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“La Grande illusione” della guerra: torna in libreria il libro con cui Norman Angell vinse il Premio Nobel

La tesi centrale del libro che vide la luce nel 1909 è che nell’economia e nelle società moderne la guerra danneggia tanto i vincitori che i vinti. Nello schema di Angell, la prosperità e il benessere di un Paese non dipendono in alcun modo dalla sua potenza politica. Dunque, il ricorso alla guerra è un atto inutile e totalmente dannoso per chi lo intraprende e per chi si trova a subirlo

“La Grande illusione” della guerra: torna in libreria il libro con cui Norman Angell vinse il Premio Nobel

Torna disponibile al lettore italiano, in tutti i formati, un libro che ha avuto una grandissima fortuna tra le due guerre e che ha portato il suo autore, il giornalista e attivista inglese Norman Angell, a ottenere il Premio Nobel per la pace nel 1933. Si tratta di un libro che non ha perduto la sua enorme attualità.

Si tratta de La Grande illusione che goWare e Tramedoro hanno ri-pubblicato in una nuova edizione con un’ampia guida alla lettura di Guglielmo Piombini e un saggio di Giuliano Procacci che ricostruisce le circostanze e il dibattito che portò all’assegnazione del premio Nobel del 1933 a Norman Angell. 

La prima edizione del libro risale al 1909 e fu un immediato successo a tal punto da essere tradotto in 25 lingue tra cui l’italiano. In Italia uscì nel 1913 per i tipi di Enrico Voghera Editore, a cura di Arnaldo Cervesato. 

La tesi centrale del libro è che nell’economia e nelle società moderne la guerra danneggia tanto i vincitori quanto i vinti.

Questo per una semplice ragione. Nel capitalismo moderno le economie sono a tal punto interdipendenti da rendere il mondo un’unità organica e non più la somma di tante parti che condividono uno spazio che tendono a contendersi.

Scriveva Angell, già nel lontano 1909, che uno starnuto a New York diventava un raffreddore a Londra e un’influenza nel resto del mondo.

Più semplicemente, nello schema di Angell, il ricorso alla guerra è un atto inutile, superfluo, totalmente dannoso per chi lo intraprende e per chi si trova a subirlo.

Abbiamo chiesto a Guglielmo Piombini, autore dell’ampia guida alla lettura al testo di Angell, di esporre per i nostri lettori le tesi salienti del libro. Il testo che segue le espone con molta chiarezza.

Le tesi del libro in punti:

  • La ricchezza di un paese non dipende dalla sua potenza politica o militare.
  • Data la stretta interdipendenza economica che si è creata tra le nazioni, la guerra è diventata anacronistica.
  • È una “grande illusione” che un paese possa diventare più ricco grazie a una guerra vittoriosa
  • I conflitti militari sconvolgono il sistema finanziario e creditizio, danneggiando tanto il paese vincitore quanto il paese vinto.
  • Un paese che ne distrugge o sottomette un altro distrugge anche il proprio mercato.
  • Il sistema bancario rappresenta il sistema nervoso dell’organismo economico mondiale.
  • I piccoli paesi privi di potere politico sono più prosperi delle grandi potenze.
  • La tendenza generale dell’umanità è quella di sostituire il conflitto con la cooperazione volontaria.

L’inutilità della guerra

Una delle convinzioni erronee più radicate degli uomini all’inizio del XX secolo, osserva Norman Angell, è quella secondo cui la ricchezza economica di un paese dipende dalla sua potenza politica. Molti inglesi, ad esempio, sono convinti che la forza dell’impero britannico sia alla base del suo successo commerciale, così come molti tedeschi credono che lo sviluppo industriale della Germania sia dovuto ai suoi recenti successi militari.

Anche i pacifisti spesso non contestano l’idea che la guerra sia vantaggiosa. È per questo motivo che la propaganda per la pace ha fallito e che la pubblica opinione in Europa, lungi dal frenare nei propri governi la tendenza ad aumentare gli armamenti, li spinge a spese sempre maggiori. Eppure, scrive Angell, si tratta di un errore pericolosissimo che, se non sradicato, può mettere a repentaglio l’esistenza della nostra stessa civilizzazione.

In passato i saccheggi e le conquiste militari potevano migliorare le condizioni di un paese, ma oggi la situazione è completamente mutata. Data la stretta interdipendenza commerciale, la distruzione dell’economia di una nazione nemica avrebbe effetti disastrosi anche sull’economia della potenza conquistatrice. 

L’interdipendenza delle società

Non bisogna mai dimenticare che ciascun paese produttore, oltre ad essere un concorrente ed un rivale, è un cliente e un mercato. Se una nazione distrugge completamente, per via militare, le industrie di un’altra nazione, rovina il suo stesso mercato effettivo o potenziale; ciò equivarrebbe commercialmente ad un suicidio.

I tedeschi non otterrebbero nessun vantaggio neanche se schiavizzassero l’intero popolo inglese. Da dove proviene infatti la ricchezza inglese che tanto seduce i tedeschi? Essenzialmente dai profitti delle sue attività economiche.

E come potrebbero esserci ancora tali profitti, se la popolazione è resa schiava, e non può più consumare e produrre liberamente? Se gli aguzzini tedeschi vogliono prendersi tali utili, spiega Angell, devono permetterne altresì la produzione. Se la permettono, devono lasciare che la popolazione inglese continui a vivere esattamente come prima. 

Una globalizzazione ante litteram

Lo sviluppo del commercio internazionale e dell’interdipendenza economica tra le nazioni hanno dunque reso la guerra del tutto anacronistica. Questa interdipendenza nasce dallo sviluppo dell’economia, degli scambi, della finanza, del credito e delle comunicazioni, che fanno sì che una perturbazione a Londra si senta quasi immediatamente a New York o a Berlino.

In particolare, spiega Angell, l’organizzazione bancaria fornisce all’intero organismo economico internazionale i nervi sensori, che rendono quasi immediate le reazioni dei mercati agli eventi politici. 

Quello che è evidente a un banchiere o a un uomo d’affari, che sottrarsi ai propri impegni o tentare un saccheggio finanziario è una stupidaggine che equivale al suicidio commerciale, dovrebbe diventare ovvio anche per i governanti. Lo sviluppo commerciale, quindi, rende manifesta una profonda verità: che la base effettiva della moralità sociale coincide con il proprio interesse.

Il colonialismo e l’imperialismo sono superati

La forza militare, quindi, manca sempre più al suo scopo ed è ormai diventata completamente inutile. Se al principio della storia uno Stato razziatore poteva infliggere ad un altro un gran danno senza risentirne, oggi uno Stato non può causare nemmeno un danno lontanamente paragonabile a quello dei tempi antichi, senza provocare contro sé stesso una reazione disastrosa. 

Quattro secoli fa l’Inghilterra avrebbe potuto vedere annientati tutti i suoi rivali senza alcun suo detrimento; oggi un fatto del genere significherebbe la più terribile carestia.

Si possono riassumere tutte queste considerazioni in una sola: che la sola politica che un conquistatore possa seguire è quella di lasciare il territorio in completo possesso degli individui che lo popolano. Considerare sinonimo di arricchimento per una nazione la conquista di nuovi territori è dunque un errore di logica o un’illusione ottica. Per gli abitanti di un paese non c’è dunque nessun modo di trarre un vantaggio economico dal possesso di una colonia o di un impero.

La politica di potenza

Gli “esperti” spiegano però che la sicurezza militare e quella commerciale sono una cosa sola, e che gli armamenti sono giustificati dalla necessità di garantire il commercio; affermano che un paese privo di una forza militare che serva di base alle trattative diplomatiche nelle consulte d’Europa si trova esposto a grandissimi svantaggi.

Eppure, osserva Angell, quando un capitalista studia la questione da un punto di vista esclusivamente finanziario, e deve decidere se investire i propri capitali nei grandi Stati, con tutto il loro apparato di eserciti colossali e di marine favolosamente costose, oppure nei piccoli Stati, i quali non dispongono di alcuna forza militare, egli dà la preferenza allo Stato piccolo e indifeso.

Guardando alle quotazioni, gli investimenti nei titoli belgi, norvegesi, olandesi e svedesi, nazioni imbelli e alla quotidiana mercé dei loro colossali vicini, sono del dieci o del venti per cento più sicuri di quelli della potente Germania e dell’impero russo. 

La prosperità dei piccoli Stati

La ragione è che nel mondo moderno la ricchezza, la prosperità e il benessere di un paese non dipendono in alcun modo dalla sua potenza politica o dalla sua estensione territoriale. Lo dimostra il fatto che le nazioni minori come la Svizzera, il Belgio, l’Olanda, la Danimarca o la Svezia, le quali non esercitano alcun potere politico, godono di un livello di prosperità commerciale e di benessere sociale pari o superiore a quello delle grandi nazioni d’Europa, come la Germania, la Russia, l’impero austro-ungarico o la Francia.

Il cittadino olandese, il cui governo non possiede alcuna forza militare, è in media più ricco del cittadino tedesco, il cui governo possiede un esercito di due milioni di uomini, e molto più ricco del cittadino russo, il cui governo ne tiene circa quattro milioni sotto le armi. 

Il commercio e la prosperità economica si conquistano semplicemente producendo beni di maggior qualità o di minor prezzo rispetto ai concorrenti, mentre la presenza di una potente marina non può in alcun modo aiutare le esportazioni o assicurare la conquista di un mercato. La Svizzera non possiede nemmeno una nave da guerra, ma le sue produzioni spesso scacciano quelle dei produttori inglesi. 

Altre giustificazioni non economiche della guerra

Quando non riescono a confutare gli argomenti economici, i sostenitori della guerra la difendono su basi psicologiche. La guerra, dicono, è nella natura dell’uomo, che sempre l’ha fatta e sempre la farà. In altre occasioni i militaristi sostengono che le nazioni non si fanno la guerra per ragioni economiche, ma per ragioni spirituali e ideali, oppure per motivazioni irrazionali riguardanti la vanità, il prestigio o il desiderio di primeggiare. Tuttavia, replica Angell, non è per niente vero che la guerra nasca da irrefrenabili impulsi aggressivi insiti nell’uomo, dato che quasi sempre richiede una lunga preparazione.

Al contrario, l’evoluzione storica dell’umanità vede il passaggio dal metodo dello sterminio dei vinti a quello dell’imposizione dei tributi. Oggi l’umanità si sta accorgendo che anche questo sistema costa più di quel che rende, perché la spesa per estorcere denari coi mezzi militari eccede l’importo della somma estorta. Il risultato finale è l’abbandono completo della forza in favore della cooperazione volontaria reciprocamente vantaggiosa. Ogni passo in avanti nella cooperazione umana è dunque sinonimo di civiltà.

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