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Le Ostie dagli altari ai dolci natalizi di miele e frutta secca realizzati dalle monache dei conventi

Una tradizione dolciaria nata nei conventi in Puglia, Molise, Toscana e Sicilia. La ricetta dello chef Gegé Mangano di Monte Sant’Angelo

Le Ostie dagli altari ai dolci natalizi di miele e frutta secca realizzati dalle monache dei conventi

Elemento rappresentativo della celebrazione religiosa che nel sacramento dell’eucaristia trova il suo significato più alto di comunione fra l’uomo e Dio, l’ostia (termine derivato da Hostia che in latino significa vittima) è entrata solo nel quarto secolo nella ritualità cattolica sostituendo il pane che veniva fino ad allora usato nelle funzioni religiose in ricordo del pane azzimo spezzato e distribuito da Gesù agli apostoli nell’ultima cena.

Ma in alcune parti d’Italia la devozione popolare ha fatto sì che le ostie scendessero dall’altare per diventare preparazioni dolci da distribuire in occasione delle feste natalizie. Nulla di blasfemo per carità ma una piacevole commistione fra sacro e profano come spesso accade nelle nostre campagne dove culture, storie e credenze si sovrappongono nel corso dei secoli negli usi e costumi della gente.

Le Ostie Chjene di Monte Sant’Angelo sul Gargano

Accade per esempio in Puglia nel Comune di Monte Sant’ Angelo (FG), sul Gargano, dove da secoli si tramandano piccoli dolci chiamati in dialetto “ostie chjène”, ostie ripiene, che sono realizzate farcendo due ostie con un ripieno di mandorle tostate, caramellate con zucchero e miele.

La storia delle ostie chjène è legata a quella del Santuario dell’Arcangelo Michele  fatto edificare tra la fine del V e l’inizio del VI secolo per iniziativa dell’allora vescovo di Siponto, Lorenzo Maiorano, intenzionato a estirpare il culto pagano tra gli abitanti del Gargano. Il vescovo donò per l’occasione una immagine dell’Arcangelo Michele che fu accompagnata subito da fatti miracolosi e apparizioni che diedero origine al culto dell’Arcangelo Michele venerato in questa fase storica, come il guaritore delle malattie e colui che presenta le anime dei defunti al trono divino. Famosa la cosiddetta “stilla”: un’acqua miracolosa che, secondo i racconti, stillava dalle rocce della caverna e guariva ogni sorta di mali.

Il santuario era meta di incessanti pellegrinaggi e le suore del convento delle monache Clarisse di Trinità di Santa Chiara di Monte di Sant’Angelo, all’interno del famoso monastero si occupavano della refezione e della preparazione delle ostie per i pellegrini che si comunicavano implorando grazie dall’Arcangelo.  

Una tradizione dolciaria nata nei conventi in Puglia, Molise, Toscana e Sicilia

Si racconta che, mentre alcune monache preparavano l’impasto per le ostie della Comunione, alcune mandorle tostate scivolarono in una ciotola di miele caldo. Una di loro se ne accorse all’istante e non avendo nulla a portata di mano per raccoglierle pensò bene di servirsi di due pezzi di ostie, ma le mandorle ricoperte di miele si rattaccarono immediatamente alle ostie formando un unico composto: da qui il nome “ostie ripiene”. E da qui l’idea di distribuire ai fedeli questi deliziosi dolcetti.

L’uso delle ostie farcite è rimasto poi nella tradizione e le famiglie si preparavano le ostie in casa con uno strumento simile a quello usato per le ferratelle abruzzesi ovvero una sorta di pinza di ferro che terminava con due superfici rotonde o quadrate. Gli stampi venivano riscaldati sul fuoco quindi vi si poneva dentro una minima quantità di acqua e farina e premendo si otteneva l’ostia. Spesso era uso delle famiglie far incidere su un lato dello stampo uno stemma, un disegno, il nome per “firmare” le proprie ostie ripiene.

Le ostie con noci, mandorle e miele di Agnone, la città delle campane

Dal Gargano al Molise incontriamo altre ostie prodotte come dolci e distribuite in occasione delle festività natalizie. Bisogna spostarsi ad Agnone la piccola cittadina di poco più di quattromila anime in provincia di Isernia, famosa in Italia e all’estero per l’antichissima Fonderia Marinelli, che produce fin dal medioevo campane di alto pregio destinate a campanili civili e religiosi, luoghi di culto, chiese come la cattedrale della Beata Vergine del Santo Rosario di Pompei e dell’abbazia di Montecassino, ma famosa anche per i suoi richiestissimi confetti ricci.

Anche qui troviamo la tradizione delle ostie ripiene. «Non possiamo definirlo propriamente dolce, le ostie ripiene si avvicinano molto di più a un torrone», ha precisato in una intervista Germano Labate, titolare della pasticceria Gerri di Agnone. E anche in questo caso la storia delle ostie ripiene parte da un convento quello delle suore Clarisse che mettendo insieme gli ingredienti di cui potevano disporre, delle ostie avanzate dalla produzione destinata alle funzioni e poi un po’ di   noci, mandorle e miele realizzarono questo delicato dolce-torrone da offrire ai pellegrini e ai viandanti.

Girando per l’Italia dalla Sicilia alla Toscana si incontrano altri tipi di ostie ripiene che hanno tutte una lunga storia.

Le Copate del Convento di Montecelso a Siena

In provincia di Siena troviamo Il Convento di Montecelso, che custodisce infatti la prima testimonianza scritta sul Panforte. È un documento del 1205 in cui si legge che i contadini avevano l’obbligo di pagare alle suore una tassa consistente in una gran quantità di “pani insaporiti di pepe e miele”, ovvero l’antenato del Panforte che si chiamava Panpepato, a sua volta discendente del più antico dolce senese, ovvero il Pan mielato preparato con farina, acqua e miele con l’aggiunta di frutta. Questa preparazione in primavera e in estate, a causa della presenza della frutta, si ammuffiva e si seccava, acquisendo il tipico sapore asprigno e acido: da qui l’appellativo di “panforte” -Panis fortis-, in quanto in latino “fortis” significa proprio “acido”.

E nella tradizione senese troviamo anche le Copate dolcetti secchi, formati da due cialde o ostie sovrapposte che custodiscono un ripieno di miele, zucchero e mandorle tostate, opera sempre delle monache di Montecelso, anche se sembra che l’idea l’avessero copiata da un altro monastero quello delle suore del Convento di San Baronto a Lamporecchio che per prime avrebbero in realtà avuto l’idea di insaporire le ostie con del miele.

Il termine “copata”, derivato dal latino “copatus” significa “accoppiato”, proprio ad indicare l’impasto racchiuso tra le due ostie.  Ma secondo un’altra teoria l’etimologia proverrebbe dall’arabo “qubbaita”, che vuol dire “dolce mandorlato”, il che fa arretrare la loro origine all’epoca dei primi saraceni, che nel 831 conquistarono Palermo, dove ancora oggi esiste un dolce affine chiamato la Cubbaita, una forma molto primordiale dell’attuale torrone.

Comunque si deve poi a un monaco olivetano l’idea di arricchire le copate con gherigli di noce, o forse mandorle, tostati e triturati, creando un nuovo e gustoso ripieno.

La ricetta delle ostie di Monte Sant’Angelo dello chef Gegé Mangano del ristorante Li jalantuumene

Ingredienti

1/2 kg di farina

1/2 kg di miele

100 g di zucchero

1/2 kg di mandorle (o noci) tostate

cannella in polvere

1 limone

Preparazione

Per quanto riguarda le ostie fare una pastella mescolando acqua e farina un filino d’olio. Procurarsi il tipico ferro, versare una piccola quantità di pastella sul ferro, schiacciare e porre sul fuoco fino ad ottenere le cialde.

Per quanto riguarda invece il ripieno si mettono a tostare delle mandorle sul fuoco poi a mano a mano si aggiungono il miele, lo zucchero, lasciando cuocere a fuoco lento.

Quindi procedere aggiungendo della cannella, la buccia di limone grattugiata oppure di arance, l’importante che siano agrumi per dare al composto un  aroma e la giusta acidità e mescolare ancora per poco.

Mettere un’ostia su un piano di legno o di marmo, versarvi sopra il composto e coprire con un’altra ostia. Per comprimerle e si mettono sopra dei pezzi di marmo o dei pesi.

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