Condividi

Lavoro: gli ammortizzatori sociali dalla Fornero al Jobs Act

L’Ufficio pubblico di bilancio, un organismo parlamentare che si occupa di controllare l’impatto che le leggi hanno sui conti dello stato, ha elaborato un report che ha analizzato i principali risultati delle riforme del lavoro approvate negli ultimi anni, dalla Legge Fornero al Jobs Act, nonostante manchino ancora alcune parti da valutare.

Lavoro: gli ammortizzatori sociali dalla Fornero al Jobs Act

Negli ultimi sette anni le riforme del mercato del lavoro sono state due, l’ultima – il cosiddetto Decreto Dignità è in corso di approvazione alle Camere. Quelle precedenti sono state elaborate nel 2011 dall’allora ministro del lavoro Elsa Fornero in un momento di grave crisi per il paese e che ha costretto il governo ad assumere una serie complessa di decisioni per scongiurare il tracollo finanziario della penisola. Il secondo provvedimento, il Jobs Act, è stato introdotto con una serie di provvedimenti da Matteo Renzi tra il 2014 e il 2015. Ogni legislatura fa i suoi conti e promesse, ma è difficile tracciare un segno di continuità.

L’Ufficio pubblico di bilancio, un organismo parlamentare che si occupa di controllare l’impatto che le leggi hanno sui conti dello stato, ha elaborato un report che ha analizzato i principali risultati delle recenti riforme del lavoro, nonostante manchino ancora alcune parti da valutare: se da una parte la legge Fornero aveva introdotto tra le altre cose la nuova assicurazione per l’impiego per il lavoro subordinato (NASPI), il Jobs Act si era preoccupato di rendere più aperto il mercato del lavoro puntando sulle politiche attive del lavoro. Storicamente l’Italia si è caratterizzata per un sistema di ammortizzatori sociali protettivo e rivolto al comparto del lavoro dipendente a tempo indeterminato, ma al di fuori di tale perimetro le coperture rimanevano frammentarie e poco efficaci.

La riforma “Fornero” e il Jobs Act hanno ridefinito le specificità degli istituti del welfare pubblico, ribadendo la loro natura prettamente assicurativa e marcando le differenze interne tra strumenti di tutela dalla disoccupazione e strumenti di contrasto alla riduzione del reddito in costanza di rapporto lavorativo che, soprattutto all’indomani della crisi del 2008, si erano attenuate a causa degli utilizzi straordinari o in deroga. Secondo i dati disponibili sull’evoluzione della spesa nel tempo dal report emerge che le indennità di mobilità e quelle di disoccupazione sono prima aumentate a ridosso della crisi economica (2008-2012) e poi si sono ridotte gradualmente sia per il venir meno degli effetti più acuti della crisi sia per l’introduzione con la Fornero di nuovi strumenti come la NASPI, di cui nel 2016 i beneficiari sono state due milioni di persone.

Per quanto riguarda gli strumenti rivolti ai disoccupati, gli oltre 12 miliardi di risorse dedicate alla NASPI nel 2016 si confrontano con i circa 7,5 miliardi destinati nel 2007 alle indennità di mobilità e alle indennità di disoccupazione. Inoltre, gli oltre 2 milioni di percettori NASPI nel 2016 vanno confrontati con i circa 1,8 milioni di beneficiari delle indennità nel 2007.

Dall’analisi emerge che, sebbene vi sia stato un recupero negli ultimi anni, la spesa a fronte di fenomeni di disoccupazione (al netto del TFR) continua a rimanere in Italia più bassa rispetto a quella media degli altri paesi della UE15. Sulla base dei dati Eurostat sulla spesa per disoccupazione tra il 1995 e il 2007, l’Italia si colloca su valori inferiori di oltre un punto percentuale di PIL rispetto a quelli medi dei paesi appartenenti alla UE15 e ancora più bassi se il confronto è fatto rispetto a Francia e Germania.

Negli anni successivi, con la crisi economica e l’applicazione in deroga degli ammortizzatori sociali, la spesa italiana raggiunge l’1,7 per cento del PIL allineandosi con quelli medi europei e superando quelli della Germania (in contrazione sin dalla metà degli anni ’90). Se si considera la spesa al netto delle liquidazioni di TFR connesse con la perdita di lavoro (0,97 per cento del PIL) l’Italia, pur avvicinandosi alla media UE15, resta, assieme al Regno Unito, il paese con minori esborsi per il contrasto della disoccupazione.

Dal canto suo, oltre a riformare il pilastro pubblico degli ammortizzatori, il Jobs Act ha introdotto due collegamenti strutturali importanti. Il primo, del tutto inesistente in precedenza, ha riguardato il mondo della bilateralità, mentre il secondo, solo in parte già esistente, ha riguardato le politiche attive. Il collegamento strutturale, quello tra politiche passive e politiche attive, ha definitivamente completato un processo di costruzione normativa aperto da anni.

A collegare il lato passivo e quello attivo delle politiche del lavoro concorrono anche le rinnovate versioni dei Contratti di solidarietà espansivi e dei Lavori socialmente utili, altri due istituti che il Jobs Act ha provato a revitalizzare.

I legami con le politiche attive sono divenuti estremamente importanti: nel nuovo quadro degli strumenti passivi disegnati dal Jobs Act, la preservazione del capitale umano, la sua riqualificazione e la permanenza tra gli attivi sono elementi essenziali per un adeguato funzionamento dell’intero sistema di welfare. Tuttavia, se sulla carta il disegno dei collegamenti tra politiche passive e politiche attive appare oggi quasi completo e sufficientemente dettagliato, è tutta la “macchina” delle politiche attive (istituzioni, strumenti, governance, programmazione delle risorse, ecc.) che deve ancora essere rodata e dimostrare di realizzare le importanti funzioni sistemiche di cui è diventata depositaria.

Il report stilato, pur non approfondendo il tema delle politiche attive, rileva che, da una parte, esistono elementi importanti ancora da completare, a cominciare dalla piena operatività dell’Agenzia nazionale politiche attive del lavoro (ANPAL) e dei suoi rapporti con le regioni e i provider di servizi e, dall’altra, sono ancora in fase sperimentale alcuni istituti di collegamento tra lato passivo e attivo delle politiche per il lavoro. Il confronto internazionale mostra come l’Italia, anche dopo i progressi fatti registrare negli ultimi anni, dedichi ancora risorse inferiori ai principali partner, con la debolezza più evidente che si manifesta proprio sul fronte dei servizi per il mercato del lavoro all’interno delle politiche attive ai quali è dedicata una percentuale di PIL molto modesta (0,04 per cento), tra le più basse in Europa.

Appare chiaro che l’avvento del nuovo governo e soprattutto la nuova proposta del mercato del lavoro collegata al cosiddetto Decreto dignità condurrà lo stesso verso un’altra direzione che probabilmente il prossimo report aiuterà a chiarire.

Commenta