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Forum Ambrosetti – Silicon Valley sbarca in Veneto: per l’innovazione puntare sul crowdfunding

Technology Forum Ambrosetti a Castelbrando (Tv) – L’intervento di Lee Burton, professore a Stanford: “Silicon Valley sia modello per l’Europa” – Il crowdfunding sta esplodendo negli Usa grazie a una legge del governo Obama – Italia fanalino di coda per ricerca e innovazione: la crisi parte dalle università che investono poco e non lavorano con le aziende.

Forum Ambrosetti – Silicon Valley sbarca in Veneto: per l’innovazione puntare sul crowdfunding

Silicon Valley sbarca in Veneto. Per la precisione, a Cison di Valmarino, in provincia di Treviso, dove Ambrosetti ha dato vita nella splendida cornice del castello di Castelbrando alla prima edizione del Technology Forum, appuntamento dedicato all’innovazione e al “trasferimento tecnologico”, che ha visto la partecipazione di numerosi imprenditori e aziende del Nord-Est.

Nord-Est – come è noto – all’avanguardia per la produttività, ma ancora indietro – come del resto tutto il Paese – quanto a innovazione. Ecco perché, nella fortezza anticamente di proprietà della famiglia Brandolini e nel 1997 rilevata e ristrutturata da Massimo Colomban, ex patron e fondatore di Permasteelisa (presente all’evento con l’attuale ad Nicola Greco), è stato invitato anche Lee Burton, professore di Impresa e Innovazione europea alla Stanford University.

Silicon Valley è un luogo strategico per l’Europa: è il posto dove tutto il mondo impara prima i nuovi approcci all’innovazione”, dice Burton in apertura del suo intervento. SiliconValley, in effetti, concentra infatti il 40% degli investimenti Usa in venture capital, impiegando un milione e 300mila persone in settori come l’energia, i media, i dispositivi medici e la biotecnologia.

Come possono il Nord-Est, l’Italia, l’Europa copiare questo modello? Burton nel suo intervento suggerisce uno strumento tutto nuovo, appena approvato (un mese fa) dall’amministrazione Obama con una legge che era in cantiere da due anni e che regolamenta il cosiddetto crowdfunding. Ovvero cercare fondi dagli investitori per aziende startup e in generale per nuovi progetti legati alla ricerca e all’innovazione.

I modelli proposti dal docente di Stanford sono due: quello classico, tramite la raccolta di equity, e quello tutto nuovo consistente nel finanziamento non con l’acquisto di azioni della società ma attraverso l’acquisto anticipato del prodotto da creare. E’ il crowdfunding product: tutto direttamente tramite internet, con una formula agile, veloce, accessibile a tutti; “e proprio per questo motivo – spiega Burton – ad alto rischio frode, ecco perché il governo Usa ha rapidamente regolamentato l’attività, ponendo alcuni limiti come il tetto di un milione di dollari di raccolta per i portali”.

Il portale leader del crowdfunding è lo statunitense kickstarter.com, piattaforma di finanziamento per progetti creativi, che dà appunto il “calcio d’inizio” a diverse giovani aziende che lanciano prodotti tecnologici. Andando sulla home del sito si nota la semplicità dello strumento: kickstarter propone una serie di prodotti da aziende di tutto il mondo, che ricevono in tempo reale adesioni e offerte. Si va da semplici progetti artistici a vere e proprie innovazioni tecnologiche, come quella della Pebble, azienda di design di Palo Alto (Silicon Valley, ancora una volta), che per il suo orologio e-paper per iPhone e Android ha già raccolto 67mila sostenitori e la bellezza di 10.172.556 di dollari, partendo dall’offerta minima di 1 euro.

In Europa portali del genere iniziano già a spuntare (e andrebbero anche opportunamente regolamentati): dalla finlandese growvc.com, alla britannica seedrs.com e alla portoghese ppl.com.pt. E l’Italia? Ancora indietro. Anche il ricco Nord-Est. Ma secondo il professor Burton, il problema parte a monte, “dalle università, che non investono sufficientemente su ricerca e innovazione e sono il fanalino di coda dell’Europa”. Il ruolo delle università e dei centri di ricerca è infatti fondamentale, e non lo dice solo Burton: è uno degli argomenti più ricorrenti nei discorsi dei vari relatori presenti all’Ambrosetti Forum, tra cui diversi rappresentanti del mondo accademico e scientifico.

A Stanford per esempio, l’ateneo dove il relatore statunitense insegna, gli studenti sono meno di 16mila eppure il budget arriva a 4,1 miliardi di dollari, di cui ben 1,4 destinati a ricerca e innovazione. Il Politecnico di Torino invece ha quasi il doppio di iscritti (28mila) ma il budget dedicato è solo di 62 milioni di euro.

Come si spiega? Che sia colpa dell’eccessiva democratizzazione delle università italiane ed europee? “L’accesso a basso costo – spiega Burton – è stato alla base della formazione della società occidentale. Forse i 60mila dollari necessari per iscriversi a Stanford sono troppi, ma è necessario finanziare l’eccellenza, pur mantenendola accessibile ai più. Anche cercando soluzioni diverse. Negli Usa per esempio è frequentissima l’usanza di fornire prestiti agli studenti, in Italia e in Europa invece non si vede nulla di simile”. Soprattutto in Italia, verrebbe da dire, visto che le università di Tallinn e Riga (Estonia e Lettonia) contano rispettivamente 14mila e 17mila studenti e stanziano 95 e 264 milioni per la ricerca, molto più di quanto fa Torino, leader italiano.

Il malessere tutto tricolore si espande poi su altri dati. Secondo quelli forniti da ProTon Europe, per esempio, la percentuale di invenzioni provenienti dalle università è nello Stivale solo del 9%, peggio della Spagna con il 15% e molto indietro ai leader europei, Danimarca (22,8%) e Regno Unito (22,6%), in cui quasi un’invenzione su quattro arriva dai banchi della formazione d’eccellenza.

E il riflesso arriva inevitabilmente sull’impatto che la scarsa ricerca ha sul tessuto delle imprese. L’Italia secondo i dati Eurostat è solo il 19esimo Paese in Europa come tasso di collaborazione tra le università e le aziende: solo il 22% in quelle con più di 250 impiegati, l’8% in quelle con 50-249 lavoratori, il 4% in quelle con 10-49 dipendenti. In questa classifica, comandata dalla Finlandia (e in generale dai Paesi scandinavi) con il 70% delle imprese con più di 250 addetti che cooperano con la ricerca universitaria, facciamo meglio solo della Grecia: meglio di noi Spagna, Ungheria, Irlanda e Portogallo.

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