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Usa, debito sovrano, debt ceiling e inflazione: quanti rischi per i mercati, Parla Monacelli (Bocconi)

INTERVISTA A TOMMASO MONACELLI, professore di Macroeconomia alla Bocconi – Il tetto del debito americano è stato rialzato per ben 44 volte in passato ma stavolta ci sono elementi economici potenzialmente incendiari” con possibili effetti sulla fiducia dei mercati finanziari, anche se il debt ceiling non è un rischio imminente

Usa, debito sovrano, debt ceiling e inflazione: quanti rischi per i mercati, Parla Monacelli (Bocconi)

E se fosse il debito sovrano statunitense la prossima grande incognita a deflagrare sui mercati finanziari? Il campanello d’allarme è stato attivato dall’economista Tommaso Monacelli, professore di Macroeconomia alla Bocconi, a proposito del raggiungimento del cosiddetto “debt ceiling” (tetto del debito) negli USA. Una costante dei conti pubblici americani, visto che il limite massimo del debito a stelle e strisce è stato rialzato per ben 44 volte in passato. «Questa volta ci sono elementi economici potenzialmente incendiari. Le politiche fiscali di Trump prima e Biden poi hanno messo la politica di bilancio americana su un sentiero che lascia molta incertezza. Incertezza sul “se” e sul “quando” il debito pubblico verrà stabilizzato in futuro. Le aspettative dei mercati potrebbero facilmente orientarsi alla sfiducia, tale addirittura da non aspettarsi più nel medio-lungo periodo una stabilizzazione del debito».

Nel frattempo, i dati sull’economia USA continuano a segnare in positivo: nel quarto trimestre è cresciuta del 2,9%, sopra le stime che prevedevano un +2,6%. «Il rischio è che la disputa sul “debt ceiling” diventi un punto focale per i mercati finanziari, esattamente come successo in Gran Bretagna con l’innescarsi della sfiducia sulla politica fiscale del governo di Liz Truss. Un possibile Armageddon per i mercati».

Tommaso Monacelli, professore di Macroeconomia alla Bocconi di Milano – Imagoeconomica

Professor Monacelli, che possibilità ci sono che il “debt ceiling” si traduca in un rischio concreto per l’economia americana?

«Si tratta di un rischio di coda, non è così imminente. In prospettiva però la questione della stabilizzazione del debito potrebbe diventare il primo problema dell’economia americana. La situazione fiscale è una bomba ad orologeria, da anni si registra un’espansione del deficit e del debito ma nessuna Amministrazione ha il coraggio di metterci le mani. Con questa inflazione non è tuttavia più possibile pensare di non toccare la leva fiscale».

E quali sarebbero a cascata i rischi per il resto dei mercati finanziari?

«È chiaro che una crisi di fiducia sul debito sovrano USA si propagherebbe immediatamente nel mondo. Il futuro del debito americano è completamente al buio, nemmeno Joe Biden ha preso finora una posizione chiara. I mercati come orienteranno le loro aspettative se nessuno è in grado di prospettare un percorso di stabilizzazione del debito».

Sullo stock di debito gioca anche il fattore inflazione. Qual è la visione più aggiornata della Fed per gestire l’aumento dei prezzi?

«La percezione degli operatori è che l’inflazione negli USA potrebbe scendere più velocemente di quanto previsto. Prevedono un “soft landing” sul terreno verso la recessione. Per questo c’è spazio per un ulteriore aumento dei tassi. Sul fronte della FED, ancora non è ben chiaro però quale sia l’inflazione tollerabile nei prossimi 2-3 anni».

È pur vero che, rispetto alle precedenti stagioni inflazionistiche, le nuove variabili globali da mettere insieme rendono ancora più difficili le scelte di politica monetaria.

«Certamente non ha senso confrontare la grande inflazione degli anni Settanta con questa fase economica, due mondi diversi. All’epoca nemmeno ci si preoccupava di gestire quelle che oggi chiamiamo aspettative dei mercati circa i tassi di inflazione. Negli ultimi 20 anni la teoria delle aspettative è diventata invece il centro di ogni ragionamento».

In ogni caso c’è una parte comunicativa delle banche centrali che non ha funzionato molto bene in questo ultimo anno.

«La verità è più semplice: FED e BCE hanno fatto grossi errori, hanno parlato di un’inflazione temporanea quando era chiaro che si trattava invece di qualcosa di ben più serio. Nonostante ci fossero comunque a disposizione molte utili lezioni di politica monetaria a partire proprio dall’esperienza degli anni Settanta».

Comunicazione dei banchieri centrali e aspettative dei mercati: il primo cortocircuito sull’inflazione post Covid è partito da qui?

«La FED in poco tempo ha attuato un cambio di comunicazione clamoroso per cercare di ri-orientare le aspettative degli operatori. Ha corretto un po’ la rotta, ma in generale il suo atteggiamento comunicativo è stato sorprendente e deludente allo stesso tempo».

Invece qual è la sua analisi sulla persistenza e sulla struttura dell’inflazione americana?

«La componente ciclica, ovvero quella influenzata dai prezzi di energia e del petrolio, non è molto rilevante. Esiste invece un trend di persistenza inflattiva originata da una forte domanda interna. Il problema è che da Trump a Biden non c’è stata alcuna cooperazione tra politica fiscale e politica monetaria».

Il famoso dilemma tra recessione e aumento morbido dei tassi che piega sta prendendo?

«I tassi aumenteranno, la recessione prevista sembra meno forte e addirittura non più sicura. Rimane un punto fermo: viviamo un fenomeno inflattivo persistente e in questi casi l’inflazione in genere sta su a lungo. Sicuramente negli USA finché rimarrà irrisolto il nodo fiscale non ci saranno alternative ad un’inflazione alta».

In Europa l’inflazione è di ordine diverso da quella americana...

«Le origini sono diverse, in Europa la questione energetica contribuisce a spingere i prezzi. Però bisogna rendersi conto che quando l’inflazione diventa molto pervasiva le cause originarie perdono di importanza. Tramite il meccanismo delle aspettative dei mercati, il fatto che l’inflazione sia stata generata in un modo o in un altro non cambia la sostanza delle cose. Peraltro anche in Europa non esiste un coordinamento tra politica monetaria e politica fiscale».

Dal governo italiano sono arrivate critiche forti e probabilmente inaspettate verso la BCE. 

«In Italia c’è una inflazione altissima, oltre il 12%. Abbiamo un quadro fiscale lacerato e politiche sul debito sovrano incerte. Ricordiamoci bene però che i mercati non considerano il nostro debito affidabile come quello americano, nonostante i problemi del “debt ceiling”. La politica dovrebbe sapere che ad oggi i tassi di interesse sono di poco superiori al tasso neutrale. Quindi, per quanto ci si strappi le vesti qui in Italia, i tassi sono ancora bassi. E c’è ancora molto spazio per alzarli».

Lei che idea si è fatto?

«Sono prese di posizioni incredibili. Certo con Mario Draghi al governo nessuno si immaginava critiche alla BCE. Ma è incredibile che non sia riconosciuto e lodato quello che ha fatto la BCE per l’Italia dalla crisi del debito sovrano in poi. La BCE ha sempre protetto l’Italia in modo indiscutibile, per questo fanno sorridere queste critiche».

È ipotizzabile che da adesso in poi arrivino ordini di scuderia dall’alto per evitare prese di posizione dirette contro Bruxelles e Francoforte.

«Con questa inflazione, tra le più alte d’Europa, l’Italia avrebbe bisogno di tassi ancora più alti. Altro che “starnazzare” contro la BCE, soprattutto quando i tassi sono di pochi basis point sopra il tasso neutrale».

Nell’Eurozona questa stagione inflazionistica così poderosa potrebbe far riattivare una rinnovata volontà di ripensare ad una politica fiscale comune? O comunque a manovre di convergenza?

«È incredibile che nessuno ne parli. Il dibattito sulla politica fiscale in Europa si è completamente incagliato. Adesso c’è la guerra, ma nei prossimi anni sarà il tema fondamentale dell’agenda di Bruxelles. Per l’Italia sarebbe stato molto utile avere Mario Draghi al comando in uno scenario del genere».

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