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Ligresti, le tappe dell’inesorabile declino

L’ingegnere di Paternò era stato negli ultimi decenni uno dei finanzieri più potenti d’Italia, che deteneva le chiavi d’accesso al club più esclusivo del potere (cioè quote strategiche in Mediobanca, Rcs, Pirelli, Generali e non solo): potere che, dal 2010 agli arresti domiciliari di oggi, è andato a pezzi, tanto che la Borsa ora può quasi ignorarlo.

Ligresti, le tappe dell’inesorabile declino

L’ultima zampata del patriarca risale all’autunno del 2010. In un giorno d’ottobre, mentre l’ad di Mediobanca Alberto Nagel si intrattiene con gli analisti dopo l’assemblea di bilancio, don Salvatore Ligresti si incontra in piazzetta Cuccia con Vincent Bolloré, il socio forte della cordata francese, alleato di Cesare Geronzi, nuovo presidente delle Generali.  “Ci hanno chiesto la stanza numero sette, senza dirci niente”, rivelerà lo stesso Nagel due anni dopo, nel pieno del conflitto Fonsai che gli costerà un avviso di garanzia.  Ma Ligresti si guarda bene dal rivelare ai vertici della banca il merito della discussione: il piano prevede che Bollorè rastrelli titoli Premafin, la capofila del gruppo Ligresti,  fino a farli salire alla soglia di 1,1 euro per poi lasciar spazio a Jean Azema, il numero uno di Groupama anche lui consigliere di Mediobanca, che così  diventerà socio dei Ligresti  garantendo i soldi per l’aumento di  capitale Fonsaila parabola, sottraendo il gruppo dalla morsa dei creditori. A partire dalla stessa Mediobanca. Ma il piano, audace, fallì. I motivi? C’erano ormai troppe smagliature nella tela paziente che l’ingegnere di Paternò aveva tessuto per decennni: in Mediobanca non c’era più Enrico Cuccia, manemmeno Cesare Geronzi; in Unicredit, l’altro grande creditore, l’ultima parola sul dossier Fonsai spettava a Fabrizio Palenzona, deciso a tutelare l’asse di ferro con Mediobanca; sul fronte politico, la questione era nelle mani di Giulio Tremonti, ben deciso  a spuntare le ali sia a Ligresti che a Geronzi, ovvero le due antenne più sensibili di Silvio Berlusconi nella finanza del Nord.

E così cominciò il declino inesorabile di Salvatore Ligresti, l’uomo che ha custodito in portafoglio per decenni le chiavi d’accesso al club più esclusivo del potere finanziario (cioè quote strategiche in Mediobanca, Rcs, Pirelli, Generali e non solo) e che per anni ha saputo far da ponte, sotto il segno degli affari, tra politica e business. Non a caso fu lui, nel 1986, l’anno del suo esordio in Piazza Affari alla guida della Grassetto, ad organizzare, con grande discrezione, il primo incontro tra Cuccia e l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi. Un potere che, dall’autunno del 2010 agli arresti domiciliari di stamane, è andato a pezzi, picconata dopo picconata tanto che oggi la Borsa milanese può quasi ignorare gli effetti di un arresto che meno di de anni fa avrebbe fatto tremare dalle fondamenta mezzo listino. Lo stesso capita nell’immobiliare, l’attività più amata dall’ingegnere di Paternò, che a tutti ripeteva di aver cominciato edificando “un sopralzo” in un appartamento. Oggi non si fermano le gru di Citilife, ceduta a Generali ed Allianz, né quelle all’opera nei grandi progetti della città: Manfredi Catella, ad di Catella Hines, che pure ha speso parole d’affetto filiale per Ligresti, ha ormai sostituito i Ligresti nel ruolo di motore (un po’ ingolfato per la verità) dello sviluppo immobiliare della metropoli.

Non si è arreso senza combattere, il vecchio leone. L’epilogo, drammatico, ha un che di farsesco anche tra i recinti telematici di piazza Affari che ha espulso Fonsai dal paniere delle blue chip. Prima l’ingiunzione di Mediobanca di procedere ad un robusto aumento di capitale di Fondiaria, così robusto da non poter essere affrontato da Ligresti.  Poi le ingiunzioni di Consob ed Isvap, prima così distratte, ora assai vigili ed attente. Infine, l’epitaffio-licenziamento via Corriere della Sera nel cui cda siede ancora la diletta figlia Jonella. La pubblicazione di una lettera all’ingegnere di Vincenzo Maranghi, il banchiere che aveva consegnato Fondiaria al costruttore siciliano. “Sono convinto che Lei sarà consapevole che la gestione del secondo gruppo assicurativo italiano non può più avere un taglio famigliare ma postula un cambio di passo”. Ahimè, quel “cambio di passo” non c’è stato. E quella lettera, ben nota ad Alberto Nagel e Renato Pagliaro, gli eredi di Maranghi, assume oggi  il valore del licenziamento postumo.

Eppure un anno fa sembrava che l’ingegnere di Paternò avesse trovato ancora una volta un “cavaliere bianco” : Vincent Bolloré, il vicepresidente delle Generali che aveva individuato in Jean Azéma, numero uno del gruppo assicurativo Groupama il sostegno ideale per Fonsai. Ma l’affare, alla fine, non si fece causa l’obbligo d’Opa imposto dalla Consob di Giuseppe Vegas (buon amico dell’allora ministro Giulio Tremonti). Ligresti, però, riuscì a sostituire Groupama con Unicredit, protagonista di un tentativo di salvataggio costoso quanto inutile. Fu il canto del cigno per Ligresti, il maestro del capitalismo di relazione che di lì a pochi mesi perse il vero punto di riferimento del sistema: Cesare Geronzi, defenestrato dal vertice del Leone anche grazie all’operoso silenzio di Giulio Tremonti. Intanto saltava anche l’alleato più prezioso sull’altra sponda: Alessandro Profumo, il banchiere di riferimento che lo stesso Ligresti, fino a pochi mesi fa consigliere di Unicredit, aveva difeso a spada tratta fino all’ultimo. All’improvviso, dunque, Ligresti si è scoperto solo, per giunta nel momento peggiore per chi possiede debiti e mattone in quantità industriale.

Una catena di disgrazie, dunque, aggravate da una gestione famigliare improvvida. Proprio quel che temeva Maranghi, già “tradito” a vantaggio di Geronzi. I conti di Fonsai, infatti, sono in piena emergenza:  952 milioni di deficit nel solo 2011, compresa la scoperta di un “buco” di 660 milioni nelle riserve tecniche a garanzia degli assicurati. Per non parlare delle svalutazioni del portafoglio azionario ed obbligazionario (350 milioni in tutto) o della svalutazione di avviamenti (120 milioni) o di immobili (altri 165 milioni). Una vera ecatombe che ha messo a rischio l’indice di solvibilità che misura la capacità di una compagnia di far fronte al pagamento dei sinistri ed agli impegni verso gli assicurati. In casa Fonsai, in questi anni, è stata applicata la regola del cinque: ovvero cinque milioni a testa di stipendio per i tre figli di don Salvatore, Jonella, Giulia e Paolo ma anche per l’ad Fausto Marchionni, uscito nel 2010 con il gruppo in piena sofferenza. Nessuno ha trovato nulla da ridire, a partire dai collegi sindacali o dai revisori, scelti con cura dall’ingegnere o dai suoi amici (vedi Francesco Micheli in Premafin).  E che dire dei periti che hanno ritenuto congruo il prezzo con cui la famiglia ha venduto alla compagnia gli alberghi Atahotels? Sei mesi dopo “l’affare” (25 milioni intascati dai Ligresti) è stata necessaria una svalutazione di 17 milioni più un’altra di 30 milioni l’anno dopo, quando Atahotels ha registrato una perdita di 52 milioni su 110 di fatturato. 

Una galleria di distratti, tra i quali spicca l’Isvap che, dopo dieci anni di silnezio, la prima ispezione su Fonsai la fa nell’ottobre del 2010. L’unico davvero innocente è Toulon, il purosangue della scuderia di Jonella, acquistato nel 2008 grazie ad un leasing di Unicredit: 6,1 milioni per quattro puledri di razza che, per la modica cifra di 1,4 milioni annui, sono stati sponsorizzati da Fondiaria. Eppre su di lui  l’Isvap ora ha chiesto “chiarimenti” su di lui, cavallo di razza in  mezzo a tanti brocchi.


Allegati: Fonsai, arrestata tutta la famiglia Ligresti

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