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Cgil e Uil oltre lo sciopero: il rischio del nanismo politico

Dopo la protesta serve la proposta, ma per partecipare alla sfida del cambiamento occorrerebbe nei sindacati una visione adeguata delle novità in atto nell’economia e nella società italiana – Colpisce il mutamento dell’identità storica della Uil che sta perdendo l’occasione di rilanciare la sua ispirazione riformista

Cgil e Uil oltre lo sciopero: il rischio del nanismo politico

A sciopero consumato si può avviare una riflessione più organica su quella che appare oggettivamente una svolta di Cgil e Uil nei rapporti con il governo Draghi. Non tanto sul livello di partecipazione dei lavoratori quale esso sia stato (per una causa che si ritiene giusta si può anche combattere da posizioni di minoranza) quanto sulla chiarezza, sulla coerenza degli obiettivi nel contesto politico ed economico attuale.

Lo sciopero, se esercitato nell’ambito delle leggi che lo regolano, rimane un diritto (beato il paese che oggi se lo può permettere ha scritto il direttore del “Foglio”) e non c’è nessun attacco (quasi?) squadrista che lo metta in discussione. Meriterebbero una certa attenzione la permanente instabilità politica del paese, la drammatica crisi energetica (non crescono solo le bollette dei cittadini, ma anche quelle delle imprese), l’inquietante risalita dell’inflazione e la sottovalutazione dell’ enorme debito pubblico (di cui è bene ricordare fanno parte anche i fondi europei del PNRR che dovremo restituire).

Per di più l’evasione fiscale rimane su livelli abnormi e non sembrano essere ancora individuati gli strumenti concreti per debellarla, sia pur con la gradualità necessaria. Né sembra esservi la consapevolezza della situazione critica del nostro sistema pensionistico che secondo il rapporto OCSE 2021 registra la spesa più alta al mondo con il 16% di incidenza sul PIL che salirà al 18% nel 2035.

Sarebbe auspicabile, con l’effettiva separazione tra previdenza e assistenza, una reale assunzione di responsabilità delle forze sociali nella gestione degli enti previdenziali. È del tutto evidente che, se non saranno affrontati questi nodi strutturali, la povertà, la precarietà e la disoccupazione si aggraveranno e nessuna legge da sola, al di là delle buone intenzioni, produrrà risultati utili. Occorrerebbe una visione adeguata dei profondi cambiamenti in atto nell’economia e della società per affrontare la sfida del cambiamento. Tantomeno si riflette sulla crisi del sistema politico, sulle possibili riforme istituzionali e sulla governabilità come condizione necessario, anche se non sufficiente, della crescita. Come dicevamo una volta la protesta va accompagnata dalla proposta. Ribadire i tradizionali temi rivendicativi, in tutto condivisibili ma spesso indeboliti da motivazioni generiche e approssimative, comporta il rischio di perdere grandi opportunità se il sindacato non si assume anche la responsabilità di entrare nel merito concretamente con progetti credibili per garantire un processo di risanamento e di sviluppo che è l’unica soluzione democratica per uscire dalla crisi.

Il sindacato italiano, sopravvissuto alla crisi dei partiti del 1992, è oggi nel suo insieme la più forte realtà organizzata del paese e dispone ancora di importanti risorse, umane ed economiche. È potenzialmente un soggetto politico di primo piano e anche in tempi difficili esercita, soprattutto ma non solo nei luoghi di lavoro, una funzione importante di natura contrattuale. Nel corso del tempo gli sono state affidate funzioni dello Stato che si sono via via estese come la gestione delle pratiche previdenziali e delle dichiarazioni dei redditi, ha ottenuto benefici importanti dallo Statuto dei lavoratori, ha costruito con gli imprenditori una rete fittissima di enti bilaterali che erogano previdenza , sanità integrativa e ammortizzatori sociali. Rischia però il nanismo politico. A differenza del proletariato ai tempi di Marx, se in un momento difficile per il paese apre uno scontro senza spiegazioni convincenti con un governo che per la prima volta dopo anni ha realizzato una manovra espansiva e sta rafforzando l’impianto degli ammortizzatori sociali, non ha da perdere solo le proprie catene.

Cosa possa avere indotto Maurizio Landini a scegliere la via dello sciopero generale “identitario” nelle attuali circostanze può essere forse spiegato politicamente dalla tentazione di rilanciare un modello di cinghia di trasmissione alla rovescia per condizionare il PD o per dar vita a una “nuova sinistra”. La stessa scelta di contestare la diffusione del green pass nei luoghi di lavoro in assenza di una norma di legge aveva già suscitato non poche perplessità. Landini ha sottolineato l’identità di un sindacato ”di classe” non estranea alla storia della Cgil: tutto legittimo, resta solo da vedere se la radicata componente PD subirà senza reagire queste condizioni.

Diversa la considerazione sulla Uil che sembra avere avviato un processo di mutamento della propria identità storica. E ciò non tanto per l’alleanza con la Cgil (l’articolazione delle posizioni nei rapporti fra le tre principali confederazioni è sempre stato un fatto fisiologico) quanto per i contenuti.

Il governo Draghi poteva rappresentare per la Uil un’occasione importante per contribuire, anche in termini di sfida , ad affrontare nel merito da protagonista i grandi temi identificativi della storia della Uil. Dalla riforma fiscale, con annessa lotta all’evasione come affrontata a suo tempo da Giorgio Benvenuto con i convegni “Io pago le tasse e tu?”, alla contrattazione aziendale per il rilancio della produttività con agevolazioni fiscali e una nuova organizzazione del lavoro con la presenza in azienda di delegati sindacali esperti della sicurezza e con ruoli definiti, dall’introduzione di modelli partecipativi nelle imprese al rilancio di efficaci politiche attive del lavoro che potrebbero essere cogestite dal sindacato.

Ciò non comporta l’abbandono delle fasce più deboli, anzi le tutela maggiormente perché è più facile garantire la solidarietà se si crea valore. D’altra parte se dovessimo accettare come oro colato le dichiarazioni dei redditi Irpef saremmo di fronte a un paese fatto principalmente di indigenti. Qui sta il problema. Il nostro sistema fiscale finisce per confondere i veri poveri, spesso abbandonati a sé stessi, con un numero non trascurabile di contribuenti che, spinti dal combinato disposto delle detrazioni e degli scaglioni, nascondono parte del proprio reddito. L’iniziativa del sindacato dovrebbe promuovere una rivisitazione dell’intero sistema fiscale, magari rivendicando una più estesa applicazione del conflitto di interessi, ampliando le detrazioni e moltiplicando i controlli sulla compatibilità del reddito dichiarato con il proprio tenore di vita.

Discutibile è anche il modo di individuare i “ricchi” (chi guadagna 2.500-3.000 euro al mese netti è un ricco?) che sono stati spesso confusi con i lavoratori professionalizzati e i ceti medi, una realtà che per la Uil è sempre stata oggetto di attenzione. Non si spiegherebbe altrimenti la posizione assunta dalla Uil in passato per differenziare il punto unico di scala mobile o la designazione al CNEL del segretario dei quadri Fiat, Luigi Arisio, che fu l’organizzatore della marcia dei 40.000 a Torino nel 1980.

La Uil potrebbe correre seri rischi collocandosi accanto alla Cgil senza mantenere riconoscibile una propria identità riformista che si manifesta nei contenuti concreti dei propri obiettivi sindacali. C’è peraltro una questione aperta per tutto il movimento sindacale: le stesse modalità di proclamazione dello sciopero generale che in altri tempi avrebbe coinvolto in assemblee preparatorie tutto il mondo del lavoro lasciano più di una perplessità. Anche una grande organizzazione come il sindacato di oggi, rinato nelle straordinarie vicenda del ’68 e che vive di rapporti diretti con i lavoratori, rimane purtuttavia esposta al rischio di subire processi di burocratizzazioni e di favorire assetti oligarchici. E’ un rischio inevitabile nel momento in cui gli apparati assumono per forza di cose un ruolo dominante. Ma alla lunga gli apparati diventano autoreferenziali e finiscono per perdere l’originaria funzione.

Questo fenomeno viene da lontano e, se non contrastato con misure efficaci, è difficile da arginare. L’unica risposta convincente è quella di garantire la ripresa di una partecipazione effettiva dei lavoratori alle decisioni più importanti considerando una ricchezza la diversità delle opinioni, facendone poi una sintesi convincente. Aiuterebbe molto l’attuazione dell’articolo 39, che accompagna il pluralismo sindacale alla certificazione degli iscritti, riconoscendo la diversa rappresentatività delle organizzazioni.

Trovo condivisibile l’opinione di Savino Pezzotta secondo cui sarebbe necessario coinvolgere i delegati e i lavoratori prima di decidere negli organismi nazionali e che una decisione come lo sciopero generale dovrebbe essere approvata da un referendum deliberativo tra i lavoratori. Il mondo sta cambiando rapidamente ed è per questo necessaria una forte spinta partecipativa per comprendere meglio la direzione dei cambiamenti e governarli.

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