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Come trovare le ragioni silenziose della povertà in India

La riduzione di capitale estero, la contrazione delle esportazioni, l’indebolimento dei consumi privati e la persistente inefficienza delle infrastrutture non sono che la conseguenza di un fenomeno interno dalle radici profonde: l’economia informale.

Come trovare le ragioni silenziose della povertà in India

Come indicato dal focus SACE dello scorso settembre, l’economia indiana ha registrato nel corso del 2012 il tasso di crescita del PIL peggiore degli ultimi dieci anni (5%). Se l’andamento al ribasso di produzione industriale e investimenti continua dal 2011, il rallentamento dell’ultimo anno è stato aggravato da un calo del settore servizi, una contrazione delle esportazioni, una riduzione della spesa pubblica (attuata con l’obiettivo di contenere l’elevato deficit fiscale) e un indebolimento dei consumi privati come conseguenza degli elevati tassi di interesse e della crescente inflazione.

L’annuncio da parte della Fed di un allentamento della politica monetaria espansiva americana ha prodotto in India una riduzione degli afflussi di capitali esteri, al deprezzamento nei confronti del dollaro USA, con un conseguente nuovo aumento dell’inflazione (5,8% a luglio 2013). Questo effetto è stato amplificato dai problemi strutturali che caratterizzano il paese: si veda l’elevato deficit di parte corrente (stimato al -4,9% del PIL per il 2013) e la persistente dipendenza dalle importazioni di materie prime ed energia. In questo scenario, la crescita dell’inflazione potrebbe causare un’inversione nella politica monetaria che, a partire da gennaio 2013, aveva intrapreso un percorso di graduale allentamento per favorire la crescita. Il deflusso dei capitali ha determinato una graduale erosione delle riserve in valuta estera, che restano comunque ad un livello adeguato (copertura di circa 6 mesi di import).

La Reserve Bank of India ha recentemente attuato alcune misure per porre rimedio al deprezzamento della valuta e che possano stimolare la crescita:

  • imposizione di alcune restrizioni all’acquisto di oro;
  • minori ostacoli all’apertura di filiali bancarie (norma che dovrebbe entrare in vigore a gennaio 2014);
  • la possibilità per le banche domestiche di effettuare swap a tassi agevolati, riducendo così il costo dell’hedging;
  • innalzamento del limite di indebitamento in valuta estera: le banche potranno, ora, prendere a prestito fino al 100% del tier 1 capital (precedentemente la soglia era fissata al 50%).

Queste misure dovrebbero incentivare i depositi in valuta estera e permettere alla banca centrale di aumentare le proprie riserve in valuta forte. Allo stesso tempo, però, espongono il sistema bancario e la banca centrale stessa al rischio di notevoli perdite nel caso si dovesse verificare un ulteriore marcato deprezzamento della valuta locale. Per il momento l’impatto del deprezzamento della rupia sul costo del servizio del debito può essere considerato contenuto, in quanto solo l’8% del debito pubblico è denominato in valuta estera. Di questo il debito sovrano in valuta estera ammonta a 81,7 miliari di dollari (pari a circa il 4,4% del PIL), il 53% del quale nei confronti di multilaterali e per la quasi totalità a lungo termine. L’indebitamento in valuta estera del settore privato indiano rappresenta, a livello aggregato, circa il 15% del PIL (circa 290 mld). I bilanci delle imprese con un elevato debito in valuta estera e di quelle che, per necessità produttive, importano materie prime sono i più esposti alle conseguenze della fluttuazione del tasso di cambio (come ad esempio le imprese del settore della raffinazione di prodotti petroliferi).

Allo stesso tempo, se si offre uno sguardo allo studio recentemente pubblicato da IndiaIndie, si può notare come i servizi ad alto contenuto di conoscenza, sebbene in rapida crescita, costituiscono ancora una frazione molto piccola dell’attività economia del paese e hanno un peso ancor più limitato nel commercio mondiale di servizi informatici. L’aspetto più rilevante dell’economia indiana è ben altro: circa i due terzi del PIL derivano dall’economia informale, vale a dire quell’insieme di attività non registrate e al di fuori del controllo diretto dello Stato. È qui va ritrovata una delle condizioni che alimentano la povertà nel paese, a fianco di considerevoli ricchezze non dichiarate. L’economia informale infatti prospera dove lo Stato non impone le proprie leggi, o quando il processo di attuazione della legge viene catturato da interessi economici più potenti dello Stato stesso. Il settore informale è un ambito chiaramente più ampio rispetto all’economia sommersa (costituita da rendite, profitti e compensi per materie prime e manodopera non dichiarati) ed entrambi sembrano essere in crescita. La legislazione a tutela del lavoro vigente in India, spesso considerata d’ostacolo agli investimenti, è semplicemente irrilevante per la stragrande maggioranza dei lavoratori.

L’economia informale indiana, ben lungi dall’essere caotica, è ordinata e “socialmente regolata”. Che cos’è allora che mantiene l’ordine nell’economia informale? Diversi tipi di forze sociali, primo fra tutti una sorta di “stato ombra” informale, composto da intermediari più o meno politicizzati e rendite di posizione, che gestisce quasi ovunque un sistema parallelo di controllo dell’economia. Inoltre, le Camere di Commercio e le associazioni d’impresa (che operano in base al settore di produzione e alle città, alcune federate a livelli più alti) rivestono crescente importanza non solo in qualità di rappresentanti dei settori occupazionali di fronte e contro lo Stato, ma anche come regolatori dell’economia. Esse possono scoraggiare l’avvio di determinate attività, imporre l’apertura di cantieri, stabilire pesi e misure, arbitrare controversie, gestire assicurazioni locali, definire modalità di apprendistato o di cessione del credito e molto altro ancora.

Il fenomeno della casta, da parte sua, continua a rivestire primaria importanza per l’economia. Quasi soprascritto alla classe, esso svolge ancora una funzione di filtro per l’occupazione, limitando tanto più opportunità e possibilità di scelta quanto più si discende la gerarchia. La politica castale ha un duplice ruolo nell’economia: da un lato, le caste aspirano alla mobilità sociale ascendente, assorbendo i costumi propri di quelle superiori e rifuggendo dalle occupazioni associate a uno status castale basso. Allo stesso tempo, fanno la fila per essere ufficialmente classificate come “arretrate”, al fine di ottenere i requisiti per accedere alle quote riservate nel pubblico impiego e nel sistema di istruzione superiore. Nel corso dell’ultimo quarto di secolo le organizzazioni delle caste medie si sono trasformate in associazioni di categoria che svolgono una funzione di regolamentazione dell’economia informale. Attraverso tali associazioni, la cui agenda non riconosce priorità alcuna ai bisogni del lavoro, il fenomeno ha assunto una forma corporativa. Le organizzazioni di categoria svolgono un ruolo molto attivo nella politica non partitica dei mercati, ricoprendo funzioni di negoziazione e rappresentanza, nonché di re-distribuzione delle risorse. Tuttavia, nell’esercitare tali funzioni esse si dimostrano carenti, attente all’interesse particolare, arbitrarie e chiuse, costituendo dunque una sfida tanto per i processi di partecipazione economica, quanto per la democrazia. I codici di condotta internazionali e i codici volontari di settore a tutela del lavoro hanno a tutt’oggi scarsa presa su questo tipo di sistema, visto che lo Stato stesso risulta permeato da tali forme di regolamentazione sociale. Ecco allora che qualsiasi cambiamento politico ed economico che voglia incidere sull’economia informale, così come qualsiasi investitore che voglia operare in India, deve tenerne conto, adottando quegli strumenti che provengono dalla lungimiranza e dalla coscienza della sistematicità del sapere e delle decisioni, a fronte di un’interdipendenza che nel lungo periodo colpisce ogni forma di facile opportunismo.

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