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Il Moco delle valli della Bormida: il legume antico che non teme la siccità recuperato da una manciata di semi di un anziano della zona

Entrato a far parte dei Presidi Slow Food. Consigliato come per la cicerchia in oligoterapia nutrizionale, nei disturbi della memoria, di affaticamento cerebrale, astenia generale, negli studenti, e negli anziani. Ottimo per vellutate e zuppe

Il Moco delle valli della Bormida: il legume antico che non teme la siccità recuperato da una manciata di semi di un anziano della zona

Il moco delle valli della Bormida diventa Presidio Slow Food. Un legume minuscolo e antico che fino a pochi anni fa era praticamente scomparso, poi nel 2011 è tornato ad abitare gli orti di un gruppo di produttori liguri, anche grazie a una rara proprietà: la capacità di crescere in scarsità di acqua. Una peculiarità quanto mai adatta ai tempi attuali in cui il cambiamento climatico sta mettendo in difficoltà diverse colture.

Ma questa varietà di cicerchia è molto apprezzata anche per le sue proprietà nutrizionali: ricco di proteine ed amidi, vitamina B1, B2, e molto calcio, fosforo e fibra alimentare viene consigliato come per la cicerchia in oligoterapia nutrizionale, nei disturbi della memoria, di affaticamento cerebrale, astenia generale, negli studenti, e negli anziani. È ottimo per preparare vellutate e zuppe.

La storia del moco delle valli della Bormida

Una lunga storia, quella del moco: nel savonese, al confine tra le Alpi e gli Appennini, si ipotizza fosse coltivato già nell’Età del Bronzo, quattromila anni fa. Anche se le prime notizie scritte, contenute nell’Archivio di Stato della Repubblica di Genova, risalgono alla fine del ’700. Come per molte colture del territorio abbandonate, era l’alimento dei contadini, specialmente negli anni di carestia. Con lo sviluppo industriale del territorio i pochi agricoltori rimasti scelsero di produrre legumi dalle rese maggiori, che richiedono meno lavoro manuale, come piselli e fagioli.

Come è fatto il moco? E come si coltiva?

Rispetto alla cicerchia classica, il moco è davvero piccolo: delle dimensioni tra i 4 e i 6 millimetri. Una pianta resistente ai parassiti e che non soffre i terreni poveri né teme la siccità. “Si seminava, e lo si fa ancora oggi, il centesimo giorno dell’anno, il 10 o l’11 aprile, sessanta giorni più tardi fiorisce e tra la fine di luglio e la metà di agosto si raccolgono i baccelli”, ha spiegato Gianpietro Meinero, segretario della Condotta Slow Food Alta Valle Bormida e referente del neonato Presidio. Ma non è tutto oro ciò che luccica. Il moco “richiede molto lavoro: si semina a mano, si estirpano le erbacce a mano, si raccoglie a mano e non esiste neanche un setaccio che vada bene per tutti i semi, perché hanno dimensioni diverse”, ha concluso Meinero. 

“Così, una volta raccolti i baccelli e lasciati ad asciugare al sole per qualche giorno, la prima domenica dopo Ferragosto la tradizione vuole che i produttori – quelli che per ora hanno aderito al Presidio sono quattro – si riuniscano attorno a un tavolo e li sgranino a mano. «I semi più piccoli, quelli che tendono a spezzarsi, vengono macinati e trasformati in farina, con cui si prepara una deliziosa farinata – ha aggiunto il referente dei produttori, Elvio Bonino –. Gli altri, ideali per le zuppe, li confezioniamo interi in sacchettini”.

Un prodotto di nicchia

La produzione è ancora molto limitata: nel 2022, prosegue Bonino, grossomodo la produzione complessiva si è attestata sul quintale. Ripensando alla situazione di dieci anni prima, quando la coltivazione del moco era praticamente scomparsa, si tratta di un risultato incoraggiante. Ma come ha ritrovato vita? “Nel 2011, un anziano del paese mi ha detto che possedeva ancora qualche centinaio di semi – ha spiegato Meneiro -. Siccome pochi anni prima avevamo avviato con successo il recupero della zucca di Rocchetta, abbiamo pensato di far lo stesso con il moco: abbiamo dato a un gruppo di amici una trentina di semi ciascuno, il necessario per seminare un metro quadrato di terra, affinché li riproducessero. Così, in breve tempo, siamo arrivati al recupero”. Anche se non ancora come una volta, quando gli abitanti di Cairo Montenotte, di Cengio e degli altri paesi della valle Bormida, l’area di produzione di questo prezioso e antico legume, venivano chiamati “mangia mochi”.

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