Condividi

Putin non vuole la pace ma vuole l’Ucraina: la strage di Mosca ne svela però tutta la debolezza: parla Stefano Silvestri

Intervista a Stefano Silvestri, grande esperto di geopolitica e di affari militari – “La strage del rave ha risvegliato la competizione tra Isis e Al Qaeda” – “La distruzione di Hamas da parte di Netanyahu è un obiettivo teorico” – “Un leader debole al comando di una guerra che lo mantiene in vita”

Putin non vuole la pace ma vuole l’Ucraina: la strage di Mosca ne svela però tutta la debolezza: parla Stefano Silvestri

Siamo entrati in un nuovo medioevo, come scrivono gli analisti del think tank americano Rand Corporation che non prevede castelli e corazze, ma si presenta con la frammentazione sociale, la debolezza degli Stati Nazionali, economie sbilanciate, disastri naturali e guerre professionali? Pur citando la suggestiva analisi il professor Stefano Silvestri, grande esperto di geopolitica e di affari militari, sceglie una sola parola per descrivere il periodo storico che stiamo vivendo: disordine. Sembra impossibile per gli Stati, anche per quelli più importanti, trovare una linea politica coerente che possa essere seguita da tutti. Mentre le due guerre in corso, quelle in Ucraina e quella a Gaza, appaiono infinite perché sono guidate da due leader deboli, che per rimanere in sella, sono obbligati a continuarle. Unica speranza è l’Europa, che nonostante abbia tanti problemi e sia ancora una creazione in fieri, contando la sua storia e la sua civiltà può diventare un punto di riferimento per la stabilità del mondo.

Professor Silvestri, partiamo dall’attentato a Mosca. Una prima osservazione: nonostante le sue parole roboanti contro il terrorismo, da quando Putin è al potere, sul suolo russo, sono avvenuti i più terribili attentati. A Mosca, nel 2002, ci furono 334 morti; a Beslan nel 2004, 334; a Rostov sul Don, sempre nel 2004, 90 morti e infine quest’anno, al Crocus City Hall, 139. Cosa che ci fa concludere che un regime oppressivo non fa meglio delle democrazie di fronte al terrorismo. Ma soprattutto: perché il terrorismo è risuscitato?

“L’attentato di Mosca si trova nella scia dell’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso contro Israele. Secondo me la strage del rave ha risvegliato la competizione fra le varie centrali terroristiche, Isis e Al Qaeda in primis, spingendole a uscire dalle loro comode zone di influenza, come l’Africa, per portare attacchi che abbiano una eco mediatica e politica più in grande. Per questo mi aspetto che ci sia il rischio di attentati anche nei nostri paesi, dove è stato giusto alzare il livello di guardia. Nel caso della Russia, Putin ha dimostrato la sua debolezza cercando di attribuire la colpa agli ucraini, pur avendo questo attentato tutte le caratteristiche di un attacco fondamentalista islamico le cui modalità sembrano una copia esatta dell’attacco al Bataclan di Parigi.

La sua testardaggine mi ha fatto pensare al tentativo di Aznar, nel 2004, di far passare gli attentati della stazione di Atocha, a Madrid, come attentati dell’Eta. Il leader spagnolo lo fece perché temeva il giudizio del voto, a ragione, avendo appoggiato Bush nell’attacco all’Irak dopo l’attacco alle torri Gemelle. Ma Putin non aveva certamente questo problema avendo tra l’altro già stravinto le elezioni. Eppure, non ha voluto (potuto) affrontare la verità, perché? Perché non solo di musulmani è pieno il suo Paese, ma soprattutto perché buona parte del suo esercito è composto da soldati e miliziani delle regioni a maggioranza islamica e l’attentato ha messo in dubbio la sua capacità di controllo di questa vasta popolazione russa di religione islamica. Anche il fatto di aver voluto interpretare gli avvertimenti che gli Usa gli avevano inviato come una copertura della volontà di sponsorizzare l’attentato, come sostengono i suoi scherani, è un’altra indicazione di debolezza, di incapacità di uscire dal tunnel della guerra nel quale sta consumando tutta la sua credibilità internazionale”.

Veniamo alla guerra allora: la Russia sta vincendo?

“La vittoria della Russia in Ucraina, al momento non all’orizzonte, sarebbe disastrosa per tutto il sistema occidentale soprattutto per la Nato perché la costringerebbe a una posizione difensiva mentre si aprirebbero polemiche dentro i vari Paesi su chi ha fatto cosa e su chi non ha fatto. Se aggiungiamo la prospettiva di una possibile rielezione di Trump negli Usa il quadro sarebbe di totale confusione”.

I missili superveloci cambieranno la situazione sul terreno?

“Di sicuro anche senza i missili superveloci, i russi non hanno mai smesso di bombardare l’Ucraina. Non esagererei l’importanza di queste armi anche se è necessario dotare gli ucraini di mezzi più appropriati per difendersi, cosa non facile perché si tratta non solo di mezzi costosi, ma lunghi da costruire, in un momento in cui l’industria in Occidente è ancora una industria di pace. Quanto a quello che accade sul terreno, siamo ormai da mesi alla guerra di posizione”.

In Occidente si è aperto un largo fronte della pace, che spinge a cercare una soluzione per concludere la guerra: può portare a una dismissione dell’aiuto a Kiev?    

“Questo fronte ha un problema non di poco conto, ed è Putin. Putin non vuole la pace, vuole l’Ucraina. A meno che non si decida di regalargliela, non ci sono altre alternative finora perché Putin rifiuta ogni dialogo. E anche il suo atteggiamento di fronte all’attentato dimostra che non ha nessuna intenzione di discutere di pace. Avrebbe potuto cogliere la palla al balzo, per dire: collaboriamo sul terrorismo anche se abbiamo punti diversi sull’Ucraina, che era la sponda che gli offrivano gli americani. Il fatto che l’abbia volutamente ignorato, scegliendo la pista ucraina, lascia intendere che non abbia nessuna intenzione di dialogare. D’altra parte, la vera opposizione interna che ha Putin non è più liberale di lui, anzi, sono più guerrafondai, cosa che gli impedisce di fare marcia indietro”.

Non ci sono spiragli quindi?

“Quando la politica si ferma dinanzi alle armi non si può fare altro che attendere tempi più maturi. Ci troviamo in una situazione analoga anche in Israele perché la distruzione di Hamas, obiettivo degli attacchi lanciati da Netanyahu, è un programma del tutto teorico, come quello della distruzione di Isis o di Al Qaeda. Sono organizzazioni terroristiche, non Stati: puoi infliggere loro perdite gravissime, ma non arriverai mai a distruggerle. Aver impostato tutta la strategia su un obiettivo militare astratto è indicazione di incapacità di pensare politicamente non solo militarmente. E questo svela la debolezza di Netanyahu: chiaro che Israele deve affrontare la questione palestinese, ma non lo può fare eliminando i palestinesi.  Ci troviamo di fronte un altro leader debole che molto probabilmente non sarebbe rieletto se ci fossero le elezioni, ma che continua a essere a capo di un Paese e che conduce una guerra che mantiene in vita lui più che Israele. Come in Russia siamo in presenza di un leader che non vuole il dialogo. La speranza è che essendo un paese democratico Israele riesca a trovare la forza per liberarsi di Netanyahu, la difficoltà è che nessun israeliano accetterà di aprire un dialogo con Hamas dopo quello che è accaduto il 7 ottobre”.

Quindi anche se Netanyahu fosse eliminato Israele continuerebbe la guerra?

“No, perché si possono fare operazioni antiterrorismo e nello stesso tempo affrontare la questione palestinese che non significa dialogare con Hamas, ma con altre entità. Il fatto è che più continua la guerra e più sembra che i palestinesi siano solo Hamas. E questa è una tragedia. Gli americani lo vanno dicendo da tempo a Netanyahu, ma lui non li ascolta. Tra l’altro gli Usa hanno aspettato fin troppo a differenziarsi come hanno fatto nel consiglio di sicurezza dell’Onu astenendosi sulla risoluzione approvata che chiede l’immediato cessate il fuoco per il Ramadan e la liberazione degli ostaggi. Lo potevano fare anche prima”. 

La situazione non è cambiata però con la risoluzione dell’Onu

“In effetti sia Israele sia Hamas hanno risposto picche: a Netanyahu interessa solo continuare la guerra, Hamas è d’accordo con lui e in più vuole lo scambio degli ostaggi con i prigionieri”.

Mentre l’antisemitismo cresce ovunque nel mondo, anche nelle università americane

“È un effetto secondario sbagliato che viene fuori dalla confusione generale. E dal fatto che i social media lavorano a questa confusione, essendo essi incontrollati ed esprimendo posizioni influenzate da centri di potere interessati a far crescere questo tipo di caos. La verità è che stiamo assistendo a una progressiva perdita di coesione e di forza degli Stati nazione, anche dei più grandi, come ha dimostrato l’assalto al Capitol Hill, a Washington: c’è una frammentazione della situazione che rende difficile agli Stati di coagulare una politica nazionale. Ci vorrebbe una politica internazionale più lungimirante per affrontare sia queste gravi crisi che soprattutto i grandi problemi globali ambientali, sanitari, di buon governo delle rivoluzioni tecnologiche ed economiche in corso, ma la difficoltà è che proprio la debolezza degli Stati nazionali impedisce loro di coagulare il necessario consenso interno.

Alcuni si rifugiano in fughe in avanti guerresche, come la Russia di Putin, altri no; ma il risultato è lo stesso, non c’è consenso. E poi c’è il fatto che anche il modo di fare la guerra è cambiato. Prima c’era l’esercito di massa, la coscrizione obbligatoria, oggi non si pensa più in questi termini. Putin usa quasi più miliziani che soldati; anche gli ucraini hanno le stesse difficoltà, di meno perché sono sotto attacco, ma ce l’hanno anche loro. Non dico che siamo alle compagnie di ventura ma siamo in situazioni in cui gruppi specializzati conducono guerre, alcune anche del tutto illegali come i terroristi. Questa perdita della efficacia delle grandi nazioni è la caratteristica di questi tempi, comunque li si voglia chiamare, neo-medievalismo o no. Qualcuno si allarma per un ritorno alla guerra fredda quando descrivono i rapporti fra Cina e Usa. Magari stessimo tornando alla guerra fredda. La guerra fredda è un regime stabile, mentre noi siamo di fronte ad alcune guerre calde e a una situazione di difficoltà di governo generalizzata.”

Siamo di fronte a quale tipo di guerra?

“È un tipo di guerra più anarchica e più frammentata tale che fenomeni che sembrano locali hanno effetti globali. Prendiamo le due guerre in corso che dovrebbero essere circoscritte, ma non lo sono. Quella in Ucraina ha già cambiato il mercato globale dell’energia. Quella di Gaza ha sconvolto le comunicazioni marittime. Sono apparentemente piccole e circoscritte, ma si collegano tra loro perché il nostro sistema è globale”.

Secondo lei Putin vuole attaccare l’Estonia, secondo l’allarme lanciato da Tallin?

“Non penso che voglia aprire un altro fronte. Se dovesse vincere, ma io non credo che avverrà, potrà tentare provocazioni, ma faccio notare che la deterrenza nucleare funziona nei due sensi. I rischi che corre la Russia sono totali. Si possono fare tutti gli scenari, anche quelli che Trump si allei con Putin, o che Putin faccia crollare il tempio con tutti i filistei, ma parliamo di fantascienza”.

Perché Trump è pericoloso?

“Se c’è un neo-medievalista al mondo, Trump sembra fatto su misura: basti pensare alla sua ossessiva volontà di costruire muraglie difensive! Ma, più semplicemente, Trump è un isolazionista, potrebbe decidere di non occuparsi più Ucraina o di Europa, pur se non credo che lo farà. Ma è soprattutto inaffidabile. E perciò è un rischio. Con tutto il suo tuonane di America First, è un altro leader debole, che potrebbe precipitarci in nuove avventure disastrose.  In tutti i casi gli europei dovrebbero occuparsi di casa loro senza più aspettarsi di essere totalmente protetti dall’ombrello americano. Dico a quanti immaginano di emettere bond che paghino per la difesa europea: forse sarebbe il caso, prima di pensare a come pagare o chi deve pagare, di individuare due o tre priorità difensive da soddisfare nel breve periodo su cui essere tutti d’accordo: per esempio la sicurezza della frontiera a Est o quella sui mari. Prima stabiliamo le priorità e poi vedremo come pagarle”.

Il quadro appare molto scuro: come ne usciamo?

“Bisogna cercare di capire quello che succede e non perdersi d’animo. Abbiamo ancora le risorse e le capacità per governare le crisi della globalizzazione. Dobbiamo cercare di concentrarci per superare le nostre frammentazioni e cercare di portare il dibattito politico a livello più alto e parlare di grandi problemi. L’Europa è la nostra più grande speranza. Ha fatto enormi passi avanti. È una creazione in fieri, ma io ritengo che sia una delle grandi speranze del sistema internazionale. I primi tentativi seri di dare regole globali alle nuove tecnologie, come l’Intelligenza artificiale, ad esempio sono uno sforzo che mi ricorda quello di grandi giuristi rinascimentali, come Grotius, che nel XVII secolo si inventava la libertà di navigazione e di commercio. Il fondamento della nostra civiltà è un punto di forza notevole”.

Commenta