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Le minoranze linguistiche sono una ricchezza per l’Italia ma la legge le tutela poco e male

Il glottologo Daniele Vitali interviene su un tema poco dibattuto, ma che indubbiamente contribuisce a caratterizzare, anche culturalmente, la storia nazionale. La presenza di lingue minoritarie in Italia è infatti una delle testimonianze più dense di significato della ricchezza della stratificazione della civiltà che si è sviluppata nel corso dei secoli nella penisola italiana

Le minoranze linguistiche sono una ricchezza per l’Italia ma la legge le tutela poco e male

È un po’ come la cucina del nostro paese la cui diversità e varietà, che la rende tra le più apprezzate nel mondo, rispecchia stili di vita e tradizioni di una terra con una articolazione ampia e capillare. In generale le lingue e i dialetti non sono mai prive di cultura, tutt’altro ne sono proprio l’espressione più evidente. La loro preservazione è quindi un atto che la comunità deve riconoscere come una delle sue priorità.

Così, mentre si parla d’inserire nella Costituzione l’altrimenti insospettabile notizia secondo cui l’italiano è la lingua ufficiale dell’Italia, la legge per la tutela delle minoranze linguistiche, prevista proprio dal dettato costituzionale, è applicata poco e male.

Daniele Vitali, che sta preparando un libro sull’argomento per goWare che ne spiega la ragione in questo intervento dedicato all’attenzione riservata dai costituenti alla questione delle minoranze fino alla promulgazione della legge di attuazione n 482 del 1999, venuta dopo oltre mezzo secolo.

La ragione della tutela costituzionale delle minoranze linguistiche

Tra i Principi fondamentali della nostra Costituzione si trova l’articolo 6, il quale recita: “La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”.

Quella disposizione fu prevista dai costituenti per evitare che si ripetessero le persecuzioni vissute dalle minoranze sotto il fascismo, quando le lingue diverse dall’italiano furono proibite nell’uso pubblico e persino in quello privato, con tanto di olio di ricino o di macchina per chi insegnava le lingue minoritarie di nascosto, mentre il regime realizzava spostamenti di popolazioni finalizzati a mettere in minoranza il tedesco in Sudtirolo e il francese in Valle d’Aosta e italianizzava a forza nomi e cognomi, compresi quelli dei morti, ai quali furono tradotte le pietre tombali. Intanto, nella Risiera di San Sabba vicino a Trieste, le principali vittime dei forni crematori erano sloveni e croati.

La tutela delle minoranze aveva anche lo scopo di risolvere le controversie territoriali lasciate aperte dalla Seconda guerra mondiale, e in questo senso doveva interagire con l’istituzione delle regioni a statuto speciale.

I ritardi nell’attuazione

In realtà, però, per decenni la tutela delle minoranze linguistiche in Italia non è stata affidata a una legge attuativa dell’articolo 6, ma a disposizioni di altro tipo e geograficamente limitate: il riconoscimento del francese in Valle d’Aosta (dov’era storicamente la lingua di cultura della popolazione parlante dialetti francoprovenzali) è dovuto a un decreto del 1945 emanato per evitare l’annessione da parte della Francia ai danni dell’Italia sconfitta; la tutela del tedesco in provincia di Bolzano è uno sviluppo in più tappe dell’accordo De Gasperi-Gruber siglato nel 1946 con l’Austria per sventare la perdita del Sudtirolo; in quel complicato iter fu riconosciuta anche la lingua ladina, con uno status peraltro subordinato; infine, l’apertura di scuole in lingua slovena nelle province di Gorizia e Trieste è dovuta a trattati internazionali, rispettivamente il trattato di pace del 1947 e quello per l’assegnazione di Trieste all’Italia nel 1954.

Come si vede, queste decisioni di tutela delle minoranze riguardavano esclusivamente regioni autonome confinarie con altri Stati, e lasciavano fuori i restanti territori in cui si parlano le stesse lingue (francoprovenzale in alcune valli del Piemonte nonché, per emigrazione storica, in due comuni della provincia di Foggia, tedesco qua e là in provincia di Trento e in isole linguistiche di Valle d’Aosta, Piemonte, Veneto e Friuli-Venezia Giulia, sloveno in provincia di Udine, e per finire il ladino fuori dal Sudtirolo).

Rimanevano poi completamente fuori il friulano e il sardo (nonostante lo statuto speciale delle rispettive regioni), l’occitano o provenzale in alcune valli piemontesi, l’albanese sparso in tutte le regioni del Sud, il greco nel tacco e nella punta dello Stivale, il croato in Molise, il catalano ad Alghero.

Un lungo iter

Non che non ci fossero mai state proposte di legge per dare finalmente attuazione organica all’articolo 6 della Costituzione: tali proposte si erano però sempre incagliate nelle travagliate vicende delle nostre legislature, notevolmente tempestose e spesso di breve durata.

Per avere la normativa tanto attesa si dovette aspettare la legge n. 482 del 15 dicembre 1999, “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”, il cui testo si trova qui.

La legge fu approvata alla fine del primo governo D’Alema da una maggioranza di centro-sinistra cui si aggiunse la Lega Nord, e a cui si opposero fieramente gli schieramenti nazionalisti come Alleanza Nazionale e il Partito Repubblicano Italiano.

Per rispondere alle polemiche secondo cui lo Stato non doveva “concedere privilegi” a “dialetti privi di cultura” scese in campo un gruppo di intellettuali capeggiato da Umberto Eco e Tullio De Mauro, i quali pubblicarono una dotta lettera sui giornali mostrando l’inconsistenza delle obiezioni alla legge.

Il contenuto della 482

Stabilito all’articolo 1 che “La lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano”, l’articolo 2 della legge sancisce che il nostro paese tutela “la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo”.

L’articolo 3 prevede che la delimitazione del territorio cui si applica la legge sia demandata alle autonomie locali: a decidere in materia è il “consiglio provinciale, sentiti i comuni interessati, su richiesta di almeno il quindici per cento dei cittadini” oppure “un terzo dei consiglieri comunali dei medesimi comuni”. Un punto gravido di conseguenze, come vedremo più sotto.

L’articolo 4 prevede che, nei comuni di cui all’articolo 3, si usi anche la lingua minoritaria accanto all’italiano nelle scuole materne, elementari e medie, ma a discrezione dei genitori. L’articolo 6 contiene blande disposizioni per le università, l’art. 9 afferma che nei comuni interessati “è consentito, negli uffici delle amministrazioni pubbliche, l’uso orale e scritto della lingua ammessa a tutela” (questa norma secondo cui l’uso orale di una lingua diversa dall’italiano è consentito ha un vago sapore paradossale: forse che sotto la Repubblica era mai stato proibito?).

All’art. 10 leggiamo che i comuni di minoranza “possono deliberare l’adozione di toponimi” nella lingua minoritaria, “in aggiunta ai toponimi ufficiali”. L’art. 12 contiene disposizioni in materia di servizio pubblico radiotelevisivo, d’interesse tutto sommato ridotto; l’art. 18 salvaguarda il trattamento eventualmente più favorevole alle minoranze nelle regioni a statuto speciale, e l’ultimo, il 20, quantifica l’onere finanziario per l’applicazione della legge, tenuto conto del disposto degli articoli 5, 9 e 15.

Di questo disposto ci occupiamo nella seconda parte di questo articolo la prossima domenica.

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