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Detroit dichiara la bancarotta, a rischio la tenuta sociale

La Motor City americana per eccellenza si arrende alla corruzione e alla malagestione, cause di un buco da 20 miliardi di dollari – La procedura fallimentare (Chapter 9) si prevede porterà a violenti scontri con i creditori, tra i quali gli ex dipendenti pubblici.

Detroit dichiara la bancarotta, a rischio la tenuta sociale

Detroit è fallita. La città simbolo della vocazione industriale americana le cui ultime speranze di rilancio erano legate anche al contributo italiano con la Fiat, ha ufficializzato il proprio dissesto finanziario.

Il commissario straordinario Kevin Orr, imposto a dicembre 2012 per cercare di scongiurare l’inevitabile ha valutato il ricorso alla procedura fallimentare come l’alternativa migliore. In questo modo sarà possibile ridurre d’imperio i costi di gestione della macchina amministrativa cautelandosi al contempo dai creditori.

Il Chapter 9 della legge fallimentare americana, che disciplina il fallimento degli enti pubblici, assegna in teoria ampi poteri a Orr e al giudice fallimentare per reindirizzare la gestione su un giusto binario. Tuttavia le dimensioni della bancarotta, circa 20 miliardi di dollari, e il soggetto coinvolto, la più grande città americana che sia mai stata coinvolta nella procedura, rende molto incerto l’evoluzione della vicenda. E’ infatti presumibile l’accanita opposizione dei creditori, tra i quali gli ex dipendenti della città che rischiano di ottenere il 10% delle pensioni a cui avrebbero diritto. I debiti con le conseguenze sociali più devastanti, quelli relativi all’assistenza sanitaria e appunto la spesa pensionistica, ammontano a ben 9 miliardi di dollari. In una città che già soffre di una criminalità dilagante, l’eventuale taglio potrebbe rappresentare il colpo di grazia a qualsiasi speranza di tenuta sociale ovvero di rilancio.

Il declino di Detroit, che è passata dai 7 milioni di cittadini negli anni ’50 ai 714 mila attuali, affonda le sue radici in tempi ormai remoti, e non è soltanto legato allo sboom del mercato immobiliare.

Il lento processo inizia con l’esodo della popolazione bianca verso i sobborghi più ricchi, accelerato dopo le proteste dei neri a fine anni 60, che ha impoverito la città riducendo i redditi tassabili e ha innescato un circolo vizioso: il municipio ha sempre meno fondi per pagare i servizi pubblici, il che ha reso la città sempre meno accogliente e ha favorito l’emigrazione. Quindi «L’emigrazione di gran parte della classe media verso i sobborghi ha avuto come conseguenza la chiusura e l’abbandono di uffici e negozi in centro. La popolazione rimasta era più povera e più dipendente da servizi pubblici che la città era sempre meno in grado di fornire».

Tuttora le fabbriche e le sedi delle case automobilistiche Ford e Chrysler (General Motors ha sede nel Renaissance Center, in pieno centro) sono nei sobborghi dove i dipendenti vivono e pagano le tasse (più basse che in centro).

Si potrebbe anche tracciare un parallelismo tra il declino della base industriale della metropoli e il continuo deflusso di abitanti, ovvero tra il chapter 11 a cui ricorsero General Motors e Chrysler nel 2009 e il Chapter 9 richiesto ora dal municipio.

La bancarotta di Detroit non è però esente da aspetti più oscuri. La parte più torbida della vicenda riguarda la sfera politica delle decisioni intraprese. Nel 2011 il cambio della guardia a Lansing (capitale del Michigan) tra la democratica Jennifer Granholm e il repubblicano Snyder ha introdotto una nuova variabile: il conflitto politico tra la città, nera e democratica, e lo stato, ora repubblicano e a maggioranza bianca.

È stato proprio Snyder a nominare l’emergency manager Kevin Orr, commissariando di fatto sindaco e consiglio comunale e sarà lui a gestire la procedura di Chapter 9. Ciò non cancella però le responsabilità di una giunta cittadina ove la corruzione dilaga (il sindaco dei primi anni 2000, il nero Kwame Kirkpatrick, è in carcere per truffa) e le scelte gestionali impopolari sono state rinviate ad oltranza.

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