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La casa di carta di Netflix, quinta e (forse) ultima stagione: dietro le quinte

Si è conclusa su Netflix la quinta stagione della serie televisiva spagnola ideata da Álex Pina – Lo ha fatto chiamando tutti a raccolta in un finale di serie ricco di suspence e colpi di scena – La domanda è: ci sarà una sesta stagione?

La casa di carta di Netflix, quinta e (forse) ultima stagione: dietro le quinte

Abbiamo dovuto attendere oltre 4 anni, vedere 5 stagioni e passare notti insonni a seguire decine di episodi per sapere come si sarebbe conclusa la più grande rapina televisiva del terzo millennio, quella alla Banca di Spagna. Ovvero non tanto se e come andava a finire il colpo grosso, quanto invece sapere quali sarebbero state le sorti della banda di rapinatori all’epoca del furto in streaming più seguito in oltre 120 paesi del mondo.

Andiamo con ordine: la scorsa settimana vi abbiamo parlato dell’inizio della quinta (e forse ultima stagione) de La casa di carta distribuita da Neflix. Già dal primo giorno, il 3 dicembre, il successo è stato immediato e garantito: secondo quanto riportato da Comscore, la conclusione della serie è stata tra i programmi TV di Netflix con maggiore seguito in Italia e “nel giorno della sua uscita, la percentuale di dispositivi collegati è cresciuta di 15 volte”.

Siamo ormai arrivati al cuore del grande colpo: si tratta di fare uscire tutto l’oro della riserva nazionale spagnola, la cui “estrazione e sottrazione” porterebbe il paese alla bancarotta. E sarà questa propria la chiave di volta per chiudere l’avventura non prima però di aver visto scatenare un inferno di fuoco e di sparatorie degno dei migliori film di guerra. Con più una piccola quanto fondamentale differenza: quando, ad un certo punto, si vede una scena con la pioggia che cade dal soffitto aperto si tratta di pioggia vera e non artificiale come spesso accade sul set. Nella stessa scena si vede un soggetto che accende una sigaretta sotto l’acqua con grande difficoltà: è tutto vero. Come pure, quando si vede il metallo che si scioglie nel crogiuolo per trasformarsi prima in grani e poi in lingotti, si tratta di una fusione vera fatta da veri fonditori prestati per l’occasione in veste di comparse. E così via, evidenziando un’altra chiave del successo della casa di carta: l’assoluta verosimiglianza di quanto proposto sulla scena e nell’intero racconto, compreso il modo rocambolesco usato per fare uscire l’oro dalla Banca.

Ora che abbiamo visto e saputo come è andata a finire possiamo solo dire che “vissero tutti felici e contenti” senza togliere nulla alla sorpresa per quanti invece ancora non hanno visto l’ultimo episodio e non sanno ancora che fine ha fatto l’oro e quali saranno i destini dei componenti della banda. Ma intanto vi possiamo raccontare di due documentari collegati alla serie (sempre su Netflix) che, anche da soli, meritano di essere visti: il primo è stato realizzato lo scorso anno con il titolo “La casa di carta: il fenomeno” e il secondo viene diffuso in parallelo alla messa in onda della quinta stagione e il titolo “Da Tokio a Berlino“. Sommariamente i due filmati ci raccontano e sintetizzano che le prime stagioni (il colpo alla Zecca) hanno rappresentato una narrazione più “tecnica” mentre le ultime hanno proposto un racconto più “emotivo” anche se sapientemente sempre accompagnato da tanta action.

Il primo filmato evidenzia l’impronta delle prime stagioni, ovvero della prima rapina alla Zecca di Madrid. Come noto, il grande colpo riesce e la banda si gode il frutto di tanto impegno. Già dai primi episodi si capisce subito che La casa di carta non è il solito racconto di una rapina ma la storia di un gruppo di rapinatori vestiti di smaglianti tute rosse che si vogliono bene, sono simpatici ed empatici con il pubblico, intrecciano storie d’amore e cantano “Bella ciao” con la maschera di Salvador Dalì. Il successo della serie televisiva non è stato immediato ma ha seguito una continua parabola ascendente e la storia diventava sempre più avvincente man mano che si svolgeva. È verosimile, come sostenuto in questo primo documentario, che proprio l’improvvisazione che spesso c’è stata nella scrittura, nella sceneggiatura, come pure sul set sia stata un’altra tra le chiavi del suo successo. 

Il secondo documentario invece racchiude tutta la parte storica e sentimentale dei personaggi che comunque ha costituito pure larga parte del successo di tutta la serie. Si ripercorre la vicenda del Professore, dei suoi vizi e delle sue virtù, e si capisce bene il suo passato e il suo futuro: “sono figlio di un ladro, io stesso sono un ladro e spero che mio figlio sia un ladro”. Si vedono poi in controluce i tratti delle donne più importanti: Úrsula Corberó (Tokyo), Itziar Ituño Martínez (l’ispettrice Raquel Murillo), Alba González Villa Flores (Nairobi) e infine una sontuosa Najwa Nimri Urrutikoetxea (Alicia Sierra) che hanno retto l’architettura del racconto che, solitamente in questo genere di film, è prevalentemente di genere maschile. 

Ma si farebbe torto a tutti gli altri protagonisti per quanto ognuno, indistintamente, ha avuto un forte spessore nell’economia generale del racconto e per questo ha riscosso grande fortuna negli interessi del pubblico. Al centro c’è il Professore (Álvaro Antonio García Morte) con la sua mente sempre impegnata da un verso a programmare l’impossibile e dall’altro a gestire l’imprevedibile e, nel mezzo, tutte le sue passioni e attenzioni alle donne che prima cercano di braccarlo e poi invece gli si avvicinano. Da lato opposto il Colonnello Tamajo (Fernando Cayo) che non riesce mai ad essere veramente il “buono” che dovrebbe o il “cattivo” che potrebbe. Intorno alle figure centrali, in tutta la serie sin dal suo inizio, ha sempre girato una vasta coralità di figure, di persone, di individui, dove ognuno ha rappresentato un ruolo duplice: buoni e i cattivi allo stesso tempo, mai troppo cattivi e violenti da risultare odiosi e mai nemmeno tanto buoni perché comunque fuorilegge e pur sempre rapinatori armati e agguerriti. La stessa polizia o l’esercito non sembra mai completamente “dura” quanto invece dovrebbe essere e tantomeno “buona” quanto viene raccontata. 

Ora che (forse) La casa di carta è finita e in attesa dello spin-off su Berlino, uno dei protagonisti fondamentali, e della serie analoga che verrà realizzata in Corea, si può affermare semplicemente che quando gli ingredienti di un racconto sono mescolati sapientemente (testi accurati, altissimo livello di recitazione, regia e tecnica di ripresa) il prodotto giocoforza è forte ed avvincente. Si può aggiungere un elemento che fa salire l’asticella della competizione: l’impiego di grandi capitali spesi nella produzione come solo le major di Hollywood possono permettersi e come hanno bene insegnato quando realizzano grandi blockbuster per il mercato mondiale. Non sarebbe stata la stessa casa di carta se non avessero potuto contare su spese senza limiti di budget. Ma non sarebbe stata nemmeno la stessa casa di carta se, alla fine del racconto, sia i protagonisti (dentro e fuori il racconto) quanto gli spettatori non avessero provato un filo di commozione al pensiero che l’avventura era terminata. Questo sentimento però non ha prezzo.

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