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Confindustria, gli intrighi della casta romana contro il cambiamento

Dopo aver vanamente tentato di dividere gli industriali lombardi, il vertice di Confindustria sta ancora cercando – con la scusa di Covid-19 – di rinviare l’incoronazione di Carlo Bonomi, malgrado il Presidente di Assolombarda sia accreditato di circa il 70% dei consensi

Confindustria, gli intrighi della casta romana contro il cambiamento

Seppure oscurata dal Coronavirus, la corsa alla presidenza di Confindustria segnerà una svolta decisiva in quella che è stata per molti anni la più autorevole rappresentanza degli interessi industriali del Paese. Partiamo dall’inizio. Nel novembre scorso, con l’improvvida decisione dell’Associazione di Brescia di indicare “a freddo” il proprio Presidente Giuseppe Pasini, si è annunciata una candidatura inventata a tavolino, a dimostrazione che la presidenza confederale non è più (da tempo) un servizio e un onore, ma un’opportunità.

La silenziosa manina romana era scesa in campo affidandosi ai bresciani uniti, dopo anni di feroci divisioni, sul nome di Pasini al solo scopo di prevenire presunte velleità di una rinnovata candidatura da parte di Marco Bonometti. Per la verità, l’iniziativa sostenuta da Vincenzo Boccia e dal suo direttore centrale Marcella Panucci era maturata unicamente per dividere i lombardi decisi, da tempo, a battersi per una candidatura volta ad assicurare un cambiamento radicale della Confindustria. Una candidatura da tutti individuata nel presidente di Assolombarda Carlo Bonomi.

Inconsapevolmente Giuseppe Pasini, sospinto da un pronunciamento tutto casalingo ed incoraggiato da alcuni articoli di stampa sollecitati da interessate agenzie di promozione, si era prestato alle manovre di Vincenzo Boccia e della burocrazia associativa, decisi a dettare loro i tempi del confronto e la scelta della successione. Con la divisione del fronte lombardo la strategia conservatrice della continuità confederale si sono cercate altre candidature, numerose e diversive, in grado di dividere e di confondere ulteriormente gli associati. Così avanti un reggiano, poi un friulano, poi ancora un industriale del legno, poi un pissi pissi su presunte candidature in grado di spiazzare chiunque come quelle di Felice Rocca o di Guido Barilla. Indiscrezioni misurate sulla credibilità di un mattino, ma utili a preparare la corsa ad una candidatura amica, gradita ai vertici di viale dell’Astronomia.

Allo stesso tempo, bisognava “stanare” il silenzioso operare di Assolombarda, cercando di costringerla a passi falsi, persino con la provocazione insistente del confronto sul fatturato d’impresa dei due candidati lombardi. Un giochetto da dilettanti, perché tutti gli addetti ai lavori ben sanno che quello della Feralpi di Giuseppe Pasini è in linea con il fatturato delle altre aziende siderurgiche italiane e quello della Synopo di Carlo Bonomi nella strumentazione medicale è paragonabile ad una media impresa del settore.

Ma tutto questo brontolio serviva a guadagnare tempo e a scaldare i muscoli della vera candidata della continuità confindustriale: la torinese Licia Mattioli, azienda del lusso, da sempre accanto a Vincenzo Boccia come vicepresidente. Mentre Giuseppe Pasini si illudeva appagato dalle interviste, a Roma si lavorava per garantire alla candidatura della Mattioli il consenso politico del Palazzo, capace di indirizzare su di lei il voto delle grandi aziende a capitale pubblico e di rastrellare il voto di alcune associazioni con la promessa di un lauto riconoscimento nelle cariche interne al sistema e in quelle ancor più appetite delle prossime nomine pubbliche. Il messaggio era chiaro: con la nostra scelta non vi sarà nessun cambiamento nel sistema e sarà garantita quella continuità della casta confindustriale da molti anni abituata a spartirsi nomine, incarichi, opportunità di relazioni e, se del caso, in aggiunta, Cavalierati del Lavoro.

Per settimane la fuga orchestrata di notizie sui numeri relativi ai presunti consensi, agli appoggi alle candidature, i testa a testa tra i concorrenti, ha subito un trattamento esclusivamente finalizzato alla costruzione di condizioni utili ad una trattativa centrale e ad una mediazione pilotata dall’alto. C’è voluto il lavoro deciso e discreto dei Saggi, con la chiarezza cristallina del loro verbale, per togliere di mezzo i falsi numeri e le tattiche dilatorie, ristabilendo così il reale peso della volontà e delle scelte imprenditoriali.

Giuseppe Pasini, seppure in ritardo, alla luce dello scarso numero di consensi raccolti, si è ritirato di buon grado con una lettera indirizzata ai soli associati bresciani. Lui che voleva “una Confindustria in grado di dettare l’agenda del Paese” ha riposto in solaio (per la seconda volta dopo il flop di quattro anni fa di Marco Bonometti) la velleità di riprendersi la storia di Luigi Lucchini.

Licia Mattioli viene accreditata dai Saggi poco al di sopra del minimo necessario per l’eventuale ballottaggio e, quindi, pressantemente invitata, a sua volta, ad abbandonare la corsa evitando all’Assemblea una votazione inutile e foriera di ulteriori divisioni.

A Carlo Bonomi si accreditano consensi favorevoli di un ampio 70 per cento del sondaggio. A questo punto tutti ci aspettavamo comportamenti e decisioni in linea con la migliore tradizione dello stile della Casa. Al silenzio operoso di Carlo Bonomi e alla Caprera di Giuseppe Pasini hanno invece fatto riscontro la cocciutaggine di Mattioli, decisa ad andare comunque alla conta, e la patetica uscita di Vincenzo Boccia, che suggerisce un opportuno rinvio della nomina assembleare a data da destinarsi, lasciando nel frattempo a se stesso il compito di dare continuità alla presidenza e soprattutto di stare al tavolo delle trecento nomine pubbliche. Il Corona virus basterà a congelare la situazione e ad allontanare il più possibile la decisa volontà di Bonomi di cambiare Confindustria, i suoi costi, le nomine riservate a sé stessi poco prima delle scadenze dalle cariche associative, le sue liturgie, le sue regole, i suoi privilegi, la sua casta?

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