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Crisi di governo, dossier aperti a rischio: i timori delle aziende energetiche, di Mps e Tim

Molti i dossier aperti sui tavoli delle società partecipate dal governo. Dalle società energetiche a Mps, a Tim. Intanto il debito pubblico si amplia a causa dello spread

Crisi di governo, dossier aperti a rischio: i timori delle aziende energetiche, di Mps e Tim

Il viaggio in Algeria di Mario Draghi alla vigilia del chiarimento parlamentare sulla crisi di Governo di investe direttamente il futuro prossimo dell’emergenza energetica del Paese ma anche quello delle nostre aziende energetiche. Dagli accordi ne deriveranno effetti diretti sull’accensione delle nostre caldaie il prossimo inverno, ma anche sull’attività di aziende chiave per l’economia italiana come Enel, Eni e Saipem.
Le aziende italiane in cui la quota diretta o indiretta dello Stato è determinante, sono sotto pressione dopo la crisi di governo innescata la scorsa settimana dalle dimissioni, per ora congelate, del premier Mario Draghi. Il timore è che i dossier chiave ancora aperti con la partecipazione determinante del governo, possano essere messi nel cassetto o peggio ancora cestinati se ci dovesse essere a Palazzo Chigi un cambio della guardia poco attento alle emergenze del paese dopo le elezioni generali sempre più vicine.

Aziende energetiche sotto i riflettori: accordo chiave in Algeria

In questo periodo di grave crisi energetica le aziende italiane che si occupano di questo settore sono quelle più sotto i riflettori poiché costituiscono la possibile via d’uscita dalla dipendenza dalla Russia. L’11 luglio scorso Gazprom ha interrotto le forniture di gas (ufficialmente per manutenzione) fino al prossimo giovedì e i mercati sono con il fiato sospeso nel timore che Cremlino possa decidere di non riaprire il gasdotto o al girare solo parzialmente il rubinetto.
L’Algeria diventa quindi, perlomeno al momento, la vera alternativa alla Russia e questo è il motivo per cui Draghi, seppur dimissionario, è andato ieri all’incontro di Algeri a cui hanno partecipato, oltre ai ministri competenti, anche le aziende coinvolte: da una parte Sonotrach, il colosso pubblico locale, dall’altra le nostre società chiave del settore energetico. L’intesa era stata sottoscritta ad aprile tra Eni e Sonatrach per aumentare subito i flussi di gas di 3 miliardi di metri cubi, mentre ieri è stata annunciata la decisione di Sonatrach di un altro rialzo a sei miliardi di metri cubi, fino alla fine del 2022, del flusso di gas diretto al nostro paese. Con gli accordi ieri l’Algeria diventa il primo fornitore di gas dell’Italia.
Il titolo Eni in borsa, che stava recuperando terreno stabilmente sopra gli 11 euro fino a 11,25 euro mercoledì scorso, nella giornata delle dimissioni di Draghi (respinte dal presidente Sergio Mattarella) è sceso a 10,64 euro. Oggi, sulla scia degli accordi algerini tenta la risalita e nella serata di ieri era a 11,01 euro in rialzo del 1,62%.
L’Enel, anch’essa parte interessata negli accordi, ma più defilata, aveva riconquistato livelli sopra i 5 euro nelle scorse settimane, ma il giorno delle dimissioni è scesa a 4,84 euro e ieri sera quotava 4,91 euro in calo dell’1,82% a causa dello stacco del dividendo 2022, per un ammontare di 0,19 euro.
Ancora più delicata la situazione di Saipem, controllata da Eni e da Cassa depositi e prestiti con il il 44%, che dagli accordi organizzati dal governo Draghi in Algeria potrebbe avvantaggiarsi con i progetti di nuovi gasdotti attraverso il Sahara.
Saipem solo venerdì scorso ha chiuso una complicata operazione di aumento di capitale da 2 mld, sottoscritto per circa il 30% dalle banche del consorzio di garanzia che hanno comunicato di voler trattenere solo il 10% e di rimettere sul mercato il rimanente 20%.
Il titolo Saipem venerdì ha perso il 30% a 0,82 euro, sotto il prezzo di conversione di 1,013 euro, dopo che all’inizio della scorsa settimana quotava 3,7 euro. Ieri quotava 0,76 euro in calo del 7,07%. Saipem ha appena siglato nuovi contratti nel drilling offshore in Medio Oriente e in Africa Occidentale per un totale di oltre 400 milioni di dollari che dovrebbero partire a fine di quest’anno.

Partecipate pubbliche con il fiato sospeso: Mps e Tim

Ma non sono solo le aziende del settore energetico a non sapere quale potrà essere il loro destino, con la crisi di governo.
Il Monte dei Paschi di Siena, di cui il Mef possiede il 64,23%, ha perso in borsa il 7% alla notizia delle dimissioni di Draghi e un altro quasi 6% venerdì. Ieri sera era a quota 0,44 euro in rialzo del 3,18%.

Sul tavolo della banca senese è aperto il progetto del AD Luigi Lovaglio di ristrutturare e vendere la banca a soggetti privati, d’accordo con Bce e Ue. In autunno è in calendario un aumento di capitale a 2,5 mld. Lovaglio, che presenterà la semestrale in agosto, è vero che avrà l’appoggio di un pool di banche (BofA, Citigroup, Credit Suisse e Mediobanca in qualità di Joint Global Coordinators dell’operazione), ma ha anche sottolineato l’importanza della presenza del governo: “Grazie all’appoggio del MEF ci sentiamo sostenuti su tutta la linea”.
Altro dossier caldo è quello della transizione digitale nella quale Telecom Italia è l’attore principale e di conseguenza anche il governo italiano tramite Cdp che detiene il 9,81%, oltre ad avere il controllo di Open Fiber.
All’inizio di luglio l’AD Pietro Labriola ha delineato il piano per una nuova Tim che sarà frutto della suddivisione fra servizi (ServCo) e rete (NetCo). Impostazione che sarà funzionale anche all’operazione Rete Unica con la nascita di una società in cui far confluire gli asset infrastrutturali di Tim e di una Open Fiber controllata al 60% da Cdp (che è partecipata all’83% dal Tesoro e che a suo volta è anche azionista Tim al 10%) e al 40% da Macquarie. Un puzzle molto complesso in cui il il ruolo di un governo efficiente sarà determinante.
Ieri fonti della Cdp hanno detto all’Ansa che il confronto tra le parti continua, nonostante la crisi di governo, sottolineando che in questi giorni è in corso la delineazione del perimetro dell’operazione. Ma alcuni osservatori temono qualche scossone ai vertici della Cassa. Il titolo Telecom Italia negli ultimi 5 giorni ha perso l’11,85% e ieri quotava invariato a 0,23 euro.

Buona performance da Fincantieri e Leonardo

A mantenere invece una buona performance in borsa sono due società con il marchio Mef, Fincantieri e Leonardo, di cui per altro si parla di accordi incrociati.
La prima, di cui Cdp ha oltre il 71%, si sta ultimamente concentrando sulle navi da crociera, ma restano aperte trattative in giro per il mondo, le ultime con la Grecia e con il Qatar. Il nuovo AD Pierroberto Folgiero secondo alcune fonti sta pensando a un aumento di capitale, di circa 2 mld.
Negli ultimi 5 giorni Fincantieri ha perso “solo” lo 0,96% e comunque è rimasta pressoché invariata nell’ultimo mese. Ieri quotava 0,57 euro in rialzo dello 0,89%.

Certamente la performance migliore in tempi di guerra ce l’ha chi produce strumenti utilizzati in questo ambito. E’ il caso di Leonardo-Finmeccanica, di cui il Mef ha il 30,2%, che continua a raccogliere accordi in giro per il mondo.
L’ultimo riguarda Drs, controllata statunitense di Leonardo Drs, che ha firmato un accordo vincolante con Rada Electronic Industries per la fusione di Rada in Leonardo Drs. Rada è un fornitore di radar tattici militari software-defined avanzati, già quotato al Nasdaq e a Tel Aviv e, al perfezionamento dell’operazione, previsto entro fine anno, anche Drs sarà quotata su entrambi i listini.
Leonardo in Borsa a Milano nell’ultimo mese ha guadagnato il 2,53% e in questi ultimi 5 giorni ha perso solo lo 0,14%. Ieri sera era a 9,96 euro in rialzo dello 0,77%.

Il risiko delle nomine dei board

L’altro tema che emergerà nei prossimi mesi sarà quello delle nuove nomine dei board delle società partecipate del Mef, che ovviamente avranno l’imprinting del nuovo governo.
Il prossimo anno sarà quello cruciale poiché vengono a scadere posizioni chiave per le aziende e l’economia italiane: in aprile sarà il turno di Ita (Italia trasporto aereo), Poste Italiane, Eni e Mps. In Giugno Enel e Leonardo

Gli altri dossier aperti, dal Pnrr alla riforma del fisco

Con le dimissioni del Premier Draghi rischierebbero di arenarsi tanti dossier fondamentali per il futuro del Paese. Dal gas al taglio del cuneo fiscale, ai fondi del Pnrr. Riguardo quest’ultimo per l’Italia sono stati stanziati 191,5 mld complessivamente. A giugno il governo ha conseguito i 45 obiettivi stabiliti dal Pnrr per il primo semestre 2022 sbloccando 11,5 miliardi di contributi a fondo perduto e 12,6 miliardi di prestiti. Altri 21 mld sono in programma dopo l’estate.
Tra gli altri dossier ci sono quelli che riguardano il cuneo fiscale, il ddl concorrenza, la riforma del fisco.

Crisi e ampliamento dello spread vanno a braccetto, e il debito aumenta

In tutto ciò c’è il comportamento degli investitori nei confronti dei titoli di stato italiani.
Torna lo spauracchio sul debito italiano che sui mercati si traduce in allagamento dello spread, il differenziale di rendimento tra i rendimenti dei titoli di stato decennali italiani e tedeschi.
Nell’ultima settimana lo spread si è ampliato fino a 236 pb e ieri sera era a 223 pb.

Anche se molto lontano mai peggiori momenti (nella crisi del 2018 era salito a 323 pb e attorno ai 500 pb nel 2011-2012), Equita Sim ha calcolato che per ogni 100 punti base di aumento del differenziale la spesa per interesse salirebbe mediamente di 2,5 mld il prossimo anno, di 6,7 mld nel 2024 e di 10,1 mld nel 2025. Il debito italiano il maggio scorso ammontava a 2.756 miliardi di euro, in calo di 3,5 mld rispetto al mese prima, ma in rialzo di 69 miliardi rispetto a un anno prima.

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