Condividi

Steve Jobs: la soluzione ai nostri problemi non è la tecnologia, sono le persone

Steve Jobs: la soluzione ai nostri problemi non è la tecnologia, sono le persone

L’agente del cambiamento non è la tecnologia.

Intervista di Daniel Morrow, Smithsonian Institute, del 20 aprile 1995
Traduzione dall’inglese di Francesco Vegni

Nel 1995, l’anno prima di rientrare in Apple e l’anno del prospetto alla SEC per la quotazione di NeXT, Jobs rilasciò varie interviste per spiegare che cosa era diventata NeXT e che cosa intendeva fare. Tre anni prima NeXT Computer era diventata NeXT Software. Un bel santo triplo dal trapezio senza rete di sicurezza. Sicché c’era molto bisogno di spiegare ora che si pensava a quotarsi a Wall Street.

Nel frattempo si occupava anche della Pixar, in un momento molto delicato dell’azienda di Emervylle. Un momento che segnava il delicato passaggio da una compagnia unicamente tecnologia a una compagnia di produzione di contenuti. Lo stesso percorso che ha compiuto con successo 15 anni dopo Netflix.

Questa intervista, però, aveva più un senso istituzionale in quanto parte del progetto “Oral History” dello Smithsonian Institution. Non avendo scopi promozionali o di tipo immediato l’atteggiamento di Jobs è molto rilassato e anche, a tratti, personale. Non ci sono iperboli, non c’è il megafono, non sono coup de théâtre, non ci sono titolo, né copertine da conquistare. Si parla per la storia, non per il presente o per il mercato. Questo rende l’intervista speciale, perché abbiamo un Jobs “senza trucco” e senza trucchi da prestigiatore.

Naturalmente è sempre Steve Jobs e gi affondi non mancano. Ce ne sono per tutti: governo, concorrenti, collaboratori e per la stessa Apple, che, lo avrebbe richiamato da lì a pochi mesi.

Il testo che pubblichiamo non è la traduzione degli estratti pubblicati sul sito dello Smithsonian Institution Archive of Oral History. È il testo della trascrizione integrale della ripresa video effettuata in quell’occasione. Trascrizione e traduzione sono di Francesco Vegni che ringraziamo per questo sforzo non indifferente. Anche i titoli che suddividono le parti dell’intervista non sono quelli dell’Archive of Oral History, ma quelli scelti dalla nostra redazione.

Sono passati 25 anni da quell’intervista. A volte si ha l’impressione che siano passati appena 20 giorni. Tanta era la forza della visione di Jobs della tecnologia e anche della società. Tale capacità di indovinare il futuro era uno delle poche cose che condivideva con il grande amico/rivale geniale Bill Gates. Bill l’aveva detto in tempi non sospetti che ci sarebbe stata una pandemia da virus. Così come Jobs descrisse nel 1995 il web qual è quello di oggi.

Buona lettura e ispiratevi, perché c’è da prendere ispirazione!

Identikit

Daniel Morrow (DM): È il 20 aprile del 1995, questa è un’intervista per il Computerworld Smithsonian Award (si tratta di un riconoscimento annuale dato a persone che hanno utilizzato la tecnologia per migliorare la società, N.d.T.). Con noi c’è Steve Jobs. Steve, mi piacerebbe iniziare con qualche dato biografico. Parlaci un po’ di te: quando sei nato, i tuoi genitori, la tua famiglia… Condividi con noi qualche ricordo.

Steve Jobs (SJ): Sono nato a San Francisco, California, USA, pianeta Terra, il 24 febbraio del 1955. Posso darvi un sacco di dettagli sulla mia giovinezza, ma non so se a qualcuno importi davvero.

DM: Beh, potrebbe interessare tra trecento anni quando il materiale a stampa non ci sarà più. Dimmi qualcosa a proposito dei tuoi genitori, della tua famiglia; quali sono le prime cose che ti vengono in mente? Nel 1955 Eisenhower era ancora presidente.

SJ: Non me lo ricordo più, ma ricordo come sono cresciuto tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta. Era un periodo davvero stimolante per gli Stati Uniti. L’America si trovava in un periodo di grande prosperità seguito alla Seconda guerra mondiale. Tutto era andato in modo abbastanza normale, dal taglio di capelli alla cultura, e l’America era pronta a espandersi ulteriormente negli anni Sessanta. Questo decennio fu però un periodo in cui le cose iniziarono a prendere nuove direzioni. Tutto era ancora immerso nel benessere, visibilmente nuovo. Dai miei ricordi di quel tempo, l’America mi appariva giovane e ingenua sotto molti aspetti.

DM: Quindi avevi cinque o sei anni quando John Kennedy fu assassinato?

SJ: Beh, ricordo l’assassinio di John Kennedy. Ricordo l’esatto momento in cui seppi che gli avevano sparato.

DM: Dov’eri in quel momento?

SJ: Stavo attraversando il cortile della scuola per tornare a casa, erano le tre del pomeriggio, quando qualcuno urlò che avevano sparato e ucciso il presidente. Devo aver avuto sette o otto anni, e comprendevo esattamente quello che potesse significare. Mi ricordo bene anche della Crisi dei missili di Cuba. Probabilmente non ho dormito per tre o quattro notti, perché temevo di addormentarmi e non risvegliarmi. E anche se avevo solo sette anni all’epoca, mi sembra, ero consapevole delle conseguenze di quello che stava succedendo. Penso che tutti lo fossero. Fu veramente una sensazione di terrore che non dimenticherò mai e che probabilmente non mi ha mai abbandonato. Credo che tutti l’abbiano percepita a quel tempo.

DM: Quelli più anziani tra noi, come me, ricordano di aver fatto dei piani su come ci saremmo organizzati se il Paese fosse stato devastato. Fu un periodo strano… Tra gli aspetti che stiamo cercando di indagare ci sono la passione e il potere. Quali sono state le prime cose a cui ti sei appassionato, a cui ti interessavi?

La Silicon Valley dell’infanzia di Jobs

SJ: Sono stato veramente fortunato. Mio padre, Paul, era un uomo davvero straordinario. Non si è mai diplomato. Era arruolato nella marina da trasporto durante la Seconda guerra mondiale e ha portato le truppe in giro per il mondo per il generale Patton. Penso che si mise nei guai e fu degradato a soldato semplice. Di mestiere era un meccanico. Lavorava duramente. Era una specie di mago con le mani. Nel garage di casa aveva un tavolo da lavoro. Quando avevo cinque o sei anni me ne riservò un piccolo pezzo e disse: “Steve, da adesso questo è il tuo tavolo da lavoro”. Mi diede dei piccoli strumenti e mi mostrò come usare un martello, una sega e come costruire degli oggetti. Fu davvero un’ottima formazione per me. Abbiamo trascorso molto tempo insieme, mi ha insegnato come costruire gli oggetti, come smontarli e come rimetterli insieme.
Una delle cose che ha sfiorato era l’elettronica. Non aveva una conoscenza approfondita dell’elettronica, ma aveva avuto a che fare tantissimo con l’elettronica nella riparazione delle automobili e in altre cose che aveva messo a posto. Mi insegnò i rudimenti dell’elettronica e cominciai a interessarmi molto alla materia. Sono cresciuto nella Silicon Valley. I miei genitori si sono trasferiti da San Francisco a Mountain View quando avevo cinque anni. Mio padre fu trasferito proprio nel cuore della Silicon Valley, perciò c’erano ingegneri dappertutto. A quel tempo la Silicon Valley era costituita da frutteti — alberi da frutto di albicocche e prugne — ed era veramente un paradiso. Ricordo l’aria cristallina e si poteva scorgere la valle da un’estremità all’altra.

DM: Questo quando avevi sei, sette, otto anni.

SJ: Sì, esatto. Era davvero il posto migliore al mondo dove poter crescere. C’era un uomo che si era trasferito in fondo alla strada, forse sei o sette case più avanti nell’isolato. Era nuovo nel quartiere e viveva con la moglie. Si seppe che era un ingegnere alla Hewlett-Packard e anche un radioamatore realmente appassionato di elettronica. Quello che ha fatto per fare conoscenza con i ragazzi del quartiere è stato davvero originale. Sul vialetto di casa ha messo un microfono in carbonio alimentato da una batteria che faceva da altoparlante. In questo modo parlando al microfono si sentiva in tutto il quartiere la propria voce. Una cosa piuttosto strana da fare quando ti trasferisci in un posto, ma questo è ciò che lui ha fatto quando è arrivato.

DM: È fantastico!

SJ: E io, naturalmente, ho iniziato a giocarci. Mi era stato insegnato che c’era bisogno di un amplificatore collegato a un microfono per far sentire la voce. Mio padre me l’aveva insegnato. Con orgoglio tornai a casa da mio padre e annunciai che si sbagliava e che il vicino in cima all’isolato stava amplificando la voce soltanto con una batteria. Mio padre mi rispose che non sapevo di cosa stessi parlando e abbiamo avuto una discussione piuttosto accesa. Così l’ho portato sul luogo e gliel’ho mostrato, e lui è rimasto po’ meravigliato.
Ho poi conosciuto quest’uomo, il cui nome era Larry Lang. Mi ha insegnato un sacco di cose di elettronica. Era fantastico! Era solito costruire con gli Heathkit. Gli Heathkit erano davvero straordinari… erano componenti disassemblate che si acquistavano in un kit di montaggio. In realtà farli costava molto di più che comprare il prodotto finito, se disponibile. Gli Heathkit avevano dei manuali dettagliati su come mettere insieme i pezzi e tutte le parti dovevano essere disposte in un certo modo e ordinate per colore. Si costruiva realmente qualcosa da soli. Direi che ciò mi ha fatto capire un sacco di cose. Innanzitutto, che cosa c’è all’interno di un prodotto finito e come funziona. Forse ancora più importante, era la sensazione di poter costruire le cose che erano intorno a noi. Non erano più un mistero. Voglio dire, se guardavi un televisore ti veniva da pensare:
“Non ho mai costruito uno di questi aggeggi, ma potrei farlo. Ce n’è uno nel catalogo Heathkit. Ho già costruito due oggetti di quel catalogo e quindi potrei costruire anche il televisore”.
Mi divenne chiaro che gli oggetti erano il risultato della creatività umana, non cose magiche che semplicemente apparivano nel proprio ambiente, così che nessuno potesse avere la minima idea di cosa fossero fatte. Questo ha portato a un enorme crescita della fiducia in me stesso. Attraverso l’esplorazione e l’apprendimento potevo capire cose apparentemente molto complesse. La mia infanzia è stata davvero fortunata in quel senso… ma avevo qualche problema a scuola.

Com’era Steve a scuola

DM: Sembra che tu sia stato davvero fortunato ad avere tuo padre come mentore. Ti stavo per chiedere qualcosa riguardo alla scuola. Com’è stata la parte formale della tua formazione?

SJ: Fin dall’inizio la scuola è stata piuttosto dura per me. Mia madre mi insegnò a leggere prima di andare a scuola. Così quando iniziai a frequentarla di fatto volevo fare solo due cose: leggere libri, perché amo leggere libri, e andare fuori a inseguire le farfalle. Sai, fare le cose che piacciono ai bambini di cinque anni. Ho incontrato un tipo di autorità diverso rispetto a quello che avevo incontrato prima, e non mi piaceva… Mi imprigionava. Erano quasi riusciti a togliermi ogni curiosità. Quando ero in terza elementare avevo un amico, Rick Farentino. Il solo modo di divertirci era combinare guai. Ricordo che riuscivamo sempre a farla franca. C’era un grande portabici dove tutti posteggiavano le bici — forse ce n’erano un centinaio –, abbiamo scambiato le nostre combinazioni di lucchetto con quelle degli altri, e poi abbiamo sostituito ciascun lucchetto con quello di un’altra bici… Sono rimasti fino alle dieci di sera per sistemare tutte le bici.
Abbiamo anche fatto esplodere delle bombette nelle cattedre degli insegnanti. Siamo stati cacciati da scuola un sacco di volte. Poi, in quarta elementare, ho incontrato uno degli altri “santi” della mia vita. Stavano per mettere me e Rick Farentino nella stessa classe, poi all’ultimo momento il preside ha detto: “No, brutta idea. Separateli”. Così una insegnante, la signora. Hill, disse: “Prenderò io uno di loro”. Insegnava nella classe avanzata di quarta elementare e, grazie a Dio, sono stato io quello scelto a caso per quella classe. Lei mi tenne d’occhio per un paio di settimane e poi mi avvicinò. Mi disse:

“Facciamo così. Ti propongo un accordo. Ho un libro di esercizi di matematica: lo porti a casa e fai gli esercizi da solo, senza alcun aiuto, e poi me lo riporti; se l’80% sono corretti, ti darò cinque dollari e uno di questi leccalecca — li esibiva davanti a me. E io la guardai come per dire: “È impazzita, signora?”.

Nessuno aveva mai fatto nulla del genere e naturalmente svolsi gli esercizi come mi aveva richiesto. In pratica mi aveva “corrotto” con caramelle e soldi per farmi imparare la matematica. La cosa davvero sorprendente fu che in poco tempo sviluppai un tale rispetto per lei da farmi tornare il desiderio di imparare. Mi procurò dei kit per fare macchine fotografiche. Così ho smerigliato l’obiettivo e ho creato una macchina fotografica. È stato davvero fantastico. Penso che, probabilmente, dal punto di vista scolastico ho imparato più in quell’anno che in tutta la mia vita. Tuttavia ciò mi ha creato anche problemi. Quando ho finito la quarta elementare mi hanno fatto un test e hanno deciso di passarmi direttamente al liceo, ma i miei genitori hanno detto “no”. Grazie a Dio, dissero che “saltare un anno va bene, ma non il liceo”.

DM: Perché non il liceo?

SJ: E ho scoperto che saltare un anno è, per molti versi, davvero problematico. Questo era più che sufficiente. Ha creato anche alcuni problemi.

DM: Questa sembra una buona occasione per parlare della tua esperienza in quarta elementare. Pensi che abbia avuto un impatto rilevante sul tuo interesse per l’istruzione? Voglio dire, se c’è qualcuno nell’industria del computer che può essere associato al ruolo dei computer nell’istruzione questo sei tu e la Apple.

Pari opportunità nella formazione

SJ: È così. Io credo davvero nelle pari opportunità. Non credo nella parità del risultato perché sfortunatamente la vita non è così. Sarebbe un mondo piuttosto noioso se lo fosse, ma credo davvero nelle pari opportunità. Per me avere pari opportunità, più di qualunque altra cosa, significa avere una grande istruzione scolastica. Forse è persino più importante della vita familiare. Ma non saprei come costruire un grande sistema educativo. Nessuno lo sa. Mi addolora perché invece potremmo sapere come poter fare a fornire una grande istruzione, lo sappiamo davvero. Potremmo garantirla a ogni bambino di questo Paese, invece siamo ben al di sotto della soglia. Grazie alla mia stessa esperienza so che se non avessi incontrato due o tre persone disposte a passare del tempo extra con me, sono sicuro che sarei finito in carcere. Sono sicuro al 100% che se non fosse stato per la signora Hill in quarta elementare e per pochi altri, sarei finito senza ombra di dubbio in gattabuia. Sentivo di avere queste tendenze negative dal essere spinto da forte energia nel fare qualcosa. Avrebbe potuto essere incanalata in qualcosa di positivo, qualcosa che le altre persone avrebbero apprezzato, oppure sfociare nel negativo che, forse, alle altre persone non sarebbe piaciuto così tanto.
Quando sei giovane, un po’ di correzione del percorso istintuale permette un corretto indirizzamento. Penso che ci vogliano persone di talento per farlo. Non so se molti di questi talenti possono essere attratti dall’istruzione pubblica; non ti pagano abbastanza nemmeno per mantenere una famiglia! Vorrei che le persone che insegnano ai miei figli siano così brave da potere stare nell’azienda per cui lavoro, guadagnando centomila dollari all’anno. Perché dovrebbero lavorare in una scuola per una cifra tra i 35.000 e i 40.000 dollari se, invece, possono aspirare a 100.000 dollari all’anno? Si tratta di un test d’intelligenza? Credo che dovremmo pagarli 100.000 dollari l’anno, ma il problema naturalmente sono i sindacati. I sindacati sono la cosa peggiore che sia mai capitata all’istruzione, perché ha ucciso la meritocrazia. Tutto si è trasformato in burocrazia. È esattamente quello che è successo. Gli insegnanti non possono insegnare, gli amministratori gestiscono il lavoro e nessuno può essere licenziato. È terribile.

DM: Alcune persone dicono che le nuove tecnologie siano un modo per superare tutto ciò. Sei ottimista al riguardo?

SJ: Non lo credo affatto. Come hai detto, ho dato il mio contributo portando più computer di chiunque altro nel mondo nelle scuole e sono assolutamente convinto che non sia per niente la cosa più importante da fare. La cosa più importante è la persona. Una persona che possa stimolare, guidare e nutrire la curiosità dei ragazzi. Le macchine non possono farlo come lo fanno le persone. Gli elementi della scoperta sono tutti intorno ai ragazzi. Non c’è bisogno di un computer. Ora [prende un oggetto e lo lascia cadere per terra] — perché cade? Lo sai? Nessuno al mondo sa perché cade. Possiamo descriverlo in maniera abbastanza accurata ma nessuno sa perché. Non ho bisogno di un computer affinché un bambino si interessi a ciò, affinché passi una settimana a giocare con la gravità cercando di capirla e trovare le ragioni del suo funzionamento.

DM: Ma c’è bisogno di una persona.

SJ: C’è bisogno di una persona. In particolar modo con i computer, per come sono ora. I computer sono molto reattivi ma non sono proattivi; non sono agenti, se vuoi. Sono davvero reattivi, certo, ma ciò di cui i bambini hanno bisogno è qualcosa che sia molto più proattivo. Hanno bisogno di una guida. Non hanno bisogno di un assistente. Io penso che abbiamo tutto per risolvere questo problema; lo sforzo è stato soltanto direzionato in altre direzione. Credo fortemente che ciò che abbiamo bisogno di fare nell’istruzione è accedere a un sistema di incentivi. So che l’intervista non era su questo, ma è un argomento che mi interessa in modo particolare.

Lo stato dell’istruzione pubblica in America

DM: Beh, questo è esattamente ciò che ci interessa.

SJ: Bene, fantastico.

DM: Questa domanda — che tu ci creda o meno — doveva essere alla fine e ci siamo arrivati ora.

SJ: Una delle cose che penso è che se in questo momento se chiedi chi sono gli utenti dell’educazione viene fuori che è la società in generale, sono le imprese che assumono le persone. Ma in ultima analisi penso che i clienti siano i genitori. Nemmeno gli studenti, ma i genitori. Il problema che abbiamo in questo Paese è che i clienti, cioè i genitori, hanno perso interesse nella scuola. Hanno smesso, nella maggior parte dei casi, di prestare attenzione alle scuole dei loro figli. È successo, infatti, che anche le madri hanno iniziato a lavorare e non hanno più tempo per gli incontri genitori-insegnanti e per curarsi della scuola dei loro figli. Le scuole, così, sono diventate sempre più istituzionalizzate e i genitori hanno dedicato sempre meno tempo all’educazione dei propri figli.
È successo ciò che accade quando un monopolio prende il controllo di un settore. Ciò che è successo nel nostro Paese è che il livello del servizio si abbassa sempre di più. Ricordo di aver visto un adesivo sul paraurti quando c’era una sola compagnia telefonica in America. Sopra il logo della Bell c’era scritto “We don’t care. We don’t have to”. Questo è ciò che si dice un monopolio: “me ne frego!. Questo è ciò che era IBM a suo tempo. Loro se ne fregano. Vediamo un po’ l’aspetto economico. La cosa più costosa che le persone comprano nel corso della loro vita è una casa. La seconda cosa più costosa è una macchina, di solito. Una macchina costa approssimativamente 20.000 dollari. E di media una macchina dura circa otto anni. Dopodiché se ne compra un’altra. Sono duemila dollari all’anno per un periodo di otto anni. Bene, tuo figlio va a scuola approssimativamente otto anni, dalla prima elementare fino alla terza media. Quanto spende lo Stato della California all’anno per un allievo di una scuola pubblica? Circa 4400 dollari. Più del doppio di una macchina. Si dà il caso che quando si va a comprare una macchina si hanno un sacco di informazioni disponibili per fare una scelta corretta e ci sono molte opzioni. General Motors, Ford, Chrysler, Toyota e Nissan… Fanno pubblicità come pazzi. Non finisce un giorno senza che si vedano cinque annunci di marche di auto. Sono in grado di vendere queste macchine in modo così efficiente da potersi permettere di prendere un po’ dei nostri soldi per fare pubblicità ad altre persone. Tutti vengano a conoscenza di queste macchine e i costruttori continuano a migliorarle sempre di più. C’è quindi un sacco di concorrenza.

DM: Che è una garanzia.

SJ: Sì è una garanzia, è vero. Ma nelle scuole le persone non percepiscono che stanno spendendo i propri soldi. Lo avvertono come se si trattasse di qualcosa di gratuito, giusto? Nessuno fa alcun confronto di costi. A dire il vero, se vuoi iscrivere tuo figlio in una scuola privata non puoi pensare di farlo con i 4400 dollari all’anno della scuola pubblica, devi tirarne fuori altri cinque o seimila dei tuoi. Credo fortemente che se il Paese distribuisse a ogni genitore un voucher da 4400 dollari da poter spendere soltanto in una scuola pienamente accreditata, questa politica cambierebbe molte cose. Per prima cosa, le scuole inizierebbero a farsi conoscere a più non posso per reclutare gli studenti. In secondo luogo, penso che nascerebbero molte nuove scuole. Per esempio, la Stanford Business School, che ha un corso di amministrazione pubblica, potrebbe creare un corso di laurea per amministratore scolastico. Ci sarebbero un sacco di persone, appena uscite dalla Business School, che potrebbero voler mettere su la propris scuola. Ci sarebbero giovani di venticinque anni usciti dal college, molto idealisti e pieni di energia che. invece di avviare un’azienda nella Silicon Valley, potrebbero avviare una scuola. Credo che lo farebbero molto meglio di molti dei nostri insegnanti della scuola pubblica. La terza cosa su cui si potrebbe intervenire, credo, è la qualità della scuola. Solo in un mercato competitivo, la qualità tornerebbe di nuovo a salire. Certo, alcune scuole andrebbero in bancarotta, molte scuole pubbliche fallirebbero. Su questo non c’è dubbio. Sarebbe piuttosto penoso all’inizio.

DM: Ma per una buona causa.

SJ: E molto meno doloroso, penso, del sistema che c’è adesso. Il problema più grande, naturalmente, è che queste scuole vorrebbero solo i bravi ragazzi e i cattivi verrebbero lasciati alla scuola privata o a quello che resta di un sistema scolastico pubblico. Verrebbe da pensare: “Bene, tutte le case automobilistiche faranno BMW e Mercedes e nessuno farà più una macchina da 10.000 dollari”. Ma il mercato più fortemente competitivo ora è quello del settore delle macchine da 10.000 dollari. Ci sono tutte le aziende giapponesi che ci stanno sguazzando. La General Motors ha speso 5 miliardi di dollari per progettare la Saturn al fine di poter competere in quella fetta di mercato. La Ford ha appena introdotto due nuove machine per quel mercato. E poi c’è la Chrysler con la Neon.

DM: Così si spendono 32.000 dollari in 8 anni per la scuola, si ottiene una macchina da 500 dollari.

La tecnologia non è la soluzione ai nostri problemi

SJ: Il modello del mercato competitivo mostra che dove c’è un bisogno, ci sono un sacco di fornitori disposti a fare i loro prodotti su misura per adattarsi a tale bisogno e un sacco di concorrenza che li costringe a fare sempre meglio. Quando avevo vent’anni ero solito pensare che la tecnologia fosse la soluzione per molti dei problemi del mondo, ma sfortunatamente non è proprio così. Farò un’analogia. Un sacco di volte pensiamo: “Perché la programmazione televisiva è così scarsa? Perché i programmi televisivi sono così degradanti, così poveri?”. Il primo pensiero che ti passa per la mente è: “Beh, c’è una cospirazione: le reti ci stanno nutrendo con questa brodaglia perché è a buon mercato”. Sono le reti che controllano tutto questo e che ci stanno rifilando questa roba per cercare di annichilire il pubblico americano. Ma la realtà dei fatti, se analizzi bene la questione, è che le reti vogliono assolutamente dare alle persone ciò che vogliono, solo così esse guarderanno i programmi. Se le persone volessero qualcosa di diverso, le reti gli darebbero qualcosa di diverso. E il punto della questione è che i programmi che sono in televisione, sono in televisione perché è ciò che le persone vogliono vedere.
La maggior parte delle persone in questo paese vuole accendere la televisione e spegnere il cervello, ed è ciò che succede. Ed è di gran lunga più deprimente di una cospirazione. Le cospirazioni sono molto più divertenti della realtà dei fatti. Il problema è che la stragrande maggioranza del pubblico è spesso piuttosto irragionevole. Quando si parla di tecnologia penso che si possa fare un parallelo con la situazione scolastica. È molto più incoraggiante pensare che la tecnologia possa risolvere i problemi — che sono molto più di tipo umano, organizzativo e politico — ma non è così. C’è bisogno di risolvere queste cose alla radice. Sono problemi che riguardano le persone e quanta libertà possiamo dare a esse, riguarda la competizione che potrà attivare le persone migliori. Sfortunatamente, ci sono effetti collaterali, come quello di cacciare un sacco di insegnanti di 46 anni che hanno perduto la motivazione e non dovrebbero più insegnare. Sono convinto di questo. Vorrei solo che la soluzione fosse semplice come dare un computer a ogni bambino, ma non è così.

Un team di serie A

DM: Mi fa molto piacere che abbiamo avuto l’opportunità di parlare di questo argomento. Parliamo però di altro. Una delle cose che ti volevo chiedere riguarda i libri sulla tua vita e la tua carriera. È stato scritto così tanto su di te. Piuttosto che esaminare un sacco di quelle storie, ti volevo chiedere quale pensi che sia la migliore e la più giusta e se ci sono aspetti della tua carriera che pensi siano stati tralasciati e che ti piacerebbe non lo fossero.

SJ: Ti devo dire sinceramente che sono un po’ ignorante al riguardo, perché non ho letto nessuna di quelle storie. Una volta ne scorsi una; lessi le prime dieci pagine e vidi che avevano sbagliato di un anno la mia età. Se non riescono a scrivere giusto neppure quella, forse non ha senso spenderci del tempo. Non mi ricordo nemmeno il titolo di quel libro. Ho sempre pensato che parte del mio lavoro fosse mantenere molto alto il livello di qualità delle persone con cui lavoro. Questa è ciò che considero una delle poche cose a cui possa davvero contribuire individualmente, cioè cercare di instillare nell’organizzazione il principio che occorre avere solo giocatori di serie A. Perché in questo campo, come in molti altri, il fattore di differenza tra il peggior tassista e il miglior tassista per attraversare Manhattan potrebbe essere due a uno. Il migliore ti porterà là in quindici minuti, il peggiore ti porterà là in mezz’ora. Per quanto riguarda il miglior cuoco e il peggiore, forse è di tre a uno. Considera un parametro del genere. Nel campo in cui sono io il fattore di differenza tra la persona migliore e la persona peggiore è di circa cento a uno, o forse di più. La differenza tra un buon programmatore di software e un fantastico programmatore di software è di cinquanta a uno, da venticinque a cinquanta a uno, una forbice enorme. Per questo ho scoperto, non solo per quanto riguarda il software ma in tutto il resto, che conviene davvero cercare le persone migliori del mondo. È imbarazzante quando hai alcune persone che non sono le migliori al mondo e te ne devi sbarazzare; ma ho scoperto che il mio lavoro, a volte, è stato esattamente quello di sbarazzarsi di alcune persone che non erano all’altezza e ho sempre cercato di farlo in modo umano. Qualcuno deve farlo, e non è mai divertente.

DM: È questa la parte più difficile e dolorosa della gestione di un’azienda dal tuo punto di vista?

SJ: Oh, certamente. È naturale. A volte sono stato piuttosto duro e molte volte le persone non volevano lasciare, ma non ho dato loro altra scelta. Se qualcuno volesse scrivere un libro su di me, non dovrebbe cercare i miei amici, che non parlerebbero mai male di me, ma dovrebbe andare a intervistare le poche dozzine di persone che ho licenziato in vita mia e che mi odiano a morte. Era il caso di quel libro a cui ho dato una scorsa. Voglio dire, era una sorta di “lanciamo le freccette sulla faccia di Steve”. Così è la vita. Questo è il mondo in cui ho scelto di vivere. Se non mi piacesse abbastanza scapperei e non l’ho fatto, quindi sono disposto a tollerarlo. Ma di certo alle volte non lo trovo molto veritiero.

Apple, un viaggio incredibile

DM: Ok, allora questo mi dà un’opportunità d’oro per chiederti di raccontarci la tua storia. Ho un paio di domande che mi piacerebbe farti in maniera specifica riguardo alla tua esperienza alla Apple. Guardando indietro agli anni della Apple, quali sono i risultati di cui vai più orgoglioso? Ci sono un paio di storie di Apple che ti piace raccontare?

SJ: Apple è stato un viaggio davvero incredibile. Voglio dire, abbiamo fatto alcune cose stupefacenti. La cosa che ci ha uniti alla Apple è stata la capacità di fare delle cose che avrebbero cambiato il mondo. Questo è stato molto importante. Eravamo tutti piuttosto giovani, l’età media in azienda era tra i venticinque e i trent’anni. Quasi nessuno aveva famiglia all’inizio, lavoravamo tutti come pazzi e la più grande gioia era che sentivamo di modellare opere d’arte collettive come ha fatto la fisica del Ventesimo secolo. Qualcosa di importante che sarebbe durato nel tempo, a cui le persone hanno dato il proprio contributo. Sai, poche persone possono progettare cose di quel tipo, ma poi potrebbero darle ad altre persone, che potrebbero, a loro volta, costruire ad esempio una fabbrica automatizzata per fare altre cose e darle a più persone; il fattore di amplificazione è molto grande.
Il Macintosh, per esempio, è stato costruito da un gruppo di meno di cento persone, eppure Apple ne ha venduti più di dieci milioni. Naturalmente tutti l’hanno copiato e adesso sono centinaia di milioni. È un fattore di amplificazione piuttosto grande, un milione a uno. Non capita molto spesso nella vita di avere l’opportunità di amplificare il proprio valore cento a uno, figuriamoci un milione a uno. Questo è esattamente ciò che stavamo facendo. È stato come dire: “L’uso del computer e il modo in cui si collega alle persone è davvero agli albori. Siamo nel posto giusto al momento giusto per cambiare un po’ il corso di quel vettore”.
Ciò che è interessante è che se cambi il corso di un vettore, nel tempo in cui si allontana di qualche chilometro il suo corso diventa radicalmente diverso. Eravamo molto consapevoli di questo fatto. Dall’inizio di Apple noi eravamo, per qualche incredibile e fortunata ragione, abbastanza fortunati da essere nel posto giusto al momento giusto. Il nostro contributo ha espresso valori relativi non solo all’eccellenza tecnica e all’innovazione — per i quali penso che abbiano fatto la nostra parte — ma anche a un’innovazione di tipo più umanistico.
Le cose di cui sono più orgoglioso di Apple sono quelle in cui il lato tecnico e quello umanistico sono andate di pari passo, come è successo nel mondo dell’editoria ad esempio. Il Macintosh ha sostanzialmente rivoluzionato l’editoria e la stampa. L’arte tipografica si è unita alla comprensione e all’eccellenza tecnica per implementarla elettronicamente — queste due cose si sono congiunte e hanno permesso alle persone di usare il computer senza doverne apprendere gli arcani comandi. È stata la congiunzione di queste due cose ciò di cui vado più orgoglioso. È successo con l’Apple II ed è successo con Lisa, sebbene con Lisa ci siano stati altri problemi che hanno fatto sì che risultasse un fallimento sul mercato. Poi è successo di nuovo a un livello più alto con il Macintosh.

La congiunzione tra arte e tecnologia

DM: Hai usato una parola interessante per descrivere ciò che stavate facendo. Hai parlato di arte, non di ingegneria o di scienza. Parlami di questo.

SJ: Oh, certamente. Sai, generalmente usiamo la parola “artista” per fare riferimento ad artisti figurativi di qualche tipo, ma in realtà penso che ci sia davvero una differenza minima tra un artista e uno scienziato o un ingegnere del più alto livello. Nella mia testa non ho mai fatto una distinzione tra questi tipi di persone. Per me sono sempre state persone che seguono percorsi diversi ma che sono dirette verso lo stesso obiettivo, che è quello di esprimere qualcosa di ciò che percepiscono essere la verità intorno a loro, in modo che gli altri ne possano beneficiare.

DM: E l’arte sta nell’eleganza della soluzione, come negli scacchi o nella matematica?

SJ: No, penso che l’arte consista nell’avere una visione di ciò che ci circonda. Di solito è la capacità di collegare le cose insieme come nessuno ha fatto prima e trovare un modo per portare alle altre persone, a coloro che non hanno avuto quell’idea, così che possano beneficiarne. Penso che molti della squadra Macintosh avessero questa capacità ed è esattamente quello che fecero. Se analizzi le caratteristiche di quelle persone, scoprirai che in quel particolare momento, cioè negli anni Settanta e Ottanta, le persone migliori nel campo dei computer avrebbero potuto essere in modo spontaneo poeti, scrittori, musicisti. Quasi tutti erano musicisti. Molti di loro erano poeti. Si dedicarono ai computer perché era avvincente. Era un’attività fresca e nuova. Rappresentava un nuovo mezzo di espressione per i loro talenti creativi. I sentimenti e la passione che le persone ci riversavano sono completamente indistinguibili da quelli di un poeta o di un pittore. Molte persone erano introspettive, introverse, esprimevano come si sentivano nei confronti delle altre persone, o in generale con il resto dell’umanità, attraverso il loro lavoro, un lavoro che avrebbe giovato ad altre persone. Questa gente ha messo tutto il suo amore in questi prodotti e vi ha espresso gran parte del talento. È difficile da spiegare.

DM: No, si tratta di passione nel verso senso della parola.

SJ: È così… e questo sta diventando sempre meno vero. Sfortunatamente l’industria del computer si trova in un momento molto critico e queste persone stanno abbandonando il campo.

DM: Cosa faranno?

SJ: Beh, è davvero difficile da dire. Non sono attratti da qualcos’altro. Sono stati cacciati dall’attività nel campo del computer. Sono stati cacciati perché l’industria del computer si sta trasformando in un monopolio di Microsoft. Senza entrare nel discorso se Microsoft abbia ottenuto la sua posizione legalmente o meno — cosa importa? — il risultato è che la capacità di innovare nel settore si sta prosciugando. Penso che le persone più intelligenti abbiano già letto questa tendenza e stiano iniziando a uscire. E penso che alcuni dei giovani più intelligenti si stiano domandando se mai ci torneranno. Magari le cose cambieranno. È un periodo piuttosto buio quello che stiamo vivendo o che ci apprestiamo a vivere.

La perdita dell’unicità di Apple e il dilapidamento dei valori

DM: Apple aveva la reputazione di essere un’azienda in grado di cambiare le carte in tavola e di stabilire un nuovo percorso. Guardando indietro da dove sei oggi con NeXT, pensi che, a mano a mano che Apple cresceva, avrebbe potuto mantenere l’approccio originario? O doveva semplicemente diventare una grande azienda dei computer come tutte le altre?

SJ: Questa è una domanda interessante. Apple è cresciuta e ha mantenuto quell’approccio. Quando ho lasciato Apple era un’azienda da due miliardi di dollari. Eravamo vicini alla posizione 300 nella lista Fortune (si tratta di una lista pubblicata ogni anno dalla rivista “Fortune”, che classifica le maggiori imprese societarie americane in base al fatturato, N.d.T). Quando è stato introdotto il Mac eravamo un’azienda da un miliardo di dollari; così Apple è cresciuta da niente a due miliardi di dollari mentre ero lì. È un tasso di crescita pazzesco. È cresciuta altre cinque volte da quando ho lasciato, sostanzialmente sull’onda del Macintosh. Penso che quello che è successo in termini di crescita da quando ho lasciato sia irrilevante rispetto a com’era quando c’ero ancora. Ciò che ha rovinato Apple non è stata la crescita, ciò che ha rovinato Apple riguarda i valori. John Sculley ha rovinato Apple e l’ha rovinata trasmettendo ai vertici di Apple una serie di valori che erano sbagliati e che hanno finito per corrompere alcune delle persone migliori, cacciando alcuni di quelli che non erano corruttibili e portando dentro molti che erano già corrotti, pagandoli collettivamente decine di milioni di dollari. Gente che si preoccupava più della gloria e dell’arricchimento personali che di ciò che Apple rappresentava — un’azienda che creava ottimi computer utilizzabili dalle persone comuni.
Non si preoccupavano più di quello. Non avevano la minima idea di come farlo e non sprecavano tempo per scoprirlo perché non era ciò che gl’importava. Pensavano solo ai soldi. Avevano tra le mani questa cosa meravigliosa come il Macintosh creata da persone davvero brillanti. Invece di seguire la traiettoria originale, quella che era la visione iniziale — cioè rendere il computer un “elettrodomestico” che si diffondesse ovunque — miravano al profitto e, in effetti, riuscirono a ottenere dei profitti smisurati per quattro anni. Apple fu una delle aziende più redditizie d’America per quattro anni.
Ciò che li ha condannati è stato il futuro. Quello che avrebbero dovuto fare era cercare profitti ragionevoli e puntare alla quota di mercato, che era l’obiettivo che abbiamo sempre cercato di perseguire. Il Macintosh avrebbe potuto ottenere una quota di mercato del 33 percento, forse persino più alta, forse avrebbe conquistato la stessa di Microsoft ma non lo sapremo mai. Invece ha ottenuto una quota di mercato a una sola cifra ed è in calo. Non c’è modo di far tornare quel momento. Il Macintosh morirà in pochi anni ed è veramente triste. Il problema è questo: nessuno alla Apple ha la minima idea di come creare il nuovo Macintosh perché nessuno di coloro che ricopre qualsiasi ruolo alla Apple c’era quando il Macintosh è stato creato — o qualunque altro prodotto Apple. Ora vivono di quell’unica cosa da più di un decennio. L’ultimo tentativo è stato il Newton e sapete cos’è successo. Perciò è piuttosto tragico, ma per quanto la possa vedere in modo distaccato, questo è ciò che sta succedendo. A meno che qualcuno non tiri fuori il coniglio dal cilindro, la tendenza delle aziende è quella di avere lunghe traiettorie di discesa nell’industria del computer. Apple sta scivolando lungo questo pendio e sta perdendo quote di mercato ogni anno. Le cose iniziano a precipitare quando ti assesti sotto una certa soglia. E quando gli sviluppatori non scrivono più applicazioni per il tuo computer, è allora che inizia davvero la spirale verso il basso.

DM: Ovviamente hai ancora un grande attaccamento emotivo alla Apple.

SJ: Oh, certamente. Voglio che Apple viva per sempre, continuando a costruire grandi prodotti. Apple è stata per un po’ come Sony. Era il posto in cui si facevano le cose più incredibili.

L’arte della Apple

DM: C’è un cliente di Apple o un episodio da raccontare che nella tua mente esemplifica ciò che l’azienda rappresentava e quali fossero i suoi valori nella sua massima espressione? Quali clienti si servivano della Apple quando eri lì?

SJ: C’erano due tipi di clienti. Voglio dire, i clienti che, diciamo, avevano a vedere con l’istruzione e poi c’erano quelli, in un certo senso, che lo erano di meno. Per quanto riguarda questi ultimi, Apple era due cose. In primo luogo era il primo computer “lifestyle” e, in secondo luogo, è difficile ricordare quanto fosse dura nei primi anni Ottanta, con IBM che conquistava il mondo dei pc, con il DOS (famiglia di sistemi operativi molto utilizzata per il mercato dei computer IBM compatibili fra l’inizio degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta, N.d.T.). Il pc IBM era molto peggio dell’Apple II. Avevano provato a copiare l’Apple II e avevano fatto un pessimo lavoro. Dovevi sapere molte cose per farlo bene. Le cose stavano regredendo e il Macintosh era… Hai visto lo spot del 1984? Spero che ce l’abbiate nei vostri archivi… Macintosh era sostanzialmente un’azienda relativamente piccola a Cupertino, California, che sfidava il gigante Golia, la IBM, e diceva:

“Aspetta un attimo, hai imboccato la strada sbagliata. Questo non è il modo in cui vogliamo che siano i computer. Questa non è l’eredità che vogliamo lasciare. Questo non è ciò che vogliamo che imparino i nostri figli. Questo è sbagliato e vi mostreremo il modo giusto per farlo, che è questo. Si chiama Macintosh ed è molto meglio. Ti batterà ed è quello che faremo”.

E questo è ciò che Apple rappresentava. Questa era una delle cose. Per l’altra dobbiamo andare un po’ più indietro nel tempo. Una delle cose che aveva costruito in Apple riguardava il fatto che le scuole compravano gli Apple II; ma c’era un 10% delle scuole che aveva un computer nel 1979. Posso dire, ancora una volta, di essere stato fortunato a trovarmi nella Silicon Valley. Quando avevo dieci, undici anni ho visto il mio primo computer. Era al Centro di ricerche della NASA a Mountain View. Non vidi proprio un computer, ma vidi un terminale collegato a un computer all’altro capo del filo. Me ne innamorai. Ho visto il mio primo desktop alla Hewlett-Packard, il 9100A. Era il primo desktop nel mondo. Funzionava in BASIC e APL (due linguaggi di programmazione, N.d.T.). Me ne innamorai. E pensavo, guardando queste statistiche nel 1979, che se c’era anche un solo computer in ogni scuola, alcuni ragazzi lo avrebbero scovato. Pensavo, qualcuno lo troverà e cambierà la propria vita.
Abbiamo visto a quale ritmo le amministrazioni scolastiche stavano decidendo di comprare un computer per la scuola. Era davvero esasperante. Ci rendemmo conto che un’intera generazione di ragazzi stava finendo la scuola senza avere il suo primo computer, così pensammo “i ragazzi non possono aspettare”. Volevamo donare un computer a ogni scuola in America. Abbiamo scoperto che in America ci sono 100.000 scuole, 10.000 scuole superiori e 90.000 tra elementari e medie. Non potevamo permetterci come azienda di darlo a tutte. Ma studiammo la legge e si scoprì che c’era già una legge federale che diceva che il donatore di strumentazione di tipo scientifico o di computer a un’università, a scopo educativo e di ricerca, poteva ottenere una detrazione fiscale supplementare. Praticamente significa che non fai dei soldi, ne perdi un po’, ma non così tanti. Si può perdere il 10 percento. Pensavamo che se quella legge fosse estesa anche alle elementari e alle medie, togliendo il requisito di ricerca per mantenere solo lo scopo educativo, allora avremmo potuto donare centinaia di migliaia di computer, uno per ogni scuola in America, e sarebbe costato dieci milioni di dollari alla nostra azienda, che erano un sacco di soldi per noi in quel momento, ma erano meno dei cento milioni di dollari. Decidemmo che eravamo pronti a farlo.
È stata una delle cose più incredibili che abbia mai fatto. Trovammo il nostro parlamentare locale, un ragazzo di nome Pete Stark dell’East Bay; Pete si mise al tavolo con alcuni di noi e insieme scrivemmo un disegno di legge. Abbiamo letteralmente redatto un disegno di legge per apportare i cambiamenti necessari. Scrivemmo: “Se cambia questa legge doneremo 100.000 computer con un costo di dieci milioni di dollari”. Lo chiamammo “I bambini non possono aspettare”. Pete Stark lo presentò alla Camera e il senatore Danforth lo presentò al Senato. Mi sono rifiutato di assumere lobbisti e sono andato io stesso a Washington da solo. Ho percorso in lungo e in largo i corridoi e le sale del Congresso per due settimane, che è stata una cosa incredibile. Ho incontrato due terzi della Camera e più di metà del Senato. Mi sono seduto e ho parlato con loro.
È stato davvero interessante. Scoprii che i membri della Camera, generalmente, sono meno intelligenti di quelli del Senato ed sono molto più preoccupati dei loro collegi elettorali — cosa che inizialmente ho trovato piuttosto negativa, ma più tardi sono arrivato a capire che era davvero una buona cosa. Forse è ciò che volevano i padri fondatori. Non dovevano pensare troppo, dovevano rappresentare i loro elettori. A ogni modo, il disegno di legge passò alla Camera con la più larga maggioranza a favore di qualsiasi disegno di legge fiscale nella storia di questo Paese. Ciò che accadde fu — ed è successo durante il periodo in cui Carter era un’anatra zoppa (il termine lame duck “anatra zoppa” in politica indica il periodo di transizione in cui il presidente in carica è stato sconfitto ed è già stato eletto il successore. Il presidente in carica, pertanto, esercita soltanto un potere di tipo nominale, trovandosi in una fase di transizione. In questo caso l’anatra zoppa era Jimmy Carter, che non ottenne la rielezione, sconfitto nelle elezioni del 1980 da Ronald Reagan, N.d.T.) e Bob Dole, che allora era presidente della Camera, lo stralciò. Non l’avrebbe più portato in discussione e non avevamo più tempo. Avremmo dovuto far ripartire il processo l’anno successivo. Allora ho rinunciato. Dissi: “Questa è un’assurdità”.
Tuttavia, fortunatamente, accadde qualcosa di inatteso. La California pensò che fosse una buona idea a tal punto che i legislatori vennero da noi e ci dissero:

“Voi non dovete fare niente. Faremo passare un disegno di legge che dice ‘dal momento che operate nello Stato della California e pagate le tasse in California, nel caso non vi sia una legge federale otterrete l’agevolazione fiscale in California’. Lo potete fare in California, dove ci sono 10.000 scuole”.

E così facemmo. Abbiamo donato 10.000 computer nello Stato della California. Avevamo un sacco di aziende disposte a donare il software. Abbiamo formato gli insegnanti gratuitamente e monitorato questa cosa negli anni successivi. È stato fenomenale, è stato davvero fenomenale. Una delle mie più grandi esperienze, ma anche uno dei miei più grandi rimpianti visto che ho davvero provato a fare questo a livello nazionale e ci sono andato così vicino… Non penso nemmeno che Bob Dole sapesse cosa stava facendo, ma sfortunatamente ha mandato tutto a rotoli.

DM: È una storia fantastica.

SJ: Anche questo è parte di ciò che era Apple.

DM: Parlando del lato commerciale, io ero al “Washington Post” quando fu presentato il Macintosh e il “Post” era un laboratorio della IBM Big Blue (Big Blue è il nome informale dell’azienda, N.d.T.). Nessuno sembrava interessato, poi il Macintosh si infiltrò. Ci fu quasi un movimento di guerriglia. È iniziato tutto con i pubblicitari e ora l’intero front-end del giornale lavora su computer Apple Macintosh. Dal punto di vista commerciale era abbastanza frequente questo tipo di rivoluzione?

SJ: In realtà non avevamo idea di come vendere alle aziende americane, perché nessuno di noi era venuto da quell’esperienza. Voglio dire, per noi era come un altro pianeta. Purtroppo abbiamo dovuto imparare. Se solo avessi saputo quello che oggi so, avremmo fatto molto meglio, ma non sapevo quelle cose e non avevo nessuno che le sapesse. Così, i nostri tentativi di vendere alle aziende americane andarono all’aria e finimmo per vendere solo alle persone che compravano il prodotto per il suo valore, non per l’azienda da cui proveniva. Voglio dire, allora tutti erano molto legati a Big Blue e compravano l’IBM senza pensarci. C’era quella famosa frase “non sarai mai licenziato per aver comprato IBM”. Ma fortunatamente siamo riusciti a cambiare questa situazione. E Apple, come sai, persino oggi è un fornitore di personal computer più grande di IBM.

L’errore di NeXT

DM: Che belle storie. Raccontami di NeXT… cosa ti ha spinto a fondare NeXT e quali erano gli obiettivi che intendevi raggiungere quando hai avviato questa nuova azienda?

SJ: Oh, è complicato. Sostanzialmente volevamo continuare a fare ciò che stavamo facendo alla Apple, ovvero continuare a innovare. Ma non abbiamo capito cosa stava accadendo e abbiamo fatto un errore, che è stato quello di seguire la stessa formula che avevamo utilizzato alla Apple, cioè costruire l’intero widget (hardware, software, contenuti). Ma il mercato stava cambiando. Il settore stava cambiando. La scala stava cambiando. Sapevamo che saremmo stati l’ultima azienda a farlo o la prima a non farlo più. Eravamo proprio in bilico. Pensavamo di essere gli ultimi a farlo, ma ci sbagliavamo. Siamo stati i primi a non farlo più. Abbiamo messo fine alle aziende che avrebbero voluto tentare di farlo. Abbiamo sicuramente commesso la nostra parte di errori, ma alla fine penso che avremmo potuto metterci meno a capire che il mondo era cambiato, e così siamo diventati un’azienda di software, così su due piedi.

DM: Così su due piedi? Il NeXTCube ha avuto grandi recensioni quando è uscito.

SJ: La macchina era la migliore al mondo. Che ci crediate o no, la stanno vendendo sul mercato dell’usato, in alcuni casi a un prezzo superiore a quello ufficiale. Sono difficili da trovare anche oggi. Non li facciamo più da due, due anni e mezzo.

DM: Quali sono le caratteristiche della macchina NeXT che ancora oggi mancano negli altri computer?

SJ: Beh, prima di tutto era una macchina totalmente plug and play. Tranne che per il Macintosh, è una caratteristica difficile da trovare in giro. Era una macchina estremamente potente, ben più del Macintosh. Riusciva a combinare bene la potenza delle workstation con la facilità d’uso del Mac, ed è magnifico. In secondo luogo, la macchina aveva un aspetto e una finitura che non c’era e non c’è sul mercato.

DM: È fantastico.

SJ: Non mi riferisco soltanto all’estetica; parlo anche in termini di operatività. Dalle cose semplici alle cose complesse. Cose semplici come l’accensione e lo spegnimento. Una cosa banale. Come si sa una delle più importanti ragioni per cui le persone perdono le informazioni sul computer è che li spengono al momento sbagliato. E quando si è in un sistema di rete multitasking, ci potrebbero essere delle conseguenze molto gravi. Così siamo stati i primi ad aver trovato una cosa come premere un pulsante per richiedere al computer di spegnersi. Il sistema capisce cosa deve fare per chiudere le operazioni, mette in ordine le operazioni e poi si spegne con eleganza. Ovviamente il computer NeXT è stato anche il primo ad avere un suono di alta qualità, un suono qualità CD. Molti computer adesso lo hanno, ed è fantastico. C’è voluto molto tempo per renderli disponibili. NeXT era in anticipo sui tempi.

L’illuminazione del PARC nel 1979

DM: Parlami di NeXT software. Cosa lo rende diverso? A quali tendenze risponde?

SJ: Questa è la vera gemma del progetto. Ti racconterò una storia interessante. Quando ero alla Apple, alcuni dei miei colleghi mi dissero: “Steve, devi proprio andare allo Xerox PARC (il Palo Alto Research Center) e vedere cosa fanno laggiù”. Di solito non accoglievano molte persone, ma sono riuscito a entrare e a vedere il loro lavoro. Ho visto il loro computer, chiamato Alto, che era un computer fenomenale e mi hanno mostrato tre cose su cui stavano lavorando dal 1976. Io le vidi nel 1979. Cose per le quali abbiamo impiegato molto tempo per ricrearle completamente, proprio con NeXTStep. Comunque, sul momento non mi resi conto di tutte e tre le grandi innovazioni che stavano facendo al PARC. Ne vidi solo una che per me era talmente stupefacente che mi ha abbagliato. Mi ha reso cieco delle altre due. Mi ci sono voluti anni per prenderne consapevolezza di queste ultime, riscoprirle e incorporarle nuovamente nel nostro modello. Al PARC erano molto avanti. Le cose che avevano fatto non erano proprio perfette, ma contenevano il germe dell’idea di tutto quello che sarebbe venuto dopo. E le tre cose erano le interfacce graficheil software orientato agli oggetti, il collegamento in rete.
Lasciami spiegare meglio. Interfaccia grafica: l’Alto aveva la prima interfaccia grafica al mondo. Aveva le finestre. Aveva un rudimentale sistema di menu. Aveva rudimentali pannelli di controllo e cose simili. Non funzionava bene ma sostanzialmente c’era tutto. Oggetti: loro avevano un linguaggio, lo Smalltalk, che funzionava bene. Era davvero il primo linguaggio di programmazione orientato agli oggetti. Simula in realtà è stato il primo, ma Smalltalk è stato il primo linguaggio ufficiale orientato agli oggetti (Simula è stato il primo linguaggio di programmazione orientato agli oggetti, dal quale sono scaturiti lo Smalltalk e il C++, N.d.T.). Collegamento in rete: il PARC ha inventato Ethernet, come sai. Avevano circa duecento Alto collegati a una rete locale. Si spedivano e-mail e tutto il resto attraverso la rete. Tutto questo nel 1979. Ero così sbalordito dal potenziale dell’interfaccia grafica che non mi sono fermato a indagare completamente sugli altri due.

NeXT software, erede del PARC

Che cos’è NeXTStep? È il perfezionamento dei progetti del PARC, attraverso la trasformazione di alcune di quelle idee in realtà, incorporate nel primo sistema al mondo orientato agli oggetti veramente commerciale. Ed era davvero il sistema più connesso al mondo quando uscì nel 1988 come sistema operativo del primoNeXTCube. Penso che il mondo abbia fatto un sacco di progressi nel collegamento in rete, ma non ha ancora superato l’ostacolo legato agli oggetti, ed è ciò che è successo con NeXTStep. Adesso comincian a essere usato da alcuni clienti aziendali molto grandi. Ora è il sistema orientato agli oggetti più popolare al mondo, mentre gli oggetti sono sul punto di muoversi nel mainstream. La società, lo scorso anno, ha registrato il suo primo utile nei suoi nove anni di storia, e ha venduto software per un valore di cinquanta milioni di dollari. Penso che avremo una crescita significativa quest’anno ed è piuttosto chiaro che NeXT può arrivare a essere una azienda di software da qualche centinaio di milioni di dollari nel giro di tre o quattro anni e a essere la più grande azienda orientata agli oggetti finché Microsoft non arriverà sul mercato a un certo punto, probabilmente, con un bel prodotto raffazzonato.

DM: Alcuni dicono che in futuro il software orientato agli oggetti sarà l’unico tipo di software a essere utilizzato.

SJ: Naturalmente, è vero. Ricordo la visita alla Xerox nel 1979. È stato uno di quei momenti apocalittici, un’epifania. Ricordo di aver visto l’interfaccia grafica e, nel giro di dieci minuti, mi resi conto che ogni computer avrebbe funzionato in quel modo un giorno; era così ovvio dopo averlo visto. Non richiedeva un intelletto superiore. Naturalmente ogni computer funzionerà in questo modo… Era così chiaro. Nel momento in cui capisci gli oggetti, hai esattamente la stessa sensazione. Tutti i software saranno scritti usando tecnologia orientata agli oggetti. Puoi discutere su quanto tempo ci vorrà, su chi saranno i vincitori e i perdenti, ma non credo che una persona razionale possa mettere in dubbio la sua inevitabilità.

Internet, il nuovo balzo in avanti

DM: Dimmi cosa ne pensi dello stato attuale e del futuro di internet e dei servizi commerciali online e di come stanno influenzando lo sviluppo dei computer.

SJ: Internet e il World Wide Web, perché sono diventati una cosa sola, sono chiaramente la novità più elettrizzante che si stia verificando nel campo della tecnologia. Sono elettrizzanti per tre o quattro ragioni. Numero uno, sostanzialmente i computer si stanno trasformando in dispositivo per la comunicazione e in definitiva stiamo sviluppando sempre più tecnologie per renderlo non solo facile da usare, ma per rendere più fluida la comunicazione. Il web è il pezzo mancante del puzzle che serve a spingere questa visione sempre più avanti. È davvero elettrizzante in quel senso. In secondo luogo, è molto importante perché sta andando a cambiare molti settori della nostra economia, rendendoli accessibili alle aziende molto piccole, che possono operare alla pari con quelle molto grandi.
Lascia che faccia un esempio. Una piccola azienda di tre persone a Phoenix, Arizona, può avere un server web che sembra identico, se non meglio, di quello usato da IBM o da GAP o da qualsiasi altra grande azienda. Tutti possono accedere gratuitamente a questo nuovo canale di distribuzione. Non devono costruire edifici. Non devono arruolare un migliaio di distributori e agenti che li chiamino per gli ordini ecc. In sostanza, distribuzione diretta dal produttore al cliente via internet, via web, contatto diretto, transazioni dirette e consegne tramite UPS o Federal Express — corrieri. Tutto questo costerà molto meno che passare attraverso gli intermediari o costruire centinaia di negozi in tutto il Paese. Sta cambiando radicalmente il modo in cui beni e servizi vengono scoperti, venduti e consegnati, non solo in questo Paese, ma in tutto il mondo. Come si sa, gli elettroni viaggiano alla velocità della luce e quindi tendono ad avvicinare le parti del mondo, a porre in contatto diretto produttori e consumatori. Questo è davvero eccitante. Il livellamento di piccolo e grande. Il livellamento di vicino e lontano.
Il terzo motivo per cui internet è elettrizzante è che Microsoft non lo possiede e non penso che potrà averlo. È l’unica cosa nel settore che probabilmente Microsoft non potrà mai possedere. Penso che una delle cose essenziali sia che il governo continui a considerare Internet come un bene pubblico, come una struttura pubblica, e a respingere tutte queste ridicole nozioni di privatizzazione che si sentono in giro. Non credo che andranno in porto, per fortuna. Internet costa al governo federale degli Stati Uniti più o meno tra i cinquanta e i settantacinque milioni all’anno. Queste sono noccioline in rapporto al suo valore, e anche se quel costo un giorno salisse a mezzo miliardo di dollari all’anno, ne varrebbe la pena. Sarebbe un prezzo estremamente basso da pagare per impedire che cada nelle mani di una qualsiasi azienda e quindi l’inizio della distruzione e del controllo dell’innovazione che potrebbe avvenire intorno a Internet. È l’ultima speranza per il settore dei computer, per vedere alcune innovazioni importanti verificarsi a un ritmo rapido. La cosa bella al riguardo, la novità, è che gli Stati Uniti sono in prima linea su questo fronte. Questo punto riguarda anche l’intera l’industria del software. È un altro esempio che mostra come gli Stati Uniti siano in prima linea. Sono tecnologie che dovrebbero essere tenute aperte. Dovrebbero essere mantenute libere.

DM: Certo… cosa ne pensi? Voglio dire, il World Wide Web sta diventando letteralmente un fenomeno globale. Sei ottimista sul fatto che possa restare gratuito?

SJ: Sì, sono ottimista, ma prima di dire troppo velocemente che è globale, bisogna valutare che oltre un terzo del totale del traffico internet nel mondo parte o arriva dalla California. Quindi penso davvero che sia un tipico caso in cui la California è di nuovo all’avanguardia non solo nel cambiamento tecnologico, ma anche culturale. Mi aspetto davvero che il web diventi un fenomeno mondiale, distribuito equamente su larga scala. Ma ora penso che sia un fenomeno americano che si sta attrezzando per essere globale, e che sia ancora molto concentrato in determinate aree, come la California.

Pixar, dalla tecnologia ai contenuti

DM: L’85% di tutto il traffico viene dalla California. Ma il potenziale espansivo c’è e tu sei piuttosto ottimista. Parlami adesso della Pixar.

SJ: La Pixar è davvero interessante. Ho avuto a che fare con alcune persone eccezionali. Ancora una volta un amico mi ha detto di fare un salto da questi pazzi a San Rafael (California) che lavoravano alla Lucasfilm. George Lucas, che produceva la trilogia di Star Wars, era un tipo intelligente e, a un certo punto, dopo avere guadagnato un sacco di soldi con questi film, si rese conto che avrebbe dovuto creare un gruppo tecnologico. C’erano un sacco di problemi da risolvere. Ti ne cito uno ad esempio. Quando si fa una copia di una registrazione audio analogica, come una cassetta su un’altra, si introducono dei disturbi, dei sibili. Se fai una copia di seconda generazione, la situazione peggiora e così via, esponenzialmente. La stessa cosa si può dire delle copie in ottico analogico. Se si prende un pezzo di pellicola e si fa una copia ottica, si rilevano dei disturbi, in questo caso un disturbo ottico, che viene percepito come sfocatura, insieme ad altri tipi di imperfezioni dovute al mezzo di riproduzione.
Ecco, George per fare Star Wars ha dovuto mettere insieme fino a tredici porzioni di pellicola per ogni fotogramma. Gli sfondi erano su una pellicola a sé stante, l’azione dal vivo lo stesso, alcuni effetti speciali ripresi a parte. Ogni volta che doveva fare una copia per montare insieme questi pezzi e poi aggiungerne un terzo e poi un quarto, introduceva disturbi a ogni nuova replica. Se compri un laserdisc di uno qualsiasi dei film di Star Wars, e lo fermi su alcuni fotogrammi, vedi che sono davvero sporchi. Incredibilmente disturbati, di una qualità davvero pessima. George, da perfezionista qual è, aveva capito come risolvere questo problema. Disse: “Vorrei farlo in modo perfetto, lo farò in digitale”. Nessuno lo aveva mai fatto prima. Prese alcune persone davvero intelligenti e capirono come poterlo farlo digitalmente senza introdurre disturbi. Svilupparono software e costruirono un hardware dedicato. George a un certo punto si accorse che la faccenda gli stava costando diversi milioni di dollari l’anno e decise che non poteva sostenerlo, così io comprai questo gruppo da George Lucas, lo registrai come Pixar e iniziammo a rivoluzionare la grafica per computer di fascia alta. Se guardate le dieci rivoluzioni più importanti nella grafica di alta fascia, negli ultimi dieci anni, otto di loro sono venute fuori dalla Pixar. Tutta la parte software che è stata utilizzata per fare Terminator, ad esempio — per costruire le immagini proiettate sullo schermo — o Jurassic Park con tutti i dinosauri, proveniva dalla Pixar. La Industrial Light & Magic usa il software della Pixar come base per tutte le sue produzioni.
Ma la Pixar aveva un’altra visione che andava oltre agli effetti speciali. L’idea della Pixar era quella di raccontare storie. Cioè di realizzare veri e propri film. La nostra visione era quella di realizzare il primo lungometraggio d’animazione al mondo — completamente prodotto al computer: set, personaggi, tutto. Dopo dieci anni abbiamo fatto esattamente questo. Abbiamo sviluppato strumenti, tutti proprietari, per farlo, per gestire la produzione di un film di animazione, come il disegno, disegno computerizzato. Stiamo finendo di girare il primo lungometraggio di computer animation al mondo. Pixar l’ha scritto, diretto e lo sta producendo. La Walt Disney Corporation lo sta distribuendo e quest’anno uscirà come strenna di Natale della Walt Disney. Uscirà l’11 novembre, credo, e il suo titolo è Toy Story. Se ne sentirà parlare molto perché credo che sarà il film di maggior successo di quest’anno.

DM: Fantastico.

SJ: È fenomenale. Tom Hanks è la voce del protagonista. Tim Allen dell’altro protagonista. Randy Newman sta componendo le musiche. È semplicemente fenomenale.

DM: Abbiamo un altro paio di domande e poi vorrei darti la possibilità di dire qualsiasi altra cosa tu voglia dire.

SJ: Tornando per un attimo alla Pixar… C’è molta aspettativa riguardo alla convergenza tra Hollywood e la Silicon Valley. La chiamano “Silywood” credo. La Pixar sarà davvero il primo studio digitale al mondo. Combina davvero arte e tecnologia insieme. Ancora una volta in modo semplicemente fantastico. Pixar ha di gran lunga il maggior numero di talenti di tutto il mondo in fatto di computer grafica e ora ha anche i maggiori talenti nel campo artistico e dell’animazione per film. Abbiamo il più importante gruppo di animatori al mondo al di fuori della Disney e pensiamo che siano le persone con maggiori capacità per lavorare fianco a fianco con gli sviluppatori, i migliori grafici del mondo. Non c’è davvero nessun altro al mondo in grado di fare questa roba. È davvero fenomenale. Probabilmente siamo quasi dieci anni avanti rispetto a chiunque altro.

Le start up e i giovani

DM: È davvero eccitante. La domanda che ti volevo rivolgere — e parzialmente hai già risposto — riguarda le imprese start up. Mi guardo intorno, esamino il vostro materiale informativo, e vedo che avete alleanze dappertutto. Sei alleato con Hewlett-Packard, Sun, Oracle e Digital e con tutti i system integrator. Le società di comunicazione e quelle di tecnologia dell’informazione si stanno fondendo, stanno diventando una cosa sola. Pensi che sarà mai possibile per una start up svilupparsi in grande azienda attraverso le applicazioni e il software? Ci sarà mai un’altra start up a diventare grande azienda?

SJ: Penso che ci saranno. A volte, per disperazione, si potrebbe dire di no, ma io penso proprio di sì. E la ragione non va ricercata solo nel fatto che la tecnologia continua a progredire e a creare opportunità, ma la cosa che lo rende possibile è che la mente umana sviluppa dei modi invariabili di guardare il mondo, è sempre stato così e probabilmente sarà sempre così. Ho sempre avvertito la morte come la più grande invenzione della vita. Sono sicuro che la vita non avrebbe potuto evolversi senza la morte. Senza la morte, la vita non funzionava tanto bene perché non c’era modo di fare spazio al nuovo. Il nuovo che non conosceva come era il mondo cinquant’anni prima, non sapeva neppure come era il mondo vent’anni prima. Lo vedeva così com’era in quel momento, senza nessun preconcetto, e sognava di cambiarlo. Se non siamo soddisfatti di ciò che è stato realizzato negli ultimi trent’anni perché la situazione attuale non è stata all’altezza degli ideali, beh, è possibile darsi da fare per cambiarla. Senza la morte ci sarebbero pochissimi progressi.
Una delle cose che accade nelle organizzazioni, così come nelle persone, è che stabiliscono dei parametri fissi di relazione con il mondo e si accontentano quando li hanno raggiunti, mentre il mondo cambia e continua a evolversi oltre loro. Sorge un nuovo potenziale, ma questi soggetti ancorati a certi schemi non lo vedono. Questo è ciò che dà il più grande vantaggio alle compagnie di start up. Lo status quo è quello che cercano la maggior parte delle grandi aziende. Per di più, le grandi aziende di solito non hanno percorsi di comunicazione efficienti che si trasmettono dalle persone più vicine ai cambiamenti, cioè la base dell’azienda, ai vertici dell’azienda, dove si vanno a prendere le grandi decisioni. Ci possono essere persone ai livelli inferiori dell’azienda che vedono questi cambiamenti in atto, ma prima che l’input raggiunga i livelli più alti, quelli che possono fare qualcosa al riguardo, a volte passano dieci anni. Anche nel caso una società fa la cosa giusta ai livelli inferiori, di solito i livelli superiori rovinano tutto. Voglio dire, IBM e il business del personal computer è un buon esempio di ciò. Penso che finché non riusciremo a risolvere questa tendenza della natura umana ad abituarsi alla propria visione del mondo, ci sarà sempre lo spazio per le nuove imprese, per i giovani, di innovare. Come dovrebbe essere.

Gli spazi di innovazione per i giovani

DM: E quella sarebbe stata la mia domanda finale prima di darti l’opportunità di proseguire da solo per libere associazioni. Cioè parlare ai giovani che ti vedono come un modello. Pensi che opportunità per l’innovazione siano ancora possibili? Quali sono i fattori di successo per i giovani oggi? Quali insidie dovrebbero evitare?

SJ: Mi è stato chiesto molte volte e ho una risposta piuttosto standard… Un sacco di persone vengono da me e dicono: “Voglio diventare un imprenditore”. E io rispondo: “Oh fantastico, qual è la tua idea?”. E loro dicono: “Non ne ho ancora una”. E io ribatto: “Penso che dovresti trovarti un lavoro come aiuto cameriere o qualcosa del genere finché non trovi qualcosa che ti appassiona davvero perché fare l’imprenditore è un sacco di lavoro”. Sono convinto che ciò che separa un buon imprenditore da uno cattivo è la pura perseveranza. È così duro andare avanti. Metti così tanto della tua vita in questa impresa. Ci sono momenti così difficili che la maggior parte della gente finisce per arrendersi. Non li biasimo. È davvero difficile e ti consuma la vita. Se hai famiglia e sei all’inizio della tua impresa, non immagino come sia possibile andare avanti. Sono sicuro che qualcuno c’è riuscito, ma è dura. È praticamente un lavoro di diciotto ore al giorno, sette giorni alla settimana. Così, a meno che tu non abbia una grande passione per ciò che fai, non riuscirai a sopravvivere. Finirai per mollare. Per questo devi avere un’idea, o una motivazione, qualcosa che ti appassiona, qualcosa che sia sbagliato e che vuoi correggere, altrimenti non riuscirai ad avere la perseveranza per resistere. Penso che metà della battaglia consista in ciò.

Il potere

DM: Le tue parole mi fanno pensare a un altro aspetto della questione. Tu parli della parte che riguarda la passione. Cosa diresti… beh, c’è la passione, ma c’è anche il potere. Cosa diresti riguardo alle responsabilità del potere, una volta che hai raggiunto un certo grado di successo?

SJ: Potere? Che cos’è?

DM: C’è bisogno di passione per costruire aziende come Apple, IBM o qualunque altra delle maggiori compagnie. Ma una volta che hai portato la passione a quel livello e costruito un’azienda e sei in una posizione come quella di Bill Gates alla Microsoft o di chiunque altro, tu stesso, quali sono le responsabilità di quelli che hanno raggiunto il successo e hanno potere economico, sociale, potere sulle persone? Voglio dire, tu hai cambiato il mondo. Hai un potere enorme?

SJ: Questa questione può essere portata su molti livelli. Ovviamente se guidi un’azienda hai delle responsabilità, ma come individuo non penso che si abbiano responsabilità. Non credo che le persone abbiano speciali responsabilità semplicemente perché hanno fatto qualcosa che ad altre persone piace o non piace. Penso che il lavoro parli da sé. Penso che la gente possa scegliere di fare le cose che vuole, ma presto saremo tutti morti, questo è il mio punto di vista. Qualcuno una volta mi disse: “Vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo giorno della tua vita e quel giorno avrai certamente ragione”. Io lo faccio. Non puoi mai sapere quando te ne andrai, ma presto te ne andrai. Se ti lascerai qualcosa alle spalle, questi saranno i tuoi figli, alcuni amici, il lavoro. Questo è ciò di cui mi preoccupo. Non tendo a pensare alla responsabilità. A dire il vero, a volte mi piace fingere di non avere responsabilità. Provo a ricordare l’ultimo giorno in cui non avevo niente da fare e non avevo niente da fare il giorno dopo, e non avevo responsabilità. È stato decenni fa. Perciò, devo fingere quando voglio sentirmi in questo modo. Non penso in quei termini. Penso che tu abbia la responsabilità di fare cose davvero buone e di produrle, per far sì che le persone le usino, e per permettere loro di costruire a loro volta su ciò che hai fatto e così continuare a fare cose sempre migliori.

DM: Quindi la responsabilità riguarda te stesso e i tuoi standard.

SJ: Beh, nel nostro lavoro, una persona da sola non può fare nulla. Ci si deve creare un team di persone intorno, quindi abbiamo una responsabilità che riguarda l’integrità di quel team di lavoro. Ciascuno cerca di fare il miglior lavoro possibile.

Perché la California?

DM: Qualche commento o pensiero finale per la cronaca o in via ufficiosa?

SJ: No, nessuno in realtà. Il tempo è una cosa interessante quando le persone si guardano indietro. Penso che tra cento anni, quando la gente guarderà indietro a questo periodo, lo vedrà come un periodo straordinario per la storia. E soprattutto a questo pezzo di terra, che si voglia o meno. Quando si pensa alle innovazioni che sono scaturite da questa area, la Silicon Valley e l’intera area della baia di San Francisco e di Berkeley, vengono in mente l’invenzione del circuito integrato, l’invenzione del microprocessore, l’invenzione della memoria RAM, l’invenzione del moderno hard disk, l’invenzione del floppy disk, l’invenzione del personal computer, l’invenzione dell’ingegneria genetica, l’invenzione della tecnologia orientata agli oggetti, l’invenzione di interfacce utente grafiche al PARC, seguita da Apple, l’invenzione del collegamento in rete. Tutto è successo in questa striscia di terra della baia. È incredibile.

DM: Perché pensi che sia successo proprio qui?

SJ: Uh… per due o tre ragioni questo è un posto degno di nota. In realtà, devi tornare un po’ indietro nella storia. Voglio dire, qui è dove si è affermato il fenomeno beatnik, a San Francisco. È una cosa piuttosto interessante. Qui è dove si è sviluppato il movimento hippy. Questo è l’unico posto in America dove il rock & roll si è affermato davvero. Giusto? La maggior parte delle band in questo paese, Bob Dylan negli anni Sessanta, voglio dire, sono uscite tutte da qui. Penso a Joan Baez, ai Jefferson Airplane, ai Grateful Dead. Sono usciti tutti da qui, Janis Joplin, Jimi Hendrix, tutti. Perché? È un po’ strano se ci pensi… E poi abbiamo avuto anche Stanford e Berkeley, due fantastiche università che hanno attratto persone intelligenti da tutto il mondo, introducendole in questo bel posto, pulito e soleggiato, dove ci sono un sacco di altre persone intelligenti e del cibo decente. Ci sono anche un sacco di droghe e un sacco di cose divertenti da fare. Così sono rimasti. C’è tanto capitale umano che si è riversato qui. Persone davvero intelligenti. La gente sembra più brillante qui rispetto al resto del Paese. E sembra di mente maggiormente aperta rispetto al resto del Paese. Io penso semplicemente che sia un posto davvero unico, e ha una tradizione che lo prova e che tende ad attrarre sempre più persone. Do un sacco di merito alle università, probabilmente la maggior parte del merito va a Stanford e a Berkeley, Università della California.

DM: Beh, non sai quanto apprezziamo tutto questo…

SJ: Certo, spero sia stato utile.

Spero sia stato utile?

2 thoughts on “Steve Jobs: la soluzione ai nostri problemi non è la tecnologia, sono le persone

Commenta