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“La grande bellezza” verso l’Oscar, ma non è un rinascimento del cinema italiano

La lunga storia del nostro cinema agli Oscar potrebbe arricchirsi di un nuovo capitolo, con la candidatura de “La grande bellezza” – Il successo del film di Sorrentino, più che parlarci dello stato di salute del cinema italiano, testimonia la necessità di raccontare il nostro declino.

“La grande bellezza” verso l’Oscar, ma non è un rinascimento del cinema italiano

Se volessimo fare della retorica, potremmo iniziare così: Sorrentino porta l’Italia alla conquista di Hollywood, o qualcosa del genere. Perchè la notizia di oggi è che il nostro cinema torna alla notte degli Oscar con “La grande bellezza”, ufficialmente entrato nella cinquina delle pellicole candidate come miglior film straniero.

Possiamo tornare a sognare la nostra grandeur, allora, dopo 8 anni dall’ultima volta in cui indossavamo il vestito buono e ci presentavamo al galà di Hollywood dalla porta principale, con il trascurabile La bestia nel cuore, di Cristina Comencini. Era il 2006. Poi, un lungo deserto senza oasi, con tanto di bocciature illustri come quella di Gomorra di Matteo Garrone.

Per il resto, la storia degli allori hollywoodiani conferiti al nostro cinema è una storia declinata al passato, se non al passato remoto. E’ la storia delle sette statuette di Vittorio de Sica e Federico Fellini, e di quella di Elio Petri con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto nel 1971. Poi un lungo silenzio, e il rifiorire – forse illusorio – negli anni ’90 con le statuette vinte da Giuseppe Tornatore e Gabriele Salvatores, rispettivamente con Nuovo cinema Paradiso e Mediterraneo, fino all’ultimo capitolo: la grande notte di Roberto Benigni, che nel 1999 si portò a casa, primo attore non anglosassone a riuscirci, anche la statuetta per il ruolo da protagonista ne La vita è bella.

La grande bellezza potrebbe rinverdire quei fasti: la concorrenza, visto anche il forfait per motivi tecnici de La vita di Adele, non sembra irresistibile, e la vittoria del Golden Globe rappresenta tradizionalmente un buon viatico verso l’Oscar.

E allora potremo gridare tutti alla rinascita del cinema italiano, illuminando retrospettivamente anni di stenti alla luce di un’eventuale trionfo, che in qualche modo li giustifichi e assolva. Ma cosa ci dice veramente la candidatura all’Oscar di Sorrentino sullo stato di salute del cinema italiano? Forse nulla, anche se il 2013 è andato benino, grazie soprattutto al clamoroso exploit di Checco Zalone e del solito nugolo di commedie più o meno interessanti.

Forse l’unica cosa che ci dice il fatto che a restituire linfa all’immagine internazionale del nostro cinema (o almeno a una sua porzione) sia un’opera definita dal New York Times come “una metafora del declino italiano” è che l’ultima possibilità che abbiamo per fare un racconto di livello e spessore sia quella di raccontare la nostra perdita di valori e orientamento.

Come se l’unica storia che possiamo ancora raccontare sia quella del lento dondolio delle vite italiane, consumate nei rituali di una liturgia priva di senso del sacro, incorniciata dalla più bella delle città, e anche dalla più decadente. La capitale dei trenini che non arrivano mai – il circolo chiuso della cultura che racconta solo se stessa – e dei tramonti rossi a picco sul Tevere, simbolo eterno della grande, immane e orrenda bellezza della nostra contraddizione.

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