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Visentini, referendum: “Le ragioni del mio SI’ e i pericoli del NO”

Gustavo Visentini, illustre giurista, docente della Luiss e avvocato, spiega le ragioni che lo inducono a votare SI’ al prossimo referendum sulla riforma costituzionale e i rischi che si corrono se vincesse il NO – Un voto per il rafforzamento delle istituzioni contro la vecchia politica dell’inciucio e il neopopulismo

Visentini, referendum: “Le ragioni del mio SI’ e i pericoli del NO”

Rifletto a voce alta sulle ragioni del SI’ che mi accingo a formulare con il voto referendario, dopo le tante discussioni tra amici e nemici.

Con l’approvazione ripetuta del Parlamento, secondo procedura costituzionale, assumo che la decisione affidata al popolo debba cadere sulla sostanza politica della Riforma; non ho la presunzione di migliorarla per rendere appropriati al mio desiderio i singoli istituti che sostengono il sistema; anche per rispetto verso il Parlamento, dove già sono convenute le mediazioni.

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– La concentrazione del rapporto fiduciario del Governo su una sola Camera, perciò rafforzata, ed anche nella procedura legislativa. Di conseguenza, soltanto di conseguenza, è rafforzato il Governo. Vi sono le condizioni per rendere il Governo responsabile di progetti strategici, che una sola camera meglio è in grado di condividere, per risponderne al corpo elettorale; meglio ancora se nel confronto parlamentare è a sua volta rafforzato lo statuto dell’opposizione, come è previsto. Riesce chiara la responsabilità del Parlamento verso l’elettore, vieppiù se un’adeguata legge elettorale fa l’eletto decisamente responsabile verso i suoi elettori.

Sappiamo che la doppia fiducia aveva l’obiettivo di indebolire il Governo, il quale ritrovava la forza di agire negli accordi informali tra partiti: di governo e di opposizione. Per vari decenni così è stata l’elaborazione politica del Paese (assai opaca); forse era necessario per la situazione dell’epoca, ma oggi è anacronistico e pericoloso.

– La seconda Camera serve a rappresentare la politica del territorio a livello delle istituzioni centrali; è la Camera delle regioni, che in definitiva la eleggono per conto dell’elettore del territorio. Se fosse eletta direttamente dall’elettorato nazionale, anche con circoscrizioni regionali, perderebbe questa sua funzione, perchè verrebbe meno il suo collegamento istituzionale con l’ente territoriale; resterebbe un collegamento informale squisitamente politico, che soltanto la trama del partito potrebbe coordinare all’ombra delle istituzioni, informalmente. Per altro verso, con il Senato nominato direttamente dal popolo, riuscirebbe difficile spiegare la sottrazione del Governo anche alla sua fiducia; tanto è vero che in casi di evidente conflitto la dipendenza fiduciaria potrebbe riproporsi nei fatti.

– Con la seconda Camera le regioni sono ben più presenti; efficaci nel rivendicare la loro autonomia. Ben più chiara dell’attuale è la ripartizione delle competenze tra Stato e regioni, per queste circoscritta rispetto ad oggi, ma che con legge speciale potrebbe essere ampliata, alla condizione di disporre delle appropriate disponibilità finanziarie. È una parte della legge costituzionale che avrei voluto diversa, avrei preferito la riduzione del numero delle stesse regioni. Ma non per questo giustifico un voto contrario, cosciente delle difficili mediazioni, che comunque non svuotano la sostanza politica del disegno costituzionale.

Condivido la Riforma anche per i pericoli che ne potrebbero conseguire dal NO che la dovesse respingere.

– Questo disegno riprende proposte davvero a lungo maturate negli anni passati, in sedi tecniche ed in tentativi politici di riforma, pubblicamente discussi. Se non andasse in porto, temo il riaffacciarsi del progetto spesso avanzato, questo sì senza sufficiente maturazione, della Repubblica presidenziale, della nomina diretta del Presidente della Repubblica o del Primo ministro. A questo proposito non ha senso il confronto con gli Stati Uniti, dai poteri istituzionali estremamente diffusi; d’altro canto l’esperienza francese non è soddisfacente nella ripartizione dei poteri, troppo concentrati sul Presidente; in Italia potrebbe davvero essere la strada per l’oligarchia, se non peggio.

– Dovesse la Riforma essere respinta, ci troveremmo ancora con un Parlamento estremamente debole. La debolezza non potrebbe essere corretta dal concerto informale della politica organizzata nei partiti, come accadeva nel passato, per il crollo dei partiti; e non la vorrei così corretta, per l’avversità che nutro per questo modo di fare la politica, che consente agli accordi di sfuggire all’evidenza istituzionale. Questa situazione negativa è andata peggiorando, come già l’esperienza ci dimostra; è l’inciucio.

– Senza Riforma, la legge elettorale affidata al solo Parlamento diverrebbe il surrogato della Riforma; ma, insufficiente in assenza del quadro istituzionale, prospetterebbe una pericolosa alternativa. Nella estrema debolezza del Parlamento la legge elettorale maggioritaria darebbe eccessiva forza all’esecutivo; invece la legge elettorale proporzionale troverebbe l’esecutivo nella funzione di esprimere decisioni, o mediazioni, che si compongono all’esterno delle istituzioni formali, decisioni che oggi non sarebbero nemmeno dei partiti, comunque politicamente responsabili verso l’elettore, ma di corpi d’interessi corporativi.

Se guardiamo alla sostanza, non è difficile capire che il dibattito è tra: chi intende ricondurre la politica alle istituzioni del Parlamento e del Governo, suo fiduciario; e chi invece preferisce l’attuale condizione di paralisi istituzionale che sottrae ai cittadini le mediazioni politiche nella sede formale del Parlamento, per lasciarla ai corpi in grado di condizionare un Governo succube, come riflesso della debolezza del Parlamento: lo sperimentiamo di continuo. Tanti sono i corpi che in questi anni si sono costituiti e che preferiscono autogovernarsi, nel contesto opaco di influenze private sul pubblico. Non è curioso, è coerente che le stesse correnti del NO spingano per una legge elettorale proporzionale (già indirizzata dalla Corte costituzionale nel recente giudizio sulla legge elettorale).

La preferenza per lo stato attuale delle cose non è palesata, resta sottostante nel dibattito elettorale. Non è dichiarata espressamente nell’argomentare la contrarietà alla riforma, che la si sostiene per difetti, anche speciosi, sulla parte regionale: i senatori vanno eletti direttamente dal collegio elettorale nazionale; aumenterà il contenzioso (come dimostrarlo?); è una brutta riforma mentre basterebbe poco a farne un’altra, preferita dai cittadini silenziosi ecc.; si sposta il senso del referendum, contro o pro il governo in carica, contro Renzi; altre ne sentiamo. Ma non sentiamo la formale proposta di conservare il bicameralismo paritario nell’attuale situazione. Una parte propone anzi di fare subito le elezioni nel caso di vittoria del NO, con queste leggi elettorali, e non spiega come dopo si potrà governare il Paese. Curiosamente, superficiale, in questo contesto si è inserito The Economist, che si dichiara contro la Riforma perchè non serve per governare, visto che Renzi ha governato, parrebbe bene, con la Costituzione vigente!.

È la ricerca di consenso populista, che significa ricerca di adesione per slogan: tutto va cambiato; siamo persone diverse! Preferisco persone comunque sperimentate, al nuovo per il nuovo. Si predica la novità senza spiegare come si faranno le cose; secondo l’insegnamento populista, si suggerisce di dire poco o nulla, anche perché non si saprebbe cosa dire; si denuncia intellettuale chi vorrebbe capire; denuncia ritenuta terribile da chi profitta della buona fede dell’ignoranza per manipolare. Appunto, si deve sfuggire la pecca elitaria dell’intellettualismo. Non è bastata l’esperienza della Lega? Tutta nuova, ma che poi, nei fatti, si è adeguata ad un vecchio che più di così non si poteva. La vicenda ricorda tanto l’adesione al fascismo del primo dopoguerra: la filosofia dell’intuizione dei nuovi intellettuali dell’epoca.

In effetti la lotta politica piuttosto che tra destra e sinistra, tra liberale e socialismo, è tra razionale e irrazionale, dove nell’irrazionale c’è la ricerca del potere da parte dell’autocrate razionale, che si serve del populista come strumento della sua autocrazia; che intende profittare dello spazio che l’ignoranza lascia aperto alla demagogia. Il populista spesso è inconscio: chi porta la bandiera del populismo  non sa per chi, il “razionale”, porta la bandiera. Beneduce era più coscientemente razionale dell’intuitivo Mussolini; così lo erano i Volpi, i Cini ecc.

Nella mia esperienza politica sono stato abituato a questa dialettica. Il comunismo era un’utopia irrazionale che per fede chiedeva l’adesione al suo potere politico nel nome di un centralismo democratico gestito razionalmente dall’oligarchia del partito. Forse si spiega l’attaccamento al loro modo tradizionale di fare politica (attorno al caminetto) di quel che resta dei vecchi cresciuti nel centralismo democratico.. Allora l’oligarchia dei partiti comunisti occidentali era condizionata da Mosca, la quale oggi, nel proseguire l’utopia fondata sull’arma anziché sullo sviluppo economico per il benessere della popolazione, ancora appoggia il populismo occidentale; lo fa con più probabilità di successo, poiché non spende lo spauracchio del comunismo.

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