allocazione dei fondi in modo coerente con la priorità. Nell’ultima versione, inviata informalmente a Bruxelles, l’accoppiata riforme e investimenti è finalmente presente. Ma se andate alla Componente 1.1 sulla digitalizzazione e modernizzazione della PA, per la giustizia troverete i contenuti della proposta di riforma del 2019 in discussione alla Camera. Questa riforma, figlia dello scandalo del Csm, viene presentata come finalizzata all’efficienza della giustizia, misurata dai tempi necessari per ottenere una sentenza. A questo scopo, oltre alla spolveratina di digitalizzazione e assunzioni di personale che sono equamente distribuite a tutte le componenti del Piano, la riforma della giustizia contiene proposte per fissare il calendario delle udienze e alcune lievi modifiche procedurali nel processo di primo grado.

Ma è nel primo grado di processo che si accumula il ritardo rispetto agli altri paesi Eu? No. I confronti tra i paesi europei, aggiornati al 2018 dal Cepej, mostrano che il maggior ritardo è in Cassazione: 1.266 giorni sono il tempo mediano necessario per chiudere un caso nel civile contro un tempo mediano in Europa di 207 giorni. Per il primo grado di processo servono 527 giorni in Italia contro 122 in Europa.

Dato che i ritardi si accumulano in Cassazione, perché non c’è nulla che la riguardi (a parte l’arretrato del contenzioso tributario) in una riforma che si propone di tagliare i tempi dei processi? Ricordiamo che l’Europa ci ha appena ripetuto che le riforme devono essere “sostanziali e credibili”, quindi devono individuare e rimuovere le cause dell’inefficienza, sia i tempi dei processi che l’incertezza sulle sentenze. E la causa è comune: l’impossibilità da parte della Cassazione di svolgere il suo ruolo di interprete ultimo delle leggi, dovuta alle 80.000 cause che si abbattono sulla Cassazione ogni anno, prodotte dai 55mila avvocati che possono patrocinare in Cassazione.

La soluzione è la specializzazione degli avvocati. Questa è “l’esperienza maturata in altri paesi”, criterio citato nel Piano senza applicarlo. Prendiamo un sistema giudiziario vicino al nostro, con la stessa derivazione dal diritto romano: la Francia ha 100 (cento) avvocati che possono patrocinare in Cassazione. La Germania ne ha di meno. In tutti i paesi avanzati la Cassazione può svolgere il suo ruolo d’interprete ultimo delle leggi perché – istituzionalmente o consuetudinariamente – pochi avvocati abilitati alla Corte Suprema filtrano essi stessi i casi meritevoli di discussione alla Corte.

Liberata la Corte dalle multe stradali e cause di condominio, l’interpretazione delle leggi diverrà univoca e le conseguenze saranno due:

  1. scomparirà l’incertezza sul risultato di una causa;
  2. cesserà lo tsunami di più di un milione di cause l’anno del solo civile.

Si può fare semplicemente introducendo nella legge ordinaria che regola l’accesso dei laureati in giurisprudenza alle professioni legali l’opzione di patrocinare in Cassazione o in alternativa agli altri due livelli di giudizio. Il risultato sarà a breve termine e testimonierà la serietà dell’Italia a rimuovere gli ostacoli alla crescita e alla convergenza con l’Europa.

A più lungo termine sarà utile la proposta nel 2012 dell’allora ministro Severino di istituire un corso postuniversitario di due anni con esame finale per l’abilitazione al patrocinio dinanzi la Cassazione. Per l’efficienza della giustizia, che si misura nei tempi dei processi, le best practice conosciute sono queste. Non un “Ufficio del processo” citato dal Piano, visto che, se lo cerchiamo sul sito statistico ufficiale della giustizia, otteniamo la risposta “nessun elemento corrisponde alla ricerca”: alla faccia della best practice.

La proposta di riforma adottata nel Piano riconosce che occorre introdurre requisiti di capacità manageriale nella scelta dei dirigenti dei tribunali. Come? Occorre reintrodurre una reale valutazione dei giudici e ripristinare scelte basate sui meriti professionali, raccogliendo dati sulla performance dei giudici nello svolgimento dei processi, la percentuale di sentenze riformate in appello o annullate in Cassazione se superiori alla media, per inserirli nei fascicoli personali che sono l’unica fonte d’informazione ammessa ufficialmente per le cariche dirigenziali e per l’elezione al Csm. Non c’è nulla di ciò nel Piano.

Le proposte di piccole modifiche procedurali nel tribunale di prima istanza e la piccola spinta alla mediazione contenuti nel progetto di riforma in discussione alla Camera non fanno male, ma non possono raggiungere il risultato della riduzione dei tempi del processo. Ci si può solo stupire della mancanza di una semplice modifica procedurale della mediazione – non arrestare la procedura se il convenuto non si presenta – che potrebbe aumentare i casi risolti oggi fermi al 30% dei procedimenti iniziati.

Invece la best practice consolidata in tutti i Paesi avanzati della specializzazione degli avvocati farebbe raggiungere l’obiettivo della riduzione dei tempi e dell’incertezza della giustizia, impedendo il riaccumulo di milioni di cause inevase.

Per inserire nella riforma la specializzazione degli avvocati e la valutazione dei giudici basata sul merito occorre però che i nostri politici facciano propria la differenza tra i finanziamenti del Next Generation EU e i fondi europei di coesione. I famosi 209 miliardi di euro del Recovery Fund richiedono il raggiungimento dei risultati intermedi e finali delle riforme e degli investimenti nei tempi stabiliti. Solo l’anticipo è basato sul Piano approvato. Mentre per i fondi coesione è sufficiente il rendiconto dei costi sostenuti. Sono due mondi diversi.

L’Italia rischia, se non l’approvazione del Piano, di restare col solo anticipo, che può forse soddisfare le esigenze di qualche gruppo parlamentare, ma certamente non riavviare la crescita potenziale della nostra economia. In conclusione: abbiamo due mesi per definire il Recovery Plan con la dovuta attenzione alla qualità delle riforme, i risultati intermedi e i tempi di attuazione, come ricorda Gentiloni.Lasciando da parte per il momento il vuoto della governance del Piano, dati i tre assi strategici e le sei missioni anche europee, tutti quanti possano contribuire con le loro competenze al Piano di rilancio devono essere precisi nel suggerire miglioramenti o anche profonde modifiche delle componenti e dei progetti. Solo così il Piano potrà essere modificato se e quando i politici si renderanno conto di dover agire per la next generation sul serio, raggiungendo i risultati intermedi, definiti con indicatori numerici, nei tempi utili a ottenere l’obiettivo stabilito. Perché l’Europa controllerà che i finanziamenti servano in modo sostanziale alla ripresa del Paese e alla sua coesione sociale.

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