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Patto di stabilità e crescita: cambiamolo così ma nel 2026

Il Patto è obsoleto ed è stato sospeso dalla Ue per permettere ai governi di fronteggiare la pandemia ma alcuni Paesi vorrebbero ripristinarlo nel 2023 come se nulla fosse accaduto e con il rischio di creare seri danni – Una riforma, che escluda l’output gap e che sia articolata per Paese su obiettivi specifici per deficit e debito, è possibile ma il timing è fondamentale

Patto di stabilità e crescita: cambiamolo così ma nel 2026

Il Patto di stabilità e crescita è obsoleto. È stato sospeso per permettere ai governi di rispondere alla pandemia, che la dice lunga sulle sue capacità di garantire stabilità. Alcuni paesi vorrebbero ripristinarlo nel 2023 come se nulla fosse accaduto e soprattutto come se non fossero passati 20 anni dalla sua creazione, di cui gli ultimi 10, dopo la crisi finanziaria, passati ad ignorarlo con una scusa o un’altra.

Il Patto non ha impedito la crisi finanziaria (ricordiamo che il rapporto debito/PIL in Irlanda era al 25% un minuto prima di salire al 100% e dover chiamare la troika in aiuto) né quella del debito sovrano. 

I due aggiornamenti del Patto nella crisi del debito sovrano NON hanno migliorato il quadro, l’hanno solo complicato (270 pagine di Vademecum per calcolare output gap). La somma delle raccomandazioni per paese finiva per essere restrittiva quando invece un’azione coordinata di reflazione era necessaria per riagganciarsi al trend di crescita pre-crisi, come gli SU che pure erano stati l’epicentro della crisi.  Uno studio della Banque de France nel 2017 calcolava la perdita di crescita a 2-3 punti percentuali, ovvero a 200/300 miliardi di euro le perdite per il mancato coordinamento delle politiche fiscali e strutturali.

Gli indicatori della MIP (Macroeconomic imbalances procedures) che non si allineavano all’equilibrio politico europeo, come lo squilibrio macroeconomico creato dai surplus commerciali esteri della Germania e dei Paesi Bassi, venivano ignorati.

La finzione che il Patto funzionasse ha utilizzato i Relevant factors prima e la flessibilità poi per ignorarne le conclusioni che avrebbero danneggiato paesi come l’Italia. Finalmente la pandemia ha obbligato a metterlo da parte, pur lasciando diverse squadre di funzionari a occuparsene diligentemente, ma senza conseguenze operative. Avendo fatto parte dei funzionari internazionali per due decenni, provo una forte simpatia per professionisti capaci ai quali viene impedito di sostenere le conclusioni delle analisi condotte. In un dibattito a Bruxelles mi capitò di segnalare le contraddizioni dell’output gap. La risposta che ricevetti fu ”siamo i guardiani del rule book”.  Senza nessun tentativo di giustificare il medesimo.  

Il Patto mi fa pensare a Javert, il poliziotto per eccellenza descritto da Victor Hugo: serio, austero, aveva introdotto la linea retta in ciò che c’è di più tortuoso al mondo. Quando Javert deve ammettere che non riesce a linearizzare le sue stesse azioni, si suicida.

Per il Patto non c’è bisogno di suicidarsi: nel 2023 non è necessario resuscitarlo con tutti i danni del tempo e i fronzoli della moda di una generazione e due crisi mondiali fa.

Basta chiedersi a che cosa deve servire il coordinamento fiscale nel contesto giuridico della divisione di compiti tra paesi membri che hanno il potere di decidere la propria politica fiscale e la BCE che gestisce la politica monetaria. 

Fino alla crisi finanziaria inclusa, la politica monetaria ha garantito la stabilità dei prezzi e anche la crescita dell’economia. Le misure prese da tutte le banche centrali dei paesi avanzati per limitare gli effetti della crisi finanziaria sulle economie hanno ridotto il tasso d’interesse di policy intorno allo zero.  

Nella ripresa post-crisi finanziaria, alle prime avvisaglie di un aumento dell’inflazione che si è poi dimostrato temporaneo, la banca centrale europea (pre-Draghi) ha innalzato il tasso d’interesse. La conseguenza è stata la crisi del debito sovrano in Europa che ha ridotto la crescita dell’area fino alla pandemia, mentre gli USA hanno mantenuto tutte le politiche di sostegno monetario e fiscale e hanno continuato a crescere malgrado fossero l’epicentro del terremoto finanziario.

Dopo l’aumento del tasso d’interesse, durato poco perché la banca centrale si è corretta velocemente, sono stati aggiunti oltre al MES, il six packs e il Fiscal Compact. Questi ultimi dovevano contenere i debiti pubblici che sono invece cresciuti insieme all’austerità e ai populismi contro l’Europa.

Grazie però alla politica monetaria sotto la guida di Draghi, si è ridotto il tasso d’interesse ed è aumentata la maturità media del debito. Quindi è aumentata la sostenibilità del debito.

Con la crisi pandemica, i limiti di offerta e non solo di domanda e il tasso d’interesse vicino a zero che limita l’efficacia della politica monetaria, ma diminuisce i costi della politica fiscale, hanno richiesto misure fiscali espansive per assorbire lo shock sia sanitario che economico. Dopo aver agito con forza per l’acquisto e distribuzione dei vaccini, la Commissione Europea ha finalmente creato con NGEU una capacità di spesa centrale con priorità chiare per il sostegno ai disoccupati e la transizione energetica e digitale in Europa.  

Occorre tenere a mente questo nuovo quadro come background della riforma del Patto. Il desiderio dei politici del nord-Europa di ridurre i debiti pubblici perché il debito resti sostenibile è condivisibile. Se aggiungessero “negli anni buoni” sarebbe meglio. Anche il limite del 3% del deficit rispetto al PIL è utile a contenere il deficit bias dei politici. Ma il 2023 è troppo vicino per questo cambio di marcia, con il PNRR ancora in azione per sostenere la transizione energetica e digitale e la ripresa della produttività che renderà davvero sostenibile il debito nel medio e lungo periodo. Il desiderio politico non si trasforma automaticamente in azioni economiche sensate. Gli effetti di un ripristino del Patto com’era potrebbero essere ancora più gravi della stretta del 2011. Attendere fino al 2026 potrebbe invece permettere di contare su un nuovo spazio per la politica monetaria creato dalla crescita della produttività e dell’offerta di lavoro, che aumenta il tasso d’interesse di equilibrio.

Il timing non è il solo punto in discussione. Il nuovo patto deve essere semplice da calcolare e da comunicare, non includere nell’obiettivo o nel metodo di calcolo variabili non osservabili, come l’output gap. La regola della spesa, che ha dato ottimi risultati nei Paesi Bassi, se dovesse essere usata per tutti i paesi potrebbe richiedere il calcolo dell’output potenziale, non osservabile.  La regola del debito è importante, ma diventa assurda se si adotta lo stesso obiettivo numerico per l’Italia (con debito/PIL al 153%) e l’Estonia (19%). 

Perché non prendere esempio dall’approccio della politica monetaria che ha salvato i nostri sistemi economici due volte in poco più di 10 anni? Anche se esiste una Taylor rule per la condotta della politica monetaria, che determina il tasso d’interesse di policy sulla base del tasso d’inflazione e dell’output gap, non ha mai funzionato come una “regola”, ma come “valuable descriptive device” nella definizione di Bernanke. Che ricorda come non si può perdere tempo ad accordarsi sulla grandezza dell’output gap, difficile da misurare e sulla quale si hanno diverse opinioni. La regola di Taylor non offre alcuna guida quando il tasso d’interesse d’equilibrio è negativo, come lo è stato dalla crisi finanziaria.  E non c’è accordo sui pesi da attribuire a inflazione e output gap.  Infatti quei pesi dipendono dalle preferenze dei politici, dalla struttura dell’economia e dai canali di trasmissione della politica monetaria. Bernanke conclude che non prevede di sostituire il Federal Open Market Committee con robots nell’immediato futuro. Quindi non c’è bisogno di regole fissate ex-ante.

In conclusione, nell’aggiornamento del Patto, dovuto da tempo, la regola del 3% per deficit/PIL deve essere integrata con la possibilità di ampi deficit per spese d’investimento prioritarie, transizione climatica e digitale in primis, ma anche tutti gli investimenti del PNRR fino alla sua conclusione. La regola del debito deve essere articolata con obiettivi specifici per paese, come raccomandato dal Consiglio fiscale europeo.

 In attesa di una capacità fiscale centrale per la crescita e stabilità, da costruire sulla base dell’esperienza NGEU, sarebbe in ogni caso auspicabile considerare questi obiettivi degli standard, come proposto da Blanchard e molti altri. Non delle regole fissate ex-ante ed eguali per tutte le situazioni. Non sono sogni di accademici, vengono dall’esperienza di come si prendono le decisioni della politica monetaria che finora ha assorbito gli shocks e garantito la crescita, ma ora deve essere affiancata da una politica fiscale e strutturale altrettanto efficace.

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