Condividi

Il cacio di Genazzano, sulle pendici dei monti Prenestini, un Presidio Slow Food che salvaguarda i pascoli

Un antico formaggio usato un tempo come moneta di scambio o per per pagare l’affitto dei pascoli. Lavorato con il latte crudo: conserva nutrienti, vitamine, enzimi, fermenti lattici e si arricchisce degli aromi e dei profumi delle erbe montane

Il cacio di Genazzano, sulle pendici dei monti Prenestini, un Presidio Slow Food che salvaguarda i pascoli

Un formaggio dalla storia pluricentenaria, le cui più antiche citazioni risalgono al Seicento, quando il cacio era usato anche come moneta di scambio. Questo formaggio ha rappresentato per lungo tempo un’importante risorsa alimentare per le famiglie contadine dei Monti Prenestini alle porte di Roma che ne hanno tramandato, generazione dopo generazione, le modalità di preparazione. Un consumo limitato quasi esclusivamente a livello famigliare che, nel tempo, ne ha ridotto drasticamente la disponibilità in commercio, fino quasi alla scomparsa. Erano rimaste infatti solo due aziende agricole a produrre questo pecorino a latte crudo, il cacio di Genazzano, fortunatamente diventato ora Presidio Slow Food. La produzione del pecorino di Genazzano, chiamato localmente “cacio” risale a molti anni fa. Dai contratti privati di affitto di alcuni terreni di Genazzano, risalenti a 50 anni fa, si evince che il “il formaggio secco” (cacio di Genazzano) rientrava in un elenco di prodotti agroalimentari (abbacchi, grano etc.), ceduti come corrispettivo al proprietario del terreno. I racconti dei pastori locali, che ancora oggi producono questo formaggio, fanno risalire l’origine del formaggio a più di 100 anni. Di particolare valenza storica e tradizionale è l’effettuazione della “schiumatura superficiale” e l’uso della “cannuccia di legno” nella fase di spurgo, che ha lo scopo di favorire e velocizzare la fuoriuscita del siero.

Il valore del latte crudo: conserva nutrienti, vitamine, enzimi, fermenti lattici e trasferisce ai formaggi aromi e i profumi delle erbe

Da anni Slow Food si impegna a diffondere la consapevolezza del valore del latte crudo, quello cioè che, dopo la mungitura, non viene né pastorizzato né termizzato. Un latte che conserva nutrienti, vitamine, enzimi, fermenti lattici e che trasferisce ai formaggi gli aromi e i profumi delle erbe e dei fiori del territorio di cui gli animali si sono alimentati. Far conoscere e promuovere i formaggi a latte crudo, secondo Slow Food, significa sostenere il lavoro di pastori, casari e affinatori, e al tempo stesso combattere la standardizzazione delle pratiche produttive e l’omologazione dei sapori di cui l’industria casearia, abituata a ricorrere a latti pastorizzati e a fermenti industriali, è responsabile.

La straordinarietà del cacio di Genazzano sta quindi proprio nel modo in cui l’ambiente, il clima e il pascolo naturale si ritrovano nel latte. Una ricchezza che i produttori sono impegnati a conservare: «Da un anno stanno convertendo i pascoli in prati stabili – spiega il referente Slow Food del Presidio, Loris Pergolini – cioè, in prati ricchi di essenze naturali, preziose per la biodiversità del suolo e importanti nell’alimentazione degli animali. Il processo richiederà ancora almeno quattro anni, durante i quali va allentata la pressione del pascolo su questi prati, affinché si rigenerino. Per le aziende sarà un periodo impegnativo, perché non potranno essere produttivi come prima, ma che si tradurrà in un aumento di valore del pascolo e, di conseguenza, anche del latte e del cacio: guardare più alla qualità che alla quantità è un bene». Il latte, preziosissima materia prima ottenuta dalle tre razze ovine ammesse dal disciplinare di produzione (Comisana, Sarda e Massese, più i relativi incroci), viene poi scaldato in un paiolo di rame stagnato fino ai 35-38 gradi, mentre la coagulazione avviene con caglio animale. La tecnica tradizionale prevede la rottura della cagliata in due modi diversi: il taglio a nocciola per il cacio fresco, che verrà stagionato almeno un mese, quello a chicco di mais per la versione stagionata almeno sei mesi. La differenza spiega il referente dei due produttori del Presidio, Luca D’Ottavi, sta nella dimensione dei pezzi di cagliata: più sono piccoli, minore sarà l’umidità al suo interno, la condizione migliore per una stagionatura più lunga. Dopo lo spurgo del siero, avviene la cottura della pasta: a 40 oppure a 45 gradi, sempre a seconda del grado di stagionatura desiderato. Infine, la salatura e il riposo.

Un antico formaggio usato un tempo come moneta di scambio o per per pagare l’affitto dei pascoli

Ottimo in purezza (da taglio), ideale per accompagnare fave fresche o pere, il cacio di Genazzano è anche perfetto per insaporire molti piatti storici della tradizione gastronomica laziale (grattugiato sui tonnarelli cacio e pepe, sul sugo all’amatriciana, sulla trippa alla romana, …). A stagionatura breve predilige vini bianchi di buon corpo e aromatici (es. Frascati); a stagionatura prolungata invece sono più indicati vini rossi di corpo, caldi, anche invecchiati (es. Cesanese di Affile)

«Il cacio di Genazzano l’abbiamo sempre fatto – conclude D’Ottavi – ma in realtà non lo sapevamo nemmeno. Da quando, circa vent’anni fa, abbiamo sostituito le vacche con le pecore, abbiamo semplicemente seguito le indicazioni dei pastori locali: il formaggio cambia, stagione dopo stagione, in base a ciò che i nostri ovini mangiano. È davvero un prodotto in funzione del territorio».

L’area di produzione del Presidio Slow Food del cacio di Genazzano comprende i comuni di Genazzano e di Cave nella Città metropolitana di Roma Capitale.

Commenta