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R&S-Mediobanca: il Bot rende più della Borsa ma small e mid caps battono le blue chips

Impietosa analisi di “Indici e Dati”, la ricerca sugli ultimi 16 anni dei mercati finanziari di R&S-Mediobanca – Solo in 2 casi su 16 la Borsa ha battuto il rendimento dei Bot – Bene però le azioni di risparmio e bene i titoli del segmento Star – L’industria recupera sulle banche – Sempre più piccola la Borsa italiana: oggi è solo la ventesima nel mondo

R&S-Mediobanca: il Bot rende più della Borsa ma small e mid caps battono le blue chips

Il giudizio è implacabile e dalla miniera di informazioni che, come al solito, esce dall’edizione 2011 di “Indici e dati” elaborata da R&S-Mediobanca non c’è alcun dubbio che, salvo isolate parentesi in anni particolari, il rendimento del Bot batte l’investimento azionario. Ovviamente c’è Borsa e Borsa e c’è titolo e titolo ma il risultato d’insieme è quello. Ecco una sintesi di “Indici e Dati” di quest’anno.  

I FATTI DI CASA NOSTRA
Andamento della Borsa Italiana negli ultimi 16 anni: dal gennaio 1996 (base indici Mediobanca free float) al 12 ottobre 2011 (15 anni e 10 mesi circa), l’investimento in Borsa più redditizio è relativo alle azioni di risparmio, il cui rendimento complessivo (inclusi i dividendi) è stato pari all’8,2% medio annuo.

Buona la performance delle small caps (piccole imprese, oltre la centesima posizione nella classifica per capitalizzazione flottante) e delle mid-cap (imprese a media capitalizzazione, dalla 31-esima alla 100-esima per capitalizzazione flottante di borsa), con rendimenti medi annui pari, rispettivamente, al 5,3% e al 6,7%; entrambe hanno battuto le blue chips le cui quotazioni sono cresciute del 4,8% medio annuo.

Quanto ai settori, l’investimento in titoli bancari è regolarmente soccombente rispetto ai titoli industriali, qualunque sia l’anno dell’investimento iniziale: dal 1996, ad esempio, si tratta di un +2,8% medio annuo rispetto al +7,5% del portafoglio industriale (che in termini cumulati su circa 16 anni si traduce nel +55% contro + 215,7%). Ma peggio ancora hanno fatto i titoli assicurativi, solo + 42,4% in 16 anni, ossia +1,3% medio annuo. Complessivamente, la Borsa ha reso il 5,4% medio annuo circa.

Dalla sua istituzione il segmento Star ha sempre garantito rendimenti migliori del mercato, ma soprattutto della media dei segmenti Mid e SmallCap da cui essi provengono. L’investimento in Borsa ha chiuso in negativo in 12 anni su 16, vale a dire da 13 anni a questa parte fatto salvo il 2002. Ma anche per questo dato i settori fanno la differenza: gli ultimi 14 su 16 sono gli anni perdenti sia per l’investimento assicurativo che per quello bancario, solo 6 su 16 per quello industriale (dal 2004 in avanti, eccettuato il 2008).

I titoli dell’ex Nuovo Mercato hanno invariabilmente perso dalla fine del 2000 in poi. Rispetto ad un investimento in BOT, la Borsa avrebbe garantito un rendimento medio annuo superiore all’impiego risk-free in due casi su 16: nei soli due periodi iniziali (gennaio e dicembre 1996), mentre anche chi avesse avuto il coraggio di buttarsi in Borsa in piena crisi finanziaria (2008) non avrebbe ottenuto rendimenti superiori ai BOT.

Resta da valutare se il maggiore rendimento offerto dalla Borsa sia stato sufficiente a compensare l’investitore per il maggiore rischio assunto, tenuto conto di un premio che è oscillante tra 3,5% ed il 5%: non pare ciò sia accaduto, neppure per l’investimento effettuato in un momento (fine 2008) del tutto eccezionale per via della crisi finanziaria.

Rendimento da dividendi: nel 2008 la caduta dei corsi azionari in presenza di risultati di bilancio (quelli del 2007) ancora non erosi dalla crisi ha portato il dividend yield della Borsa italiana al massimo dal 1996 (6,1%); le banche in particolare hanno potuto “premiare” in modo consistente i propri azionisti (6,8%), ma la palma del migliore rendimento spetta alle azioni di risparmio (7,5%), anch’esse al massimo storico dal 1996.

Nel 2009, la caduta del monte dividendi per i magri risultati di bilancio nel 2008 di assicurazioni e banche ha invece depresso il dividend yield complessivo, portandolo al 4,3% (ma in linea con i livelli del 2006 e 2007), grazie alla “tenuta” dei titoli industriali (6,4%) che hanno realizzato il secondo miglior risultato dal 1996 ed hanno in parte compensato la caduta degli assicurativi (1,7%) e dei bancari (appena lo 0,8%).

Il 2010 segna una ulteriore caduta dei dividendi (dal 4,3% al 4,1%, un livello che non si vedeva dal 2003), ma sono ora le industrie ad avere chiuso bilanci 2009 magri riducendo di conseguenza la remunerazione agli azionisti (al 4,8% dal 6,4%) mentre sono in lieve ripresa assicurazioni (da 1,7% a 2,8%) e banche (da 0,8% a 2,6%); sempre sostenuta la remunerazione delle azioni di risparmio (6,5%), in linea con il 2009.

Nel 2011 il livello del dividend yield ha confermato l’andamento del 2010, fatta salva la contrazione di quello dell’industria, sceso al 4%. Le Mid-cap, ad eccezione del biennio 1996/1997 hanno segnato dividend yield regolarmente inferiori alle maggiori società (tendenza accentuatasi negli ultimi anni), sicché i loro migliori rendimenti complessivi sono integralmente da ascrivere alla dinamica dei prezzi. La considerazione vale ancor più per le società del segmento Star che hanno una politica di dividendi particolarmente cauta – la media storica dal 2002 del loro rapporto dividendo-prezzo, 2,2%, supera di poco la metà di quello delle Top 30, 4,3%.

Lungo periodo = lungo digiuno?  L’indice della Borsa Italiana dal 2 gennaio 1928 al 12 ottobre 2011 esprime, nella versione a corsi secchi, ossia senza il reinvestimento dei dividendi, un rendimento nominale pari al 6,8% annuo. In termini reali esso diviene negativo per il 2,2% annuo (l’inflazione media è stata del 9,1%).

Ciò significa che un ipotetico investitore che avesse deciso di consumare i dividendi si sarebbe ritrovato dopo 83 anni e 9 mesi con un capitale dal potere di acquisto decurtato dell’84%. Calcolando l’indice nell’ipotesi di totale reinvestimento dei dividendi, il rendimento medio annuo reale si attesta all’1,2%, per effetto di un dividend yield medio nel periodo del 3,4%.

Il reinvestimento del dividendo è quindi necessario per mantenere il potere d’acquisto iniziale del capitale che, posto 100 il gennaio 1928, risulta pari a 272,6 a fine settembre 2011. Il reimpiego dei dividendi è di fatto servito per circa due terzi a proteggere il capitale dall’inflazione e per il residuo ad incrementarlo.

Nella valutazione dell’investimento in azioni e fondamentale la considerazione dell’orizzonte in cui esso avviene: assumendo un periodo di investimento di un solo anno, l’investitore avrebbe “rischiato” nel periodo in esame di guadagnare un massimo del 116% (nel 1946) o perdere nella peggiore ipotesi il 72% (1945). Man mano che il periodo d’investimento si allunga, si riduce la dispersione dei risultati medi annui.

Sorprende che, anche detenendo le azioni per 30 o 40 anni, permanga il rischio di subire una perdita media annua tra il 3% ed il 4% (che significa, in 40 anni, depauperare di circa l’80% in termini reali il proprio capitale pur avendo reinvestito tutti i dividendi, come accaduto tra il 1944 e il 1983).

D’altra parte, e cruciale il momento dell’investimento. Se si decide, malauguratamente, di investire in un picco di mercato, posto pari a 100 l’anno in cui esso si verifica, in media dopo 10 anni si e subito un dimezzamento del capitale, recuperando poi fino ad oltre i tre quarti dopo venti, mentre al maturare del trentesimo anno si e ancora in perdita, seppure di poco.

Capitale medio dopo:

10 anni: 51,8 euro   -6,4% medio annuo
20 anni: 81,8 euro   -1,0% medio annuo
30 anni: 97,6 euro   -0,1% medio annuo

Se invece si fosse investito in uno degli anni in cui l’indice di Borsa era ai minimi (nella nostra rilevazione: il 1933, 1938, 1945, 1964, 1977 e il 1992), in media dopo 10 anni si sarebbe ottenuto un valore dell’investimento piu che raddoppiato e quasi quadruplicato dopo 30 anni.

Capitale medio dopo:

10 anni: 215,0 euro   +12,2% medio annuo
20 anni: 265,3 euro   +6,7% medio annuo
30 anni: 388,1 euro   +5,4% medio annuo

Si noti, per inciso, il prolungato periodo che va dal gennaio 1928 alla fine del 1985 che segna un totale ristagno (quasi sessantennale) della borsa italiana, con rendimento reale nullo ed una sostanziale invarianza del numero di emittenti quotati (da 176 del gennaio 1928 a 165 a fine 1985).

I singoli titoli: dalle stelle alle stalle Una scelta oculata dei titoli avrebbe portato a battere la Borsa: ad esempio, investendo nel gennaio 1938 in Generali si sarebbe realizzato al giugno 2011 un rendimento medio annuo reale (ossia netto dell’inflazione, ma senza i dividendi) del 4,8% contro una flessione dell’1,9 % medio annuo della Borsa; oppure in Italcementi (+2,3% medio annuo in termini reali), Aedes (1,7%), Caltagirone (+0,8%), Fondiaria-SAI (+0,5%) e FIAT (+0,1%): tutti positivi, oltre che migliori rispetto alla media del mercato.

Ma sarebbe potuta andare davvero male scommettendo su Edison (-7,1% oppure -6,3%, a seconda dell’azione di partenza), sulle vecchie azioni del Gruppo Orlando (oggi Intek) rivenienti dalla vecchia SMI (-5,9%) o dalla vecchia GIM (-5,7%) o ancora sulle Bastogi (-6,1%) che e il titolo piu longevo del listino, essendosi quotata nel 1863.

La lista dei rendimenti negativi (e inferiori alla media della Borsa) e lunga, coinvolgendo anche blue chip come Italmobiliare (ex Franco Tosi) con 2,9%, Pirelli & C. (ex Pirelli Spa o “Pirellona”) con -2,8%, Telecom Italia ex SIP con -2,5% o ex Stet (-2,3%). Sempre negativi (anche se oltre la media di mercato) Pirelli & C. (ex “Pirellina”) con -1,6% e Finmeccanica (-1,5%).

Listino spaccato in due: da inizio gennaio 2010 alla meta di ottobre 2011, periodo in cui la Borsa ha perso il 27,4%, meno di un quarto dei titoli ha segnato variazioni di prezzo positive (67 su 286, il 23%) ed un numero analogo (69) ha perso oltre il 50%. Tra i migliori: Mondo Home Entertainment (+168%), Marcolin (+162%), Dè Longhi (+155%), Bioera
(+152%) e Yoox (+112%). Tra gli andamenti piu negativi, quelli di: Yorkville bhn (-90%), Cogeme Set (-89%), Gabetti Property Solutions (-85%), Kerself (-84%) e Stefanel (-82%).

Le blue chip e il “premio al rischio”: I rendimenti medi annui piu elevati tra le azioni continuamente “in vita” dal 1984 sono di: Generali per le assicurazioni (+8,3% contro il 7,9% dei BTP meglio dell’altro titolo longevo, Fondiaria-SAI, con il 3,1%); Intesa Sanpaolo ex Nuovo Banco Ambrosiano, tra le banche, che con il +10,7% merita la palma di best performer secondo questa particolare classifica (meglio di Mediobanca con il +8,6% e UniCredit al +8,4%, anche se entrambe sopra
i BTP); nell’industria la sola Gemina ha tenuto il passo dei Btp, avendo reso il +8,9% in media annua (a seguire: Fiat 7,7%, Pirelli & C. 5,2% e Finmeccanica 4,3%). Fanalino di coda Telecom (la vecchia Olivetti), in negativo negli ultimi 27 anni e mezzo per un -1,6% medio annuo.

Borsa, la finanza è ancora in affanno: dopo le turbolenze dei mercati che avevano ridotto il valore della Borsa Italiana a fine 2008 a circa 370 miliardi di euro (24% del Pil italiano), si e registrata una ripresa a 458 miliardi a fine 2009 (30% del Pil) e poi nuovamente una flessione ai 425 miliardi di fine 2010 ed ai 436 dello scorso giugno (28% del Pil).
A metà ottobre il valore e caduto a circa 359 miliardi di euro (23% circa del Pil).

Il settore industriale, confinato negli anni del boom bancario ad una quota che aveva toccato a fine 2005 la sua minima rappresentativita (56% della capitalizzazione totale), ha da li iniziato una ripresa che lo ha portato a salire progressivamente (58% nel 2006, 61% nel 2007, 64% nel 2008, 65% nel 2009, fino al 72% del 2010 ed al 73% del giugno 2011). Il peso delle banche e caduto dal 32% (2006) al 20% del giugno 2011, in linea con la consistenza del settore nel 2001-2002. Rispetto ad allora, il peso dell’industria e relativamente maggiore, a discapito del comparto assicurativo.

Il monte dividendi di tutte le quotate è tornato sui livelli del 2009: 16,3 miliardi di euro (+7,6%), con una ripartizione tra settori che, lasciando pressochè immutato il peso delle bancarie (15,5%), ha avvantaggiato l’industria (79% contro 78%) a scapito delle assicurazioni (dal 6% al 5%).

Tanto il settore bancario quanto l’assicurativo rimangono assai distanti dai massimi toccati nel biennio 2007-2008, quando gli importi distribuiti erano all’incirca quadrupli. Tiene meglio l’industria, che ha staccato maggiori dividendi (+9%) attestandosi a 12,9 miliardi, inferiori di un circa un quarto rispetto a quelli del 2008.

Le banche hanno rappresentato il 15,5% dei dividendi corrisposti nel 2010 rappresentando circa un quinto del valore della Borsa, ma nel 2008 gli istituti di credito erano arrivati a garantire quasi il 36% di tutti i dividendi pur avendo in Borsa un peso all’incirca invariato (25%); e ancora nel 2007 avevano rappresentato il 40% di tutti di dividendi pur valendo il 30% di tutta la Borsa.

I multipli, tra vecchi e nuovi equilibri: il rapporto tra prezzo ed utile per azione ha iniziato a cadere gia nel 2007 (da 21,2x a 19,2x), essenzialmente per effetto del settore bancario che ha sperimentato per primo in quell’anno una discreta riduzione dei corsi (un -11% anticipatore delle prime avvisaglie di turbolenza), pur in presenza di utili non ancora intaccati dalla crisi.

Nel 2008 il multiplo e crollato a 14,4x, non per effetto delle banche, le cui quotazioni (-56%) si sono mosse di conserva con il crollo degli utili (-56%), ma per la flessione delle quotazione delle imprese industriali; esse hanno lasciato sul terreno oltre il 40% nell’attesa di scenari molto pessimistici anche per la manifattura, pur in presenza di utili 2008 solo parzialmente intaccati (-7% per i maggiori Gruppi), facendo cadere il multiplo del settore da 19,9x a 13,1x (-33,5%).
Con il 2009 l’andamento dei conti e la dinamica della borsa hanno cercato di riallinearsi dopo lo “scrollone” del 2008, ma ancora con “strappi” ed oscillazioni: le quotazioni delle banche sono cresciute del 27% circa, gli utili si sono ridotti in ugual misura (-25%) ed il p/e e salito a 21,3x (+27%), il livello più alto dal 2003; l’industria, da parte sua, ha visto il valore di borsa riprendersi del 25% circa, ma in presenza di utili 2009 ora in effettiva flessione (-37% circa per i Gruppi maggiori), con conseguente rialzo del P/E a 19,2x (+47%).

I dati piu recenti per l’intera borsa segnano livelli che sino a giugno 2011 hanno oscillato (20,1x) verso una possibile convergenza sui livelli di lungo periodo (20,6x), per poi discostarsene sensibilmente (16,8x a ottobre) in seguito al forte calo borsistico. Bisognera invece forse abituarsi a ratios strutturalmente piu bassi (almeno per alcuni comparti) per
quanto riguarda i P/BV (prezzo su patrimonio netto per azione): la caduta dei corsi a fronte di utili piu contenuti deprime questo indicatore il cui denominatore (i mezzi propri) non puo oscillare come gli utili: ecco quindi che dal 2008 l’indicatore si e ridotto ed ora pare assestarsi attorno a 1,5x/1,6x, al disotto del proprio livello di lungo periodo (1,8x). Cio pare coinvolgere tanto assicurative e banche, quanto l’industria.

Nel 2011 appena due nuove quotazioni: nel 2011 sono uscite (delisting) dalla Borsa cinque imprese a fronte di due sole quotazioni (Fiat Industrial e Salvatore Ferragamo), in attesa dell’IPO Sea. Dal 1861, in media, si sono quotate ogni anno 6,5 societa e se ne sono cancellate 4,7 con un saldo di poco meno di due societa per anno. Tra il 1951 ed il 1970 si sono mediamente quotati tre titoli all’anno ed altrettanti si sono cancellati, mantenendo la numerosita del listino invariata (circa 130 titoli).

Dal 1971 al 1985 a si sono avute in media cinque quotazioni e tre cancellazioni all’anno con un saldo positivo di due unita, mentre il boom si e avuto dal 1986: fino al 2000 le nuove iscrizioni sono state 18,5 all’anno, le cancellazioni sono pure aumentate a 10,7 unita, con un saldo ampiamente positivo (7,8 unita).

Dal 2001 al 2011, infine, le iscrizioni calano in misura non trascurabile (13,4 unita), a fronte di un ulteriore incremento delle cancellazioni (14,4 unita), con un saldo divenuto negativo (-1 unita). I dati dell’ultimo decennio sarebbero assai meno positivi senza l’effetto del travaso dal Mercato Expandi (ex Ristretto) che ha fatto confluire sul mercato principale 39 titoli nel 2009: senza di loro, ferme le 14,4 cancellazioni medie annue, le iscrizioni sarebbero appena 9,6, con un saldo negativo pari a 4,8 dal 2001.

La privatizzazione della Borsa? Dal 1998 ad oggi (senza l’effetto Expandi) ha prodotto un saldo netto positivo di una societa all’anno, ma nei dieci anni precedenti (1986-1997, ma lo stesso varrebbe partendo dal 1980) il saldo era all’incirca quadruplo (+4 unita).

In termini cumulati, dal 1990 ad oggi il listino si e impoverito di 12 unita, salvato dall’apporto (33 titoli, di cui 45 iscrizioni e 12 cancellazioni) dell’ex Nuovo Mercato senza il quale il saldo sarebbe negativo per 45 titoli.

Infine, i tre saldi netti negativi segnati nel 2003 (-13 unita), 2008 (-12) e 2009 (-11, senza l’effetto Expandi), senza considerare i piu recenti -8 e -9 di 2010 e 2011, hanno pochi precedenti comparabili o peggiori in tutto il secolo scorso: nel 1934 (-13 unita), nel 1931 (-20), nel 1918 (-38 unita), nel 1910 (-11). Poco sollievo e venuto da AIM e MAC, che attualmente contano oggi 12 e 11 titoli dalla capitalizzazione assai contenuta.

Raccolta, dopo un 2010 in tono minore forte ripresa nel 2011: nel 2010 sono stati realizzati aumenti di capitale per 5,5 miliardi, importo lontano dai massimi (16,9 mld. di euro nel 1999); UniCredit ha da sola totalizzato 4 miliardi. I primi sei mesi del 2011 mostrano invece segni di grande vivacita, con aumenti per complessivi 11,4 miliardi, da ascrivere quasi integralmente (89%) al settore bancario (5 miliardi relativi a Intesa Sanpaolo, 2,15 al Monte Paschi, 2 al Banco Popolare e 1 a UBI Banca) e solo per quote residue alle assicurazioni (0,8 mld.) e all’industria (0,4 mld).

Dal 1990 sono stati raccolti 149 miliardi di euro, il 59% dei quali dall’industria ed il 33% circa dal settore bancario. Quest’ultimo si e presentato sul mercato con insistenza dal 2008, raccogliendo 25,3 miliardi di euro (il 55% in piu dell’industria), pari ad oltre la meta del totale raccolto dal 1990. Nello stesso periodo, l’industria ha richiesto a titolo di sovrapprezzo una quota pari, in media, al 46,5% del capitale raccolto, contro il 72,3% delle assicurazioni ed il 58,8% delle banche.

UNO SGUARDO SULL’ESTERO
Borsa Italiana non guadagna posizioni: a fine 2001 la nostra Borsa era ottava al mondo, con 593 miliardi di euro di capitalizzazione, circa il 50% del Pil di allora, un’incidenza non lontana da quella della borsa tedesca. Ci superavano le grandi piazze nordamericane (Nyse, Nasdaq e Toronto) e quelle europee (Londra, borsa tedesca e il neocostituito Euronext che aveva riunito Parigi, Amsterdam e Bruxelles), oltre a Tokyo.

A giugno del 2011 troviamo la Borsa Italiana in 20esima posizione, principalmente in conseguenza del forte dinamismo delle piazze emergenti e del miglior andamento di alcune borse europee (Svizzera, Spagna) e del mercato australiano, come anche per il consolidamento di alcuni mercati singolarmente piu piccoli del nostro (Stoccolma, Helsinki e Copenhagen riuniti nel 2005 nel Nasdaq OMX Nordic). Dopo aver perso una posizione nel 2002 (sorpasso della borsa svizzera) e due sia nel 2003 che nel 2005 (a vantaggio, rispettivamente, di Hong Kong, Spagna e Australia) Nasdaq OMX Nordic) abbiamo assistito al sorpasso dei mercati del BRIC ed altri emergenti: nel 2007 da parte di Shanghai, Brasile e
Bombay, nel 2009 di Corea e Russia (dopo un primo tentativo per entrambe nel 2007, neutralizzato nell’anno successivo) nonche di Johannesburg, nel 2010 di Taiwan.

Difficile recuperare posizioni: tali mercati sono mediamente, in termini di capitalizzazione, 2,4 volte quello italiano ed il loro vantaggio varia dal 27% (Taiwan) al 345% e 330% di Shanghai ed Hong Kong (che avevano peraltro sopravanzato gia dal 2007 due piazze tradizionalmente di dimensioni considerevoli come Toronto e la borsa tedesca).

Vi è poi da considerare che, pur in un contesto di mercati finanziari difficili, la borsa italiana ha segnato da fine 2001 una delle riduzioni di valore piu marcate (]26%), superata solo da quelle della borsa greca (-51%) ed irlandese (-44%), mentre le altre piazze occidentali hanno perduto valore in modo più contenuto (USA: -24% con il Nyse e -9,5% col Nasdaq, Londra -9%, Francoforte -7%) oppure hanno registrato incrementi contenuti (Zurigo +56%, l’Euronext europeo +6%); tutti mercati peraltro surclassati dall’esplosione dei Paesi emergenti (Bombay +762%, Johannesburg +544%, Shanghai +418%, Brasile +410%, Corea +278%, Hong Kong +227%, senza dire della borsa russa il cui valore e nove volte maggiore).

L’effetto piu evidente di queste dinamiche contrastanti è il moderato incremento del valore complessivo delle maggiori piazze mondiali (+20% nel decennio), quale saldo tra i 1.050 miliardi di euro “bruciati” dalle economie mature (-4%) ed i 6.800 generati da quelle emergenti (+314%).

Il peso delle borse delle economie mature si e conseguentemente ridotto dal 92,6% al 74,4% del totale ed in questo trend l’incidenza della Borsa italiana, gia marginale a fine 2001 (2%), ha accusato una sensibile flessione a giugno 2011 (1,2%). Rispetto al Pil, solo la Borsa greca e meno rappresentativa della nostra (20% contro 28%). Ci precedono
le Borse irlandese (31%), austriaca (32%), polacca (41%) e quella tedesca (44%).

Tutte le altre Borse sono oltre il 50% dei rispettivi Pil (Shanghai e al 41%, ma supera la meta del Pil grazie a Hong Kong). Il peso della Borsa Italiana sul Pil dell’ultimo triennio (tra il 25% ed il 28%) è tornato ai livelli del 1997, dopo il massimo del 2000 quando si sfioro il 70%.

E’ invece ai massimi storici l’incidenza dei mezzi propri, oltre il 30% del Pil (era l’8% nel 1986). Ne consegue, a giugno 2011, un rapporto tra mezzi propri e valore di borsa superiore all’unita, 1,08x, un livello inusitato e che, dal 1986, si e registrato solo nel 1992 (1,21x, ma allora la borsa valeva 85,5 miliardi di euro) e nel biennio 2009-2010 (1,07x e 1,15x). E’ l’effetto, essenzialmente, della bassa valutazione riconosciuta dalla borsa ai mezzi propri delle imprese maggiori.

Ingressi e delisting: alla moderata crescita del valore delle borse mondiali fa riscontro una lieve flessione nel numero degli emittenti quotati, la cui consistenza (relativamente ad un insieme di 23 Borse valori, che non include quelle canadese e coreana per indisponibilita dei dati necessari) e caduta nel decennio (2001-giugno 2011) del 2% circa, da 24.800 unita a circa 24.300 circa (-500 unita).

Anche in questo caso si tratta del saldo di due tendenze contrapposte: -5,3% per le economie mature (persi oltre 800 emittenti) e una sostanziale stabilita delle emergenti (+3,7%, per 350 emittenti in piu). Tiene, in base a questo parametro, la Borsa Italiana (+15%) che fa meglio della maggioranza delle economie avanzate.

Esaminando l’incidenza delle nuove quotazioni e dei delisting nel decennio rispetto agli stock di titoli quotati ad inizio periodo, emerge che le nuove quotazioni hanno in media rappresentato circa il 47% delle consistenze iniziali, le cancellazioni il 52% e quindi in dieci anni i listini cambiano pelle all’incirca per meta dei loro componenti.

Nel caso della Borsa Italiana, essa sembra avere mostrato una certa capacita di attrarre nuove quotazioni che hanno rappresentato il 45% dello stock iniziale, contro valori pari al 40% di Tokyo, al 34,5% della Germania, al 24% per il circuito NYSE Euronext europeo o al 22% della borsa svizzera, ma anche una minore capacita di trattenere le societa che hanno poi abbandonato la nostra piazza nella stessa percentuale (54%), piu di quanto non sia accaduto a Tokyo (32%), in Germania (43%), sul circuito Euronext (48%) o in Svizzera (29%).

Emergenti ad alta performance: nel periodo dal gennaio 2001 a metà ottobre 2011 (quasi 11 anni) gli indici di borsa dei mercati emergenti l’hanno fatta da padrone in termini di performance media annua (espressa in euro e senza i dividendi): Russia (+19,2% medio annuo che significa avere ottenuto 6,7 volte l’investimento iniziale), Bombay (+11%) con investimento triplicato, e a seguire borsa coreana (+9,5%), Brasile (+9,2%) e Johannesburg (+8,9%), che hanno tutte recuperato oltre 2,5 volte l’investimento di inizio 2001.

Le uniche piazze di economie mature ad avere garantito un rendimento medio annuo positivo dal 2001 sono state quella australiana (+5%), quella canadese (+2,8%); anche la borsa danese (+1,9%) e, seppur marginalmente, quella spagnola (+0,3%) sono entrate in territorio positivo, battute pero da Singapore (+2,3%).

La Borsa italiana, in negativo per una media annua pari al 7,3%, e maglia nera insieme con Helsinki (parte del Nasdaq OMX Nordic, -7,5%): ha fatto peggio delle due principali piazze dell’ex Euronext (Amsterdam -6,7%, Parigi -4,1%), come di Londra (-3,6%), New York (-3,1%), Nasdaq (-3%), Francoforte (-2,3%) e Zurigo (-1,2%), oltre alla gia citata Madrid.

Non tutto il quotato viene scambiato: nella media dei 9 anni dal 2002 al 2010 il Nasdaq si conferma il mercato di gran lunga piu attivo in termini di scambi misurati dall’indice di rotazione (rapporto controvalore scambi/capitalizzazione complessiva): 5 volte contro 1,83x della Corea e 1,70x della Germania.

Il Nasdaq e invariabilmente dal 2002 il mercato piu liquido, anche se l’eccezionale performance media si e manifestata particolarmente dal 2007 in avanti, con valori medi di 9 e una punta nel 2008 (14,7x).

Sotto questo profilo, la Borsa italiana si colloca immediatamente dopo la Germania, con un multiplo medio nel periodo pari a 1,62x che la pone, seppur di poco, davanti alla Spagna (1,56x), a New York(1,37x), all’ex OMX (1,18x), come anche a Tokyo (1,17x), Londra (1,16x) ed ex Euronext (1,14x). I grintosi e rampanti mercati emergenti sono assai illiquidi: 0,05x il multiplo della Borsa russa, 0,24 quello di Bombay, 0,36 per Johannesburg, 0,52 quello brasiliano.

Un po’ meglio Hong Kong (0,65x), mentre le sole Shanghai (1,42x) e Taiwan (1,51x) paiono in linea con la media generale dei principali mercati (1,50x).

I multipli: il rapporto P/E del settore assicurativo europeo segna un livello di lungo periodo (media decennale) pari a 17,8x, non dissimile da quella del mercato italiano pari a 19,2x. Nel 2010, a fronte di quotazioni ancora basse, il P/E si è attestato ben al disotto del livello di lungo periodo (13,1x), una situazione, questa, non dissimile da quanto accaduto negli Stati Uniti, con un multiplo ancor piu depresso (12,1x), seppure meno distante dalla media decennale (16x).

Analogamente, il settore bancario europeo ha sperimentato nel 2010 un P/E notevolmente compresso (9,5x), non dissimile da quello dell’annus horribilis 2008 e ben distante dalla media del decennio (13,5x); negli Stati Uniti, per contro, durante lo sviluppo della crisi bancaria i multipli hanno mantenuto una notevole stabilita (tra 17,1x e 20,6x negli anni dal 2007 al 2010) ed una forte coerrnza con i livelli di lungo periodo (18,7x).

Anche i ratio industriali appaiono generalmente in flessione nel 2010, sia in Europa che negli USA. Il P/E è mediamente più elevato negli Stati Uniti che in Europa (media decennale pari a 20,9x contro 16,3x), soprattutto per la più generosa valutazione di banche (17,1x contro 9,5x) e industrie (17,9x contro 14,9x) e trova corrispondenza in dividend yield mediamente più elevati nel nostro continente (3,5% contro 2,4%).

Il P/BV pare anch’esso cronicamente più elevato negli Stati Uniti: da segnalare il trattamento particolarmente severo che pare emergere dal P/BV delle banche europee, mai superiore all’unità dal 2008 in avanti, contro i livelli minimi dell’1,1% per gli istituti statunitensi.

Sia in Europa che negli Stati Uniti (e come già visto anche per l’Italia), il rapporto P/BV bancario segna comunque un break strutturale rispetto ai livelli prevalenti prima del 2008.

Le Borse Spa: anche le società di gestione delle Borse sembrano avere almeno in parte neutralizzato gli effetti della crisi manifestatasi nel 2009. L’aggregato di sette tra le maggiori società (NYSE Euronext, Tokyo, Nasdaq OMX, London Group,
Deutsche Boerse, Hong Kong e BME-Spagna) segna una ripresa del fatturato nel 2010 pari al 4%, da 8,35 miliardi di euro a 8,7 miliardi di euro; la negoziazione titoli, unitamente a compensazione, liquidazione e custodia titoli, le voci di ricavo con i miglioramenti più marcati. In controtendenza Borsa italiana, che vede ridursi i ricavi del 3% a 157 milioni di euro e diminuire la quota sul consolidato London Group al 21% (dal 23%).

Il contenimento dei costi operativi (-2,4%) dà un ulteriore contributo alla crescita del margine industriale, che sale del 21%. Importanti riduzioni degli oneri straordinari (-71%), pur parzialmente bilanciate da un incremento delle imposte sul reddito (+26%), hanno consentito al risultato netto di aumentare del 38%. Il ROE è cresciuto dall’11,7% al 15,6%.

La sola Deutsche Boerse ha accusato una flessione del risultato netto (-16%); gli utili delle restanti società di gestione sono tutti in progresso, particolarmente quelli di NYSE Euronext (quasi triplicato), London Group (+69%) e Nasdaq OMX (+60%). In nero (non accadeva dal 2007) anche la Borsa di Tokyo, appesantita da svalutazioni di titoli nel 2008 e risarcimenti straordinari nel 2009. Quanto ai dipendenti, il loro numero è rimasto sostanzialmente invariato (-1,4%), nonostante ulteriori, vigorosi tagli occupazionali al NYSE Euronext ( -12% dopo il -10% del 2009); hanno fatto da contraltare soprattutto Nasdaq OMX (+8%), Tokyo SE (+6%), London Group (+5%) e Hong Kong (+4%). Borsa italiana
continua a rappresentare, in termini di occupati, il 14% del London Group.

La struttura patrimoniale evidenzia mezzi propri in crescita del 6,3% a fronte di un’espansione del 3,2% dei debiti finanziari (da 5,35 a 5,5 miliardi); il rapporto debt/equity segna in ogni caso un pur lieve miglioramento (dal 37,9% al 36,8%). Il valore di Borsa, relativamente alle sole quotate, è cresciuto dell’11,8%.

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