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Internazionalizzare: parola chiave per un mondo che cambia e un’ Italia che torna a crescere

Quali impatti economici e occupazionali potrebbero prodursi se l’Italia premesse di più sull’acceleratore dell’internazionalizzazione? A quest’interrogativo risponde l’ interessante studio SACE-Valore D “Alla ricerca della crescita perduta. Opportunità e ritorni di un’Italia più internazionale”, con un confronto con gli altri paesi europei

Lo studio SACE-Valore DAlla ricerca della crescita perduta. Opportunità e ritorni di un’Italia più internazionale” è stato presentato in data 19/11 da Roberta Marracino, Direttore Area Studi e Comunicazione di SACE al III Forum dell’Associazione di cui il gruppo assicurativo è membro da tre anni. L’interessante studio vede l’internazionalizzazione come via di scampo dalla crisi per le imprese e come leva per il rilancio del Paese. Dal 2007 al 2013 l’Italia ha perso 8,5 punti percentuali di Pil, il contributo delle esportazioni alla crescita del Pil è stato negativo (- 0,9 % del Pil). In altri Paesi europei tale contributo è stato notevolmente positivo: in Germania è stato pari al 7,5% del Pil, in Spagna al  4,5%. Il nostro Paese fatica a vedere la fine del tunnel. Le ricette volte a portare il paese fuori dal pantano sono le più disparate, tutte partono dal rilancio dei consumi e degli investimenti, poche prevedono l’utilizzo della terza leva di creazione del reddito nazionale: l’export. Ad influenzare l’esclusione della leva export dal dibattito può essere l’analisi non approfondita del saldo import-export. Per l’Italia, tale entità contabile è positiva (export>import) e crescente (il saldo è migliorato nel corso degli anni) ma ciò è avvenuto solo a causa di una riduzione delle importazioni. Il totale delle esportazioni, al lordo delle importazioni vale oggi circa il 30% del Pil; troppo per essere esclusa dal dibattito. I paesi sopra menzionati hanno un incidenza dell’export sul Pil sicuramente maggiore della nostra: la Germania aveva un’incidenza (sempre al lordo delle importazioni) nel 2007 del 47%, la Spagna del 31%.

Lo studio, facendo il confronto con gli altri paesi europei che meglio di noi hanno sfruttato la leva dell’internazionalizzazione,  indaga gli effetti di un possibile incremento nelle esportazioni e il suo risultato sulla situazione macroeconomica nazionale e sugli impatti nel mercato del lavoro. Alcune stime prevedono una incidenza delle esportazioni sul Pil di Germania e Spagna per il 2017 rispettivamente pari al 58% e 41%. Il raggiungimento di tale risultato sarà possibile solo grazie ad una strategia pensata – e realizzata – per tempo. Oltre alla capacità di pianificazione questi risultati scontano anche una più generale overperformance su tutte le aree geografiche. Tra il 2000 e il 2013 le esportazioni tedesche e spagnole verso l’Europa – tanto nelle aree più avanzate, quanto in quelle emergenti – sono cresciute a un ritmo doppio rispetto a quelle italiane; le merci e i prodotti indirizzati verso i paesi avanzati extra-europei hanno registrato incrementi superiori di 4-6 volte; e anche sui mercati emergenti dell’Asia, Africa e Sudamerica il nostro Paese ha marcato il passo.

La scelta di escludere la leva dell’export dal dibattito inerente le possibili politiche pubbliche viene spesso giustificata dalla composizione del nostro tessuto imprenditoriale. L’Italia è composta per il 95% da micro imprese (meno di 10 dipendenti), queste certamente avranno maggiori difficoltà, rispetto a una grande azienda, ad affacciarsi sui mercati esteri. Tali difficoltà sono in genere dovute a basse capacità di vendere i propri prodotti oltreconfine o alle ridotte disponibilità finanziarie. Al fine di considerare anche questo aspetto, Sace ha stimato la propensione all’internazionalizzazione dividendo le imprese in base al numero dei dipendenti, in modo tale da poter fare un confronto tra le imprese più o meno simili dei tre Paesi.Il risultato inaspettato è il seguente: le nostre imprese hanno minore propensione all’internazionalizzazione, a prescindere dalle dimensioni.  Altri interessanti dati pubblicati nello studio, ma ripresi da una indagine Istat, dimostrano che le imprese che meglio hanno affrontato la crisi sono quelle che hanno internazionalizzato. Il 51% del campione intervistato (30000 imprese con oltre 20 dipendenti) ha visto crescere il proprio fatturato all’estero  tra il 2010 e il 2013. 

Le conclusioni principali dello studio sono due: 
se riuscissimo a raggiungere un’incidenza dell’export sul PIL del 44% nel 2018, potremmo generare esportazioni aggiuntive per circa 40 miliardi di Euro l’anno, con un incremento di reddito nazionale tra quattro anni intorno ai 125 miliardi di Euro, pari a una crescita del 9% rispetto al PIL attuale;
– considerando l’elasticità dell’occupazione rispetto al PIL, questo impatto si tradurrebbe in 1,8 milioni di nuovi posti di lavoro.
In altre parole, sfruttando adeguatamente la leva dell’export l’Italia potrebbe ristabilire la sua situazione economica pre-crisi. E’ la stessa Sace a indicare i principali paesi in cui intervenire per generare le predette esportazioni addizionali. Di questi circa 20 miliardi potrebbero essere recuperati attraverso una migliore penetrazione nei mercati emergenti a basso-medio rischio e in crescita, in particolare dai soli Cina, Polonia, Algeria, Turchia e India si potrebbero recuperare ben 13 miliardi di esportazioni, altri 6 miliardi dovrebbero provenire da una rosa di aree localizzate in Medio Oriente, Sud America, e Asia. 

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