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“Christo, che artista”: lettera-ricordo del collezionista d’arte Giuliano Gori

Il celebre collezionista d’arte contemporanea, Giuliano Gori, rende omaggio al grande artista Christo, scomparso il 31 maggio, rievocando il loro primo rocambolesco incontro nella Fattoria di Celle sulle colline pistoiesi.

“Christo, che artista”: lettera-ricordo del collezionista d’arte Giuliano Gori

Fu vero amore. Dichiarato con un abbraccio travolgente. Quasi uscito da Amici miei, il celebre film di Mario Monicelli, con Ugo Tognazzi. La scena: una lunga tavola imbandita nel salone a pian terreno di una villa toscana. Lui si alza in piedi e di slancio sale sulla tavola e la attraversa di corsa fino all’altro capo, mandando in frantumi piatti e bicchieri, per tuffarsi a stringere quello che da quel momento diventa l’amico della vita.  

«Rischiammo di romperci l’osso del collo», racconta Giuliano Gori, uno dei più importanti intenditori e collezionisti d’arte contemporanea al mondo. Ma tale fu la gioia incontenibile che Christo provò da dover liberare l’emozione con quel gesto irrefrenabile. Gori ricorda l’episodio per commemorare il famoso artista scomparso il 31 maggio. 


Giuliano Gori, Paolo e Serena Gori, Christo e si incontrano alla Fondation Maeght, Saint-Paul de Vence, 2016


Era il mese delle rose, quarantasei anni fa. Nella splendida dimora settecentesca adagiata sulle colline pistoiesi, da non molto scelta e acquistata per dar vita a quella che sarebbe diventata la Fattoria di Celle, la più vasta e autentica collezione di arte ambientale esistente, Gori aveva organizzato una cena di benvenuto per l’ospite appena arrivato da New York. Gli invitati erano 80, ma arrivarono 400 persone («Tutte fuori sui prati, a mangiare col piatto in mano»), tanto vasta era già la fama del geniale interprete della Land Art.  

«L’idea di invitare Christo nacque perché l’amico Giannino Veronesi, papà di Sandro, lo scrittore, un giorno mi dice: – Senti Giuliano, qui a Prato, a Firenze, in Toscana, è un mortorio. Non accade più nulla nell’arte. Perché non porti qualcuno che ci svegli da questo torpore? – Qualcuno tipo Christo? – Sì, appunto, uno come lui». 

Gori non conosceva personalmente Christo. «Sicché gli mandai una lettera di invito, concludendola scrivendo che ero sicuro che non sarebbe venuto, ma almeno che mi mandasse una cartolina di risposta». Invece della cartolina, arrivò un telegramma: «Accetto. Perché non venire?».

Bram Hammacher (ex-direttore del Museo Kroller-Muller, Otterlo), Jeanne Claude, Giuliano Gori, Renilde Hammacher (ex-direttrice del Museo Boijmans-van Beuningen, Rotterdam) e Christo davanti alla cappella della Fattoria di Celle nel luglio 1988

Christo aveva realizzato nel 1972 la Valley Curtain, la gigantesca tenda arancione che univa le due sponde del canyon del Colorado, là dove ancora è ampio e non molto profondo. Ed era molto dispiaciuto di lasciare New York senza avere visto il filmato che documentava la performance. 

Gori, attraverso gli amici newyorkesi, riuscì a procurarsi la pellicola. «Ci sta facendo diventare matti, mi dissero al telefono. Te la mandiamo e quando arriva fagliela vedere subito». Durante la cena, ad un suo cenno, fu abbassato lo schermo e partì, a sorpresa, la proiezione. La felicità esplosiva di Christo si tramutò nella corsa sulla tavola e nel tuffo ad abbracciare Giuliano. 

Christo tornò molte altre volte a Celle, spesso in incognito, per staccare dagli impegni di lavoro e sociali. «Mi chiamava e diceva: – Tu sei il mio rifugio spirituale e reale; non far sapere a nessuno che vengo. –Tranquillo, nessuno lo saprà». Arrivava insieme all’inseparabile moglie, Jeanne-Claude, nata lo stesso giorno, il 13 giugno del 1935. «Jeanne-Claude aveva una passione matta per la Pasta del Capitano, il dentifricio, e per i Baci Perugina. Ogni tanto gliene mettevo un po’ in un pacchetto e glieli spedivo, senza neanche un biglietto». 

Una volta, alla villa, lei volle parlare a quattr’occhi con Giuliano, e si incamminarono per il parco. «Senti Giuliano, ho visto quella stanza nella torre della fattoria. Non è giusto che tu non abbia nulla di nostro. Mandami la planimetria». Gori non gliela inviò mai. «Mi pareva di approfittarne». Lei ci rimase un po’ male. In tante altre occasioni fu Giuliano a essere loro ospite, con l’altrettanto inseparabile Pina, a SoHo, il quartiere newyorkese eletto dagli artisti quale luogo dove vivere e lavorare. 

Oppure si incontravano in giro per il mondo. «Sono a Parigi, quando arrivi?». E Giuliano prendeva l’aereo per andare dall’amico. «Stava impacchettando il Pont Neuf. Vederlo lavorare e con grande precisione sincronizzare i volontari: una vera festa!». 

Parigi era una città speciale per Christo. Lì, nel 1958, aveva incontrato Jeanne-Claude. Insieme avevano realizzato varie opere. L’ultima, L’Arc de Triomphe, Wrapped, avrebbe dovuto essere visibile dal 16 settembre e al 9 ottobre prossimi. Ma l’installazione era stata rinviata al 2021, a causa dell’emergenza sanitaria. 

Giuliano ha amato talmente l’amico che gli ha scritto una lettera aperta post-mortem. Poche righe per ricordare il rocambolesco primo incontro. E l’ultimo, nel settembre 2016, a Saint-Paul de Vence, dalla comune amica Isabelle Maeght, mentre sul Lago d’Iseo erano in corso i festeggiamenti per The Floating Piers. «Chi avrebbe potuto immaginare che sarebbe stata l’ultima volta». 

Per chi non la conosce, la Fattoria di Celle contiene più di 80 opere. Tutte realizzate lungo un arco di tempo che va da un minimo di tre-quattro mesi a dieci-quindici. Per alcune, anche due anni. Perché gli artisti sono invitati a risiedere lì per scegliere quale intervento effettuare in funzione dello spazio da loro stessi scelto durante il soggiorno. 

«Qui l’arte è ambientata, non è solo ambientale. Lo spazio non è un semplice contenitore ma è parte integrante e assoluta dell’opera. Perché i diritti dell’arte iniziano quando finiscono quelli della natura, che è il vero dominus: i diritti della natura non si possono ledere. Se cade un albero, che è parte di un’opera e dialoga con essa, lo rimettiamo come è». 

Non c’è, quindi, da stupirsi se Giuliano fosse realmente in lutto, una voce da funerale, quando gli telefonai per sapere se ci fossero stati danni anche a Celle a causa della tempesta di vento, con raffiche fino a 190 chilometri all’ora, che si era abbattuta sulla Toscana nella notte tra il 4 e il 5 marzo 2015. «Luca, Celle non sarà mai più come prima. Sono stati abbattuti centinaia di alberi e alcuni sono caduti sulle opere». Gli chiesi notizie di quella straordinaria coppia, un platano e un leccio, che si abbracciano, compenetrandosi in molti punti. «Per fortuna quella è salva», rispose illuminandosi. La passione e l’impegno della famiglia Gori (alla terza generazione) hanno ripristinato l’ambiente come era prima dell’uragano. 

I rappresentanti del Guggenheim, del Moma, di Kassel vengono a Celle per contemplare l’originalità di questo luogo. In cui la natura è madre feconda e figlia amorevolmente accudita dai Gori. Madre feconda tanto da produrre vere e proprio metamorfosi culturali negli artisti. Come accaduto a Bob Morris che, arrivato minimalista, se ne andò ispirato al barocco.

Ovviamente non è tanto o soltanto la magia del posto, quanto e soprattutto l’entusiasmo contagioso di Giuliano. Che è riuscito perfino a far realizzare a Sol Lewitt un’opera in marmo, lui che lo considerava materia obsoleta e prediligeva la vetroresina. «Il marmo è obsoleto? Voi siete obsoleti! Non puoi lasciar condizionare la tua creatività da un materiale. Devi poter manipolare tutti i materiali». Richard Serra a Celle è passato dai grandi acciai alla pietra

Tanto si era diffusa la fama delle proprietà trasformative di Celle che al cancello della Fattoria si presentò, senza preavviso, Leo Castelli, il famoso gallerista newyorkese, gestore dell’arte contemporanea. Voleva capire cosa ci fosse sotto. «Sono venuto per educazione, racconta Giuliano, perché tu me li hai rovinati tutti». Fecero una passeggiata nel parco e Castelli riconobbe che tutti i lavori erano degni dei grandi artisti che li avevano realizzati.  

Infine, andarono insieme a visitare la Villa Medicea di Poggio Caiano, che Gori fece aprire dalla sovrintendenza per soddisfare il desiderio di Castelli di ammirare il Salone di Leone X, con gli affreschi di Pontormo e altri maestri rinascimentali. Da lì Leo non tornò a Celle con Giuliano, ma ripartì in taxi per Firenze. «Ho paura che tu cambi anche me, se restassi qui». 

A quasi novant’anni («Sono nato nel 1930, il 16 agosto, lo stesso giorno in cui morì Francesco di Marco Datini»), Giuliano Gori resta animato da una vulcanica pulsione creativa, con predilezione per la contaminazione. Coinvolgente al punto che Sandro Veronesi, che mai prima aveva mai impugnato la matita dell’architetto (benché il padre fosse ingegnere), ha realizzato a Celle La serra dei poeti. «Sono per il fare, non per il dire». Chissà quale sarà la prossima sfida in cui si cimenterà Giuliano. Di sicuro ci stupirà. 

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