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Le 4 sfide che attendono l’Europa: commercio, energia, migranti e terrorismo

Il TTIP e la globalizzazione, l’energia e i cambiamenti climatici, i conflitti e le migrazioni, l’incubo del terrorismo e la ricerca della sicurezza: sono le quattro principali sfide che attendono l’Unione europea nel 2016 – Impegni difficilissimi ma che possono essere affrontati in modo vincente solo con più integrazione tra gli Stati membri dell’Unione

Le 4 sfide che attendono l’Europa: commercio, energia, migranti e terrorismo

Le sfide esterne alla prosperità e alla sicurezza dell’Unione sono molteplici. Per tutte, le risposte più efficaci non possono prescindere da un rafforzamento dei processi di integrazione e da azioni unitarie.

Commercio e globalizzazione. Il TTIP

Senza ordine di priorità, una prima sfida è quella di garantire uno sviluppo del commercio internazionale e dei flussi di investimenti funzionale alla crescita che preservi però gli standard europei in materia di tutela della salute, dell’ambiente,  delle condizioni di lavoro, della qualità e tracciabilità dei prodotti e della proprietà intellettuale su cui questa si basa.

   

Cruciale a questo riguardo è il TTIP dal quale si attende un aumento del PIL per l’UE di 0,5 punti a regime, mentre dall’insieme degli accordi per i quali sono stati conclusi o avviati negoziati (oltre agli USA il Canada, la Cina, il Giappone, la Corea del Sud, la Russia, i paesi dell’ASEAN, il Mercosur e la Comunità Andina), la previsione forse troppo ottimistica della Commissione è di oltre il 2%.

Per l’Italia, paese esportatore, i vantaggi rispetto soprattutto agli Stati Uniti potrebbero essere ancora maggiori se fossero adeguatamente salvaguardati e promossi alcuni nostri specifici interessi.

Su un piano politico più generale il TTIP è importante anche per rafforzare il rapporto transatlantico che resta essenziale per le capacità di incidenza e il peso politico sia degli Stati Uniti che dell’Europa in un mondo nel quale gli equilibri economici e in prospettiva politici e poi militari si spostano verso altri attori.Il negoziato è difficile e complesso e su di esso, accanto a genuine preoccupazioni su questioni fondamentali per la nostra economia incidono disinformazioni di vario tipo nell’una e nell’altra sponda dell’Atlantico.

Sta di fatto che sono forti le diversità di posizioni su molti punti tra noi e gli americani, tra i diversi paesi europei e tra i diversi settori produttivi.

Energia e cambiamenti climatici

Sul piano della dimensione esterna, anche per i suoi riflessi geopolitici e sulla sicurezza, di particolare rilievo è la politica di diversificazione geografica degli approvvigionamenti.Questo vale soprattutto per il gas, ancora in gran parte trasportato via tubo con conseguenti rigidità delle provenienze e dei prezzi rispetto all’LNG le cui modalità di trasporto sono analoghe a quelle del petrolio. Attualmente l’UE importa il 53% dell’energia che consuma. Questa è complessivamente pari a 1.200 milioni di equivalenti di tonnellate di petrolio l’anno, in diminuzione nel corso degli ultimi anni a causa della crisi e dell’efficientamento energetico, mentre quella degli Stati Uniti e’ di circa 1.550 Mtoe e quella mondiale di 9.000 Mtoe.

In particolare la dipendenza europea dal petrolio importato è di circa il 90% e quella di gas di circa il 70%, percentuale questa destinata ad aumentare, seppure in un quadro complessivo di diminuzione dei consumi, in conseguenza dell’esaurimento delle riserve del Mare del Nord e delle difficoltà di attivare quelle dell’Adriatico che sono comunque comparativamente modeste.Del gas importato il 39% proviene dalla Russia, aumentato dopo il primo raddoppio del North Stream, il 33% dalla Norvegia destinato a diminuire, il 22% dal Nord Africa di cui il 20% dall’Algeria (per l’Italia quasi il 40% tra Algeria e Libia) e il resto in forma liquefatta da altri paesi, soprattutto da Qatar e Nigeria.

Va notato che la dipendenza russa dalle esportazioni verso l’Europa è di oltre il 70% e quindi molto maggiore dell’inverso, che una diversione verso la Cina non sarà facile e non potrà che essere parziale, e che la dipendenza esportativa del Nord Africa dall’Unione Europea, se si considera l’insieme dei  prodotti energetici, è del 75% contro il 15%.La quota russa, malgrado le previsioni oggi messe in discussione di un ulteriore aumento della capacità del North Stream, diminuirà nella misura in cui aumenteranno le capacità di rigassificazione e di interconnessione (soprattutto tra la Spagna e la Francia), si renderanno disponibili le produzioni di gas liquefatto dall’Egitto e dal resto del Mediterraneo orientale, dal Mozambico (la cui parte più rilevante andrà comunque verso l’Asia) e dagli Stati Uniti, ed inoltre si realizzerà il gasdotto TAP dall’Azerbaijan che in prospettiva potrà utilizzare anche gas iraniano e iracheno quando questo si renderà disponibile.Ma a questo scopo è essenziale la stabilizzazione dell’area mediorientale.

Il crescente ricorso alle fonti rinnovabili costituisce un ulteriore fattore di riduzione di tali dipendenze, oltre ad essere un aspetto fondamentale della politica di contrasto ai cambiamenti climatici e parte di quella “green economy” destinata ad essere un cruciale fattore di sviluppo nei prossimi decenni.La sfida dei cambiamenti climatici, che rischia di pregiudicare il futuro dell’umanità, è affrontata con un ruolo di guida da parte dell’UE.

Nella preparazione e nel corso della Conferenza di Parigi l’UE è stata in prima fila nel sostenere il carattere vincolante delle limitazioni delle emissioni per tutti, sia pure in modo modulato, flessibile e aggiustabile nel tempo. 

Il contrasto dei cambiamenti climatici è cruciale, nel medio e lungo termine, anche riguardo all’altra grande sfida costituita dalle migrazioni.

Conflitti e migrazioni

L’aumento della pressione migratoria registrato soprattutto quest’anno è determinato da vari fattori. Il primo è costituito dai conflitti in Medio Oriente e da quelli a questi collegati nella fascia saheliana, dal Nord della Nigeria alla Somalia, che ha alimentano i flussi di profughi prima sulla rotta mediterranea attraverso la Libia, che ha coinvolto in particolare l’Italia, e poi attraverso quella balcanica via Turchia e Grecia. Il secondo, e di natura più strutturale, è dovuto ai grandi differenziali economici e demografici tra Europa e Africa e anche tra Europa e Asia meridionale, con il corollario di domanda di immigrazione che considerati tali differenziali sarà sempre più presente in Europa ma che ora è arrestata o comunque attenuata a causa della stagnazione europea con le conseguenze che si manifestano sulle percezioni e sulla crescita dei movimenti xenofobi e populisti, espressione di un disagio dovuto ad altre cause, tra le quali primeggia la prolungata crisi economica e occupazionale con le sue conseguenze sulle garanzie sociali, che però una immigrazione non controllata accentua.

La questione migratoria ha messo a nudo diversità ed egoismi miopi degli stati membri che rischiano di pregiudicare la tenuta stessa dell’Unione a partire da aspetti fondamentali come la libertà di circolazione e l’universalità del sistema di welfare.

Le iniziative avviate per il superamento del regolamento di Dublino e la definizione di un diritto di asilo europeo fanno fatica ad andare avanti e lo stesso sistema di Shenghen è messo in pericolo soprattutto dopo l’attacco terroristico in Francia.Per quanto riguarda le aree di conflitto e laddove vi sono gravi situazioni di oppressione come in Eritrea è essenziale contribuire al loro superamento attraverso azioni diplomatiche svolte con determinazione che nell’ambito delle Nazioni Unite e con il concorso dell’Unione Africana non escludono in alcuni casi lo strumento militare.

 L’avvio del processo negoziale di Vienna sulla Siria e le convergenze registrate al Consiglio di Sicurezza, con il coinvolgimento di tutti gli attori regionali ed esterni e la previsione di un cessate il fuoco e della definizione di un nuovo assetto istituzionale, sembrano finalmente aprire spiragli positivi in questa direzione anche se nelle vicende mediorientali i diversi protagonisti e comprimari perseguono con il pretesto della lotta all’ISIS propri interessi spesso in contradizione tra loro la cui composizione è estremamente complessa.

Riguardo ad altre aree, soprattutto in Africa, occorre una politica di intese a livello europeo con i paesi di provenienza, nei quali le rimesse degli emigranti sono spesso tra i maggiori fattori dello sviluppo, e con quelli di transito, dirette a scoraggiare e per quanto possibile fermare le emigrazioni clandestine gestite da organizzazioni criminali.

 A questo scopo occorrono interventi diretti al miglioramento delle condizioni di vita, anche se sappiamo che in una prima fase questo ha effetti contrastanti sulle aspirazioni all’emigrazione, ma al tempo stesso a garantire canali controllati di migrazioni legali senza i quali è estremamente difficile avere specularmente una piena collaborazione nei rimpatri di chi entra irregolarmente e nel controllo dei confini.

La Dichiarazione politica e il Piano d’azione adottati dal vertice euro-africano de La Valletta mostrano una piena consapevolezza dei problemi sul tappetto e della direzione verso cui muoversi: dal sostegno da fornire ai paesi di origine e di transito nei settori e con gli scopi sopra indicati, alla previsione di canali di immigrazione legali, all’assistenza e all’incentivazione dei rimpatri attraverso aiuti individuali e alle comunità in cui avviene il rientro. Ma il finanziamento finora previsto di 1,8 milioni di euro da parte della Commissione e di una somma analoga da parte degli Stati membri appare del tutto insufficiente rispetto alla magnitudine dei problemi e all’incentivazione dei paesi coinvolti.Basti pensare che nel 2014 le rimesse degli emigranti hanno portato in Africa circa 65 miliardi di dollari, contro circa 75 miliardi in investimenti diretti e 55 miliardi di aiuti allo sviluppo bilaterali e multilaterali.

Sfida terrorista ed esigenza di maggiore integrazione nella sicurezza

A questa sfida si è aggiunta quella sempre più impellente del terrorismo collegato all’affermazione dell’ISIS nell’area Mesopotamica e da li alla diffusione di forze ad esso legate nel resto del Medio Oriente, in Africa e in Asia con capacità di reclutamento e di intervento anche in Europa come abbiamo visto a Parigi e a Bruxelles .

Tutto ciò non può essere affrontato che sul piano europeo con strumenti comuni e sempre più integrati come si sta facendo per le operazioni di soccorso in mare e per il contrasto degli scafisti.Accanto ad una piena collaborazione tra le strutture di intelligence, di polizia e giudiziarie e ad un efficacie controllo delle frontiere esterne occorre realizzare una effettiva politica estera e di sicurezza comune, rafforzando il ruolo dell’Alto Rappresentante, e una difesa comune che attraverso le iniziative di “pooling and sharing”  insite in quanto previsto dai trattati e affermato da numerose dichiarazioni del Consiglio Europeo, renda più efficaci le nostre forze armate e ne riduca le duplicazioni e gli sprechi.

E’ comunque chiaro che per realizzare una effettiva unione in materia di politica estera e di difesa occorrerà superare le velleità di chi, ma non solo, in virtu’ della propria appartenenza al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e del possesso di una forza nucleare resiste, sia pure con intensità diverse, ai processi di integrazione e di sviluppo comune delle capacità militari sostenute da una base tecnologica e industriale più integrata, sostenibile, innovativa e competitiva.

Dato che è impossibile allo stato avere su questa prospettiva un consenso del Regno Unito, e se la Francia vuole muoversi in questa direzione come ha diverse volte affermato ma mantenendo finora ambiguità nei comportamenti effettivi, occorre che chi lo vuole partecipi all’auspicata graduale integrazione delle forze armate e degli apparati di intelligence, utilizzando intanto lo strumento della cooperazione strutturata permanente previsto dal Trattato di Lisbona da parte di coloro che lo vogliano, lasciando la porta aperta a coloro che in una prima fase vogliano invece rimanerne fuori.

Riguardo alla difesa e alla politica estera, cosi come per altri temi qui trattati e per molti altri, la riconsiderazione del funzionamento dell’Unione richiesta dal Governo britannico in vista dell’annunciato referendum sull’appartenenza all’UE offre l’opportunità di avviare processi di integrazione differenziata e a cerchi concentrici in diversi campi verso l’obbiettivo di una unione politica con una progressiva condivisione di sovranità di tipo federale e quindi con un adeguato proprio bilancio e una piena legittimazione democratica assicurata da maggiori poteri al Parlamento Europeo.

Ciò può essere assicurato in questa fase soltanto nell’Eurozona o comunque tra i paesi che essendo parte di tutti gli acquis dell’Unione vogliano proseguire su questa strada.E’ d’altra parte in questo contesto che va considerata la prospettiva di allargamenti del cerchio esterno ai Balcani ed eventualmente alla Turchia e ad altri paesi europei. Maurizio Melani

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