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Referendum, l’Economia del Sì: cosa cambia per finanza pubblica e fisco

La riforma costituzionale, che sarà sottoposta al referendum del 4 dicembre, introduce due importanti novità per la politica economica attribuendo allo Stato il coordinamento allo Stato in materia di finanza pubblica e di tributi evitando sprechi e duplicazioni e favorendo gli investimenti senza mortificare il federalismo

Referendum, l’Economia del Sì: cosa cambia per finanza pubblica e fisco

Sulla materia del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario la riforma introduce due cambiamenti. Il primo riguarda l’articolo 117 che trasferisce il “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” dalla competenza concorrente a quello esclusiva dello Stato. Su questo punto, la riforma corregge quello che non può che considerarsi un eccesso di zelo federalistico da parte del legislatore del 2001. È infatti evidente che se di coordinamento si tratta – e non, ad esempio, di concertazione – la responsabilità non può che essere attribuita allo Stato (l’unico peraltro che ha la responsabilità di rispettare dei vincoli di bilancio nei confronti dell’Unione Europea e, di fatto, anche dei mercati). 

La seconda modifica riguarda l’articolo 119, in base al quale l’autonomia finanziaria e tributaria delle Regioni e degli Enti Locali può esplicarsi non più solo “secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, ma “secondo quanto disposto dalla legge dello Stato ai fini del coordinamento della finanza pubblica della finanza pubblica e del sistema tributario”. 

Questa modifica è stata oggetto di critiche da parte dei paladini del federalismo, ma in realtà si limita ad esplicitare quello che era già stato da lungo tempo stabilito dalla Corte Costituzionale, ad esempio con la sentenza n. 37 del 2004 che aveva indicato come necessario “l’intervento del legislatore statale, il quale al fine di coordinare l’insieme della finanza pubblica, dovrà non solo fissare i principi cui i legislatori regionale dovranno attenersi, ma anche determinare le grandi linee dell’intero sistema tributario, e definire gli spazi e i limiti entro i quali potrà esplicitarsi la potestà impositiva, rispettivamente, di Stato, Regioni ed enti locali”.

Peraltro, più volte la Corte ha affermato che nel quadro normativo attuale – ossia quello emerso dalla riforma del 2001 – non possono esistere tributi che possano essere definiti “propri” delle regioni nel senso definito dall’articolo 119 della Costituzione: esistono, secondo la Corte, solamente tributi istituiti e disciplinati da leggi dello Stato, la cui sola particolarità è che il loro gettito è attribuito alle regioni.

Non si comprendono quindi le preoccupazioni di coloro che temono una eccessiva limitazione dell’autonomia finanziaria che gli enti territoriali hanno ottenuto con la Riforma costituzionale del 2001. Non solo perché la Corte ha già delimitato in modo abbastanza restrittivo i confini di tale autonomia, ma anche perché quell’autonomia, di fatto, non si è mai pienamente realizzata.  

Lo testimoniano i dati della Corte dei Conti: considerando la spesa pubblica al netto di quella per prestazioni previdenziali e assistenziali, dal 2001 a oggi la componente a livello locale (Regioni, Province e Comuni) è una quota pressoché costante, attorno al 55%, del totale delle pubbliche amministrazioni. Né dopo il 2001 né dopo l’approvazione della legge Calderoli del 2009 – che aveva l’ambizione di attuare compiutamente il federalismo fiscale – si riscontra alcun trend crescente. Lo stesso vale per le entrate, la cui componente locale è rimasta pressoché invariata al 20 per cento del totale.

Il punto è che, al di là dei proclami e data la situazione del nostro debito pubblico, i governi sono stati costretti a tenere sotto stretto controllo la finanza degli enti territoriali e sono riusciti a farlo, sia pure al costo di formidabili tensioni che ne hanno spesso messo a rischio la stabilità. Lo hanno fatto ponendo limiti, consentiti da specifiche sentenze della Corte Costituzionale, alle più svariate tipologie di spesa: consulenze, turn-over, stipendi pubblici e persino numero e retribuzioni dei consiglieri regionali ecc. L’unica voce che sembra essere in parte sfuggita al controllo, e nella quale si annidano sprechi e sperequazioni, è quella degli acquisti di beni e servizi, passati dal 23,6 per cento del totale della spesa locale nel 2001 al 29,5 nel 2014. Anche sulle entrate locali i governi hanno sempre esercitato uno stretto controllo, reso possibile da numerose sentenze della Corte, come dimostrano le alterne vicende dell’Irap, delle addizionali Irpef o dell’ICI-IMU-TASI. 

Se a questo si aggiunge la considerazione che nulla impedisce allo Stato di definire, con legge ordinaria, ulteriori spazi di autonomia finanziaria a favore degli enti territoriali e che, oltretutto, il nuovo articolo 116 lascia la possibilità di attuare forme di federalismo differenziato a favore delle regioni con i conti in ordine, si capisce facilmente che l’obiettivo della riforma non è quello di frustrare un federalismo sano ed efficiente, ma di evitare sprechi e duplicazioni.

La riforma non mortifica dunque il federalismo fiscale, ma dà stabilità all’assetto attuale, ponendo inoltre le basi per superare gli sprechi, che si annidano soprattutto negli acquisti, in quanto eleva a precetto costituzionale (art. 119 c. 4) il principio dei costi e fabbisogni standard, che, come noto, è stato il principale – e condivisibile – cavallo di battaglia dei fautori del federalismo.

In sintesi, con la riforma si fa chiarezza su chi fa che cosa; si mettono le basi per eliminare sprechi e duplicazioni; si riduce l’incertezza per cittadini e imprese circa i tempi e le modalità di attuazione delle norme; si favoriscono gli investimenti che sono oggi scoraggiati dall’esistenza di norme che si sovrappongono fra livelli di governo e sono ingiustificatamente diverse fra territori; non si mortifica invece l’incentivo, che rimane un pilastro fondamentale del sistema, a concorrere per attrarre investimenti, sviluppo e posti di lavoro.

Estratto da “L’Economia del Sì”, a cura di Irene Tinagli. Scarica qui il documento integrale.

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