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Fondazione Italcementi: riscopriamo l’industria e l’impresa

Domani a Bergamo gran convegno sulla riscoperta dell’industria e dell’impresa – Confronto-scontro tra la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia e la segretaria generale della Cgil Susanna Camusso – Non rassegnarsi a considerare l’industria un’attività dei soli Brics – Il made in Italy ha ancora molto da dire

Fondazione Italcementi: riscopriamo l’industria e l’impresa

Mentre avanza lo spettro della recessione tecnica, con un Pil che per l’Italia si annuncia negativo pesantemente quest’anno e ancora sotto zero l’anno prossimo, a Bergamo domani nel convegno annuale promosso dalla Fondazione Italcementi: “Industria: un’impresa. L’economia reale dal presente al futuro prossimo” si farà una sorta di check-up sullo stato di salute dell’impresa in un Paese che ormai si è dimenticato di come si faccia a crescere. Assieme a un ventaglio di economisti e imprenditori, questo check up lo faranno, in un prevedibile incontro-scontro di opinioni e relative terapie, innanzitutto Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, e Susanna Camusso, segretario nazionale della Cgil.

La domanda a cui tutti sono chiamati a rispondere è se l’industria capace di fare sviluppo e benessere sia ormai destinata a essere una prerogativa non più dell’Italia (e dell’Europa in genere )ma solo dei mercati emergenti. Di anno in anno di fatto si sta assistendo a un Paese che fatica sempre più a riposizionarsi sulla strada di una crescita vera, con l’economia reale al centro di un modello di sviluppo sostenibile. Ed è questo un dato di fatto reso esplicito dalla stagnazione del Pil. Per decenni nella nostra cultura la “fabbrica” è stata motivo d’orgoglio e l’industria italiana si è fatta conoscere e apprezzare nel mondo per qualità e capacità innovativa, creando ricchezza e posti di lavoro. Oggi, persi o espulsi da settori strategici, stiamo scivolando sempre più indietro, quasi assenti nelle invenzioni che hanno cambiato il mondo. L’Italia, in particolare, dà l’impressione di soffrire più di altri il contraccolpo di un Occidente che ha ceduto al fascino della deindustrializzazione e del creare “soldi dai soldi”, tipico della finanza.

A lungo, gli effetti sociali legati a questa trasformazione e alla globalizzazione sono stati considerati un marginale prezzo da pagare rispetto ai benefici della transizione verso una società “immateriale”, con il superamento del concetto di lavoro, inteso nella sua concretezza di “agire per trasformare”, come necessario motore della crescita. La crisi che ha colpito l’eurozona, incentrata sui debiti sovrani, impone un cambio di rotta riportando il primato del fare e quindi dell’impresa al centro del motore dell’economia.

Troppe previsioni ottimistiche sono crollate alla prova dei fatti. Anche il rapporto con le nuove economie emergenti è stato inizialmente presentato come “sviluppo” verso un modello in cui il lavoro industriale scomparso sarebbe stato sostituito da posti di lavoro ad alto valore aggiunto nel settore dei servizi. Ma l’emergere di realtà come i Brics – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – ha profondamente cambiato questo scenario. E mentre i paesi occidentali perdono terreno e sembrano incapaci di uscire dalla crisi, chi negli ultimi decenni ha investito nelle proprie fabbriche e ha saputo attirare investimenti industriali dai mercati più maturi, oggi sembra in grado di garantirsi un nuovo scenario di sviluppo. È partendo da questo quadro di riferimento che il convegno di Bergamo “si propone di discutere – come spiegano alla Fondazione Italcementi – sul fare impresa per creare valore, lavoro e cultura, dove qualità e innovazione sappiano riaffermare la competitività del Paese, in un mondo di nuovo orientato verso la normalità dell’economia reale”.

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