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Vacca: “Il Pd sia arbitro in Parlamento e garante del rapporto con l’Europa”

INTERVISTA A BEPPE VACCA, intellettuale del Pd, già parlamentare e presidente della Fondazione Gramsci – “Il Pd non finirà con le dimissioni di Renzi dalla segreteria: sulla nuova scena politica può giocare un ruolo importante se saprà valorizzare la sua vocazione nazionale ed europea – Nè governo con M5S nè Aventino, ma opposizione responsabile e battaglia su tre terreni”

Vacca: “Il Pd sia arbitro in Parlamento e garante del rapporto con l’Europa”

“Il Pd non finirà con le dimissioni di Matteo Renzi dalla segreteria del partito e, malgrado la netta sconfitta elettorale subita il 4 marzo, può giocare un ruolo di arbitro nel nuovo Parlamento se saprà valorizzare la propria vocazione nazionale ed europea. Questo non vuol dire appoggiare, ad esempio, un ipotetico governo Cinque Stelle ma far pesare, dall’opposizione, caso per caso, i suoi Sì e i suoi No sulla nuova legge elettorale, sul rapporto con l’Europa e sulla crescita economica”. Chi parla è Beppe Vacca, intellettuale di alto rango, filosofo e politologo di fama internazionale, più volte deputato del Pci, già presidente della Fondazione Gramsci e oggi presidente dell’Edizione Nazionale degli scritti di Gramsci e cofondatore dell’associazione  “L’Italia che verrà” che, sulla scia dei comitati per il sì al referendum costituzionale del 2016, si dedica all’analisi dei problemi della Capitale, si interroga sul suo ruolo e cerca di costruire connettività fra le diverse esperienze di cittadinanza attiva. Ecco l’intervista che Vacca ha rilasciato a FIRSTonline sull’Italia dopo il voto del 4 marzo e sul futuro del Pd dopo le dimissioni di Renzi dalla segreteria. 

Professor Vacca, sinceramente si aspettava un risultato così clamoroso dalle elezioni del 4 marzo come è stato quello che ha segnato il trionfo dei Cinque Stelle al Sud e della Lega al Nord e il crollo generalizzato del Pd? 

“Non me l’aspettavo in questa misura, ma con il senno di poi direi che forse era prevedibile. La nuova legge elettorale ha posto fine a sistemi fintamente maggioritari facendo emergere più chiaramente che mai la realtà di un Paese fratturato profondamente e di un elettorato sempre più “liquido”. È il punto di arrivo della Seconda Repubblica che ci consente di leggere meglio quanto sia travagliata la gestazione della Terza e come l’Italia proietti i suoi rischi sugli equilibri europei e sul futuro dell’Ue. Grazie all’azione del Pd e dei  governi nell’ultimo quinquennio, credevo che anche in Italia potesse prodursi una situazione simile a quella di altri paesi europei, dove lo schema della grande coalizione favorisce l’avanzamento del processo europeo, malgrado l’accumulo di ostacoli sempre più grandi (dalla Brexit all’elezione di Trump alla Presidenza Usa). Al contrario, più della metà degli elettori ha girato le spalle all’Europa e questo genera un quadro inedito. Tuttavia non parlerei di catastrofe”.

In che senso? 

“Nel senso che si è finalmente chiarito, come già era emerso dal referendum costituzionale, che l’Italia non regge sistemi elettorali maggioritari basati su culture politiche povere e approssimative, come quelle che hanno caratterizzato la Seconda Repubblica. La legge elettorale proporzionale ne è una logica conseguenza e obbliga tutte le forze politiche a pronunciarsi sul futuro della nazione italiana e a dichiarare se vogliono che essa resti il Paese chiave dell’’Europa centromeridionale.  Non è detto che l’Italia ce la possa fare, ma la sfida resta aperta”.

Forse il risultato elettorale non sarà una catastrofe ma lo è per il Pd che è sceso ai minimi storici dopo cinque anni di governo. Secondo lei l’elettorato ha bocciato la leadership di Renzi o le riforme degli ultimi governi a guida Pd? 

“Non sarei così categorico. Non dimentichiamoci che il Pd resta il secondo partito e che – se ne sarà capace – può fare da arbitro in un Parlamento molto diviso il quale, probabilmente, non avrà vita lunga. Tuttavia i problemi del Pd non nascono oggi e non dipendono solo dalla scissione a sinistra che ha portato via dei voti. Renzi aveva ereditato un partito che nel 2013, dopo le occasioni perdute dalla segreteria Bersani e la non vittoria elettorale, era allo sbando e lo ha salvato – allora sì – dalla catastrofe. Oggi la partita per la ricostruzione di una moderna forza riformista autenticamente nazionale ed europea resta aperta. Molto dipenderà dalle dinamiche della politica mondiale, a cominciare dall’antagonismo fra gli Stati Uniti e l’Unione europea, reso incandescente dalla Presidenza Trump. Le stesse difficoltà della sinistra internazionale partono da lontano, forse dagli anni ’70 e la vicenda italiana, pur avendo una sua specificità, non può essere letta prescindendo dalle tendenze generali in corso e dalla destrutturazione delle società occidentali generata dalla doppia globalizzazione asimmetrica della finanza e delle tecnologie digitali. La scena mondiale è dominata da una molteplicità di conflitti sulla sovranità, caratterizzati dalla sua decostruzione, anche violenta, o dalla sua rimodulazione, in specie sovranazionale, a cominciare da quella europea”.

Una sconfitta elettorale così netta impone però una riflessione senza timidezze sul ciclo di Renzi e sul futuro del Pd: che ne sarà del Partico democratico? 

“Non c’è dubbio che, favorendo il ritorno al proporzionale, Renzi ha rimodulato anche le prospettive e la funzione della sua leadership. Quindi anche il Pd non potrà più essere quello di prima. Ma non finirà con la fine della segreteria di Renzi, anche perché oggi ha un gruppo dirigente più ampio, più capace e più dinamico di quello che lo stesso Renzi aveva ereditato. Non sono in grado di prevedere l’esito della lotta di successione a Renzi segretario, ma, ribadisco, credo che il Pd possa conquistarsi il ruolo di azionista determinante anche nella nuova stagione politica poiché è il principale pilastro della connessione europea della nazione italiana”.

Come? Andando al governo con i Cinque Stelle o facendo un’opposizione aventiniana? 

“Né l’uno né l’altro. Credo che il gioco sia in definitiva nelle mani del Presidente della Repubblica che, per procedere nell’incarico di governo, dovrà sciogliere preliminarmente il nodo del vincitore: la fittizia coalizione di centro-destra o il primo partito, cioè i Cinque Stelle. A quel punto il Pd potrà far valere la sua funzione nazionale e europea attraverso una opposizione responsabile poiché, pur non facendo parte né potendo sostenere l’uno o l’altro governo, può pesare in maniera determinante sulle decisioni che riguardano i rapporti fra l’Italia e l’Unione europea, sul probabile varo di una nuova legge elettorale e sulla durata della legislatura”.  

Ma diviso com’è oggi, pensa davvero che il Pd possa giocare un ruolo così rilevante nella nuova stagione politica aperta dal voto del 4 marzo? 

“Non ne sono certo, ma di due cose sono abbastanza sicuro. In primo luogo che, malgrado tutte le ferite e le lacerazioni, il Pd è più vitale di cinque anni fa e, in secondo luogo, che la ricostruzione del partito debba intrecciarsi con quella del Paese. Quindi deve misurarsi con temi come la rappresentanza del lavoro, la rilegittimazione del sindacalismo confederale, la costituzionalizzazione dei partiti e la riunificazione della nazione italiana”.

Non crede che il Pd, se vuole sperare di risollevarsi, debba interrogarsi sulla sua incapacità di parlare alle nuove generazioni e confrontarsi seriamente – mobilitando le forze più vive della cultura – con i problemi epocali che dominano il nostro tempo come la globalizzazione, la crisi demografica, lo sviluppo delle nuove tecnologie ma anche il debito pubblico, le diseguaglianze sociali e generazionali, la crescita senza produttività e senza un vero rilancio di posti di lavoro stabili? 

“Per una generazione politica come la mia, che ha nel suo Dna la lezione di Togliatti e di De Gasperi, un rapporto limpido e proporzionato fra politica e cultura è un prerequisito della modernità e quindi anche delle forze politiche che vogliano interpretarla. In teoria anche nel Pd sono tutti d’accordo e anche Renzi ne ha parlato più volte, ma poi non si è andati oltre gli annunci. Forse il passaggio dal governo all’opposizione potrà favorire la costruzione di un nuovo partito che sappia approfondire i rapporti con gli intellettuali e chiamarli non solo a discutere ma anche a condividere soluzioni possibili per le grandi questioni della nostra epoca. Con la cultura e l’esperienza di governo che hanno acquisito, le personalità di spicco del partito potrebbero dare una mano significativa alla ricostruzione del Pd. Ma non solo loro, anche altri intellettuali e quadri variamente interessati alle sorti del Pd e dell’Italia, dovrebbero seguire l’esempio di chi, come Calenda o Toscani, decide di iscriversi al Pd proprio in un momento cruciale della sua vita”.  

Non pensa che la delusione elettorale e il ritorno all’opposizione con la concorrenza di forze politiche esplicitamente populiste possano invece indurre nel Pd la tentazione di radicalizzarsi a sinistra inseguendo le chimere dei Corbyn e dei Sanders? 

“Quella prospettiva è stata adombrata da Massimo D’Alema e, molto prima di lui, da Sergio Cofferati all’inizio del nuovo millennio, ma non credo che serva al Pd. L’Italia non è la Gran Bretagna, né il Portogallo, né tanto meno gli Stati Uniti. La vera sfida è ricostruire la fiducia tra classi dirigenti e popolo con una rinnovata piattaforma politica che affondi le radici nella storia profonda dell’Italia e non ne smarrisca il nesso generativo con l’Europa. È difficile, ma vale la pena di provarci ed è quello che anche una piccola associazione nata a Roma ereditando l’esperienza dei Comitati per il Sì al referendum del 2016, che si chiama “L’Italia che verrà”, cerca di fare”. 

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