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Claudio Martelli: “Europa, un New Deal con Draghi presidente”

INTERVISTA A CLAUDIO MARTELLI, già Vicepresidente socialista del Consiglio e ministro della Giustizia – “Per rilanciare l’Europa contro il nazional-populismo occorre un progetto come quello basato sui meriti e i bisogni e ci vorrebbe un presidente della Commissione Ue come Mario Draghi”.

Claudio Martelli: “Europa, un New Deal con Draghi presidente”

“L’Italia avrebbe un candidato formidabile per la futura presidenza della Commissione europea: è il presidente della Bce, Mario Draghi. Ma ci vorrebbe un Governo italiano serio che avesse la saggezza e la forza di candidarlo”. Altro che sovranismo o nazionalpopulismo. L’Italia avrebbe tutta la possibilità di uscire dall’angolo e di fare la sua parte in Europa se solo avesse un Governo in grado di capire e di difendere i veri interessi del Paese anziché sbandare ogni giorno rincorrendo con mosse maldestre l’ultimo voto degli elettori. E’ il pensiero di Claudio Martelli, già Vicepresidente del Consiglio e ministro della Giustizia nella Prima Repubblica, due volte europarlamentare, una delle menti più brillanti del riformismo italiano. Martelli è sceso da tempo dal ring della politica attiva, dove è stato un protagonista di prima grandezza, ma non ha perso la passione e la lucidità per guardare con comprensibile preoccupazione alla triste deriva della politica italiana. FIRSTonline lo ha intervistato alla vigilia delle elezioni europee. 

Martelli, le elezioni europee del 26 maggio non sembrano per nulla eguali alle precedenti. Forse non ci sarà un referendum su Europa sì o Europa no come dice Salvini, ma certamente siamo davanti a un punto di svolta dietro il quale si profila per la prima volta un forte schieramento sovranista e populista, di cui l’Italia è l’epicentro, che battaglierà contro uno schieramento europeista a due velocità, composto da chi difende l’Europa così com’è e da chi vorrebbe riformarla. Tra i tanti motivi che hanno ridotto l’Europa all’attuale stato di crisi, qual è, secondo Lei, quello più scatenante e quello da cui bisogna ripartire per invertire le attuali tendenze regressive e disgreganti? 

“Credo che sia stato devastante il binomio globalizzazione-immigrazione. Non essendo stata governata, la globalizzazione ha esposto l’Europa a una dimensione competitiva, soprattutto con la Cina ma non solo, alla quale non era preparata. A sua volta l’immigrazione, che è la faccia umana della globalizzazione e che in Italia agli inizi degli anni ’90 era stata gestita in modo attivo – con l’istituzione di un apposito ministero, con la legge sul diritto d’asilo e con la legge sulla cittadinanza, a cui mi onoro di aver contribuito in maniera determinante da ministro della Giustizia – è stata trascurata e sottovalutata. Sono stati replicati all’infinito errori su errori con approcci improvvisati e inefficaci e con l’illusione che una comunicazione spregiudicata potesse sostituire una politica intelligente. Un argine democratico all’ondata migratoria è stato alla fine posto dal ministro Minniti sotto i governi Renzi e Gentiloni, ma ormai era troppo tardi per fermare disinformazione e paure. In realtà, la globalizzazione e l’immigrazione potevano e possono essere governate, come ha dimostrato la Cancelliera Merkel in Germania quando ha aperto le frontiere ai profughi siriani ma ha nello stesso tempo assunto 10 mila funzionari pubblici per gestire l’emergenza e l’integrazione. Da dove ripartire oggi? Da una lungimirante visione generale dei problemi e dalla competenza per affrontarli”. 

Che cosa resterà dell’Europa che abbiamo conosciuto come fattore di pace e di benessere se ci sarà un’affermazione sovranista e populista nelle elezioni europee e che speranze ci sono che le forze democratiche ed europeiste la facciano uscire dal torpore e dall’immobilismo? 

“Non so se le forze che affollano il caravanserraglio del nazionalpopulismo e che spesso sono rappresentate da partiti e personaggi pittoreschi e inconsistenti riusciranno ad essere determinanti nel nuovo Parlamento europeo. I segnali di riscossa democratica che affiorano da molti Paesi europei lasciano anzi pensare che il futuro del Vecchio continente sia meno nero di quanto si tema. Bisognerebbe però capire perché, dopo l’ascesa di Trump alla Casa Bianca e dopo Brexit, l’Italia sia più esposta di altri agli sbandamenti sovranisti e populisti e quanto pesi la sua debolezza politica ed economica. La verità è che, in Italia come in Europa, c’è una drammatica mancanza di leadership e che oggi, a ben vedere, in tutta l’Unione europea c’è un solo leader degno di questo nome, che è il presidente della Bce, Mario Draghi, l’uomo a cui è bastato un discorso (“Whatever it takes”) per salvare l’euro. Un Governo italiano lungimirante e davvero attento ai reali interessi del Paese non perderebbe l’occasione di candidarlo, con ottime probabilità di successo, alla presidenza della Commissione europea, ma temo che Matteo Salvini e Luigi Di Maio, affaccendati come sono nelle loro beghe da pollaio, non ci abbiano nemmeno pensato”. 

In realtà, se sul versante nazionalpopulista spicca la miopia disgregante dell’Europa, nel fronte democratico ed europeista domina l’indeterminatezza che si riassume nello slogan “Europa sì, ma non così”. E allora Europa come? Per i veri europeisti non sarebbe ora di gettare il cuore oltre l’ostacolo e di dare l’altolà ai veti del blocco di Visegrad proponendo un’Europa a due velocità in cui finalmente si voti a maggioranza e della quale l’Italia faccia parte entrando nel gruppo di testa? 

“Tutto giusto, ma per fare e vincere una battaglia coraggiosa che punti a riformare l’Europa e a determinare una nuova governance, bisognerebbe partire da un Governo che, a differenza di quello attuale, abbia l’europeismo nelle sue corde. Comunque, quella per una nuova governance per una nuova Europa è certamente una sfida che va raccolta, anche se non è l’unica”. 

Quelle più urgenti quali sono?  

“La sfida per la difesa comune europea, che è diventata più impellente dopo il ricatto Usa sulla Nato e che richiede che l’Europa assuma la leadership e la guida economica dell’Alleanza Atlantica. Poi c’è l’urgenza di una politica economica europea che superi l’austerità a senso unico dei Paesi del Nord e del blocco di Visegrad e le rigidità dei tedeschi e che prema l’acceleratore sullo sviluppo e sugli investimenti in innovazione e infrastrutture in funzione di una maggior crescita dell’economia e dell’occupazione, soprattutto giovanile. Infine, last but non least, c’è la questione della formazione da vincere attraverso una nuova piattaforma Erasmus che si estenda dalle università alla scuola secondaria e che preveda che almeno 1/3 del tempo della formazione dei giovani europei sia speso studiando in altri Paesi dell’Unione europea”. 

Non crede però che, oltre ad un buon programma e a priorità chiare e definite, l’Europa avrebbe  bisogno di trovare un’anima e un progetto che scaldi i cuori, soprattutto dei giovani, e che rilanci la speranza di un futuro migliore. Insomma, un New Deal. L’alleanza tra meriti e bisogni che Lei lanciò all’assemblea socialista di Rimini del 1982 sembra ancor oggi di straordinaria attualità: non potrebbe essere proprio questa la risposta al malessere sociale e politico dell’Italia? 

“Mi fa piacere che ancora oggi ci sia chi riconosce la vitalità di quella intuizione che allora non si realizzò che in piccola parte ma che conferma a tutta la sua attualità per almeno due ragioni. In primo luogo perché il progetto di un’alleanza dei meriti e dei bisogni dà identità a una strategia politica di forte e moderno riformismo, che concilia gli opposti equilibri sociali e politici e che scavalca i tempi. E in secondo luogo perché, non essendo stato pienamente sperimentato, quel progetto conserva la sua forza e la sua attrazione ideale”. 

Perché, pur essendo stato apprezzato da molti, negli anni ’80 il progetto dei meriti e dei bisogni non si realizzò? 

“In politica come nella vita è decisivo il timing e forse aveva ragione Tony Blair che, negli anni 90, mi disse che i laburisti stavano studiando molto attentamente il mio progetto ma che lo ritenevano troppo in anticipo sui tempi, almeno per un Paese come l’Italia, la cui società e la cui cultura politica non erano preparate a raccogliere una sfida rivoluzionaria come quella. Anche Bettino Craxi, che aveva inizialmente appoggiato il progetto e che ai quei tempi parlava sempre di più di lotta alle vecchie e alle nuove povertà, poi finì per non sostenerlo adeguatamente. Però quel sasso lanciato nello stagno qualche frutto lo ha prodotto”. 

Quale? 

“La creazione dei ministeri e le conseguenti politiche delle Pari opportunità, dell’Immigrazione e dei Beni culturali non sono piovuti dal cielo ma sono il frutto di quel progetto. Purtroppo mancò una filosofia politica anti-assistenziale che avrebbe dovuto costituire il motore dell’alleanza tra i meriti e i bisogni. E pesò anche un certo snobismo della sinistra che non aveva pienamente colto lo spessore riformatore di quel progetto e sottovalutava il ruolo centrale della formazione e l’importanza della scuola come ascensore sociale”. 

Oggi una moderna politica dei bisogni da dove dovrebbe partire? Dal Rei o dal Reddito di cittadinanza? 

“Certamente dal Rei, che i governi Renzi e Gentiloni hanno avuto il merito di lanciare ma su cui hanno investito risorse scarse e che non hanno saputo spiegare adeguatamente agli italiani. Al contrario, fa riflettere che un intervento assistenziale che non premia il lavoro, come il Reddito di cittadinanza, sia stato finora richiesto da un numero di cittadini inferiore a quello atteso dai Cinque Stelle, a riprova del fatto che le dimensioni reali della povertà in Italia sono forse minori dei 5 o 6 milioni di cui spesso si parla e che invece la diffusione del lavoro nero è più forte di quanto non si creda”. 

E la valorizzazione dei meriti da dove dovrebbe cominciare? 

“Sicuramente dalla scuola, ma anche dalle fabbriche e dagli uffici attraverso la contrattazione aziendale e la cooperazione tra le parti sociali”. 

Molto dipenderà dall’evoluzione del quadro politico. Secondo Lei, le elezioni europee che effetto avranno sul Governo attuale? Dopo il voto ci sarà la crisi del Governo o si arriverà addirittura alle elezioni anticipate? 

“Difficile fare previsioni. Credo che ci siano il 50% di probabilità che il cemento del potere e delle poltrone porti a confermare la vita, per fittizia che sia, del governo Salvini-Di Maio e un altro 50% di probabilità che, dopo il voto europeo, le attuali alleanze politiche si sbriciolino. Ma quello che né Salvini né Di Maio considerano è la presenza sempre più incombente sulla scena politica italiana di un convitato di pietra che si chiama crisi finanziaria e che, facendo i debiti scongiuri, rischia di essere peggiore di quella dell’estate del 2011. Il fatto che si parli del possibile arrivo in Italia della Troika o dell’adozione di un’imposta patrimoniale sulla ricchezza degli italiani o addirittura della ristrutturazione del debito pubblico sono segnali inquietanti”. 

Di fronte a scenari così problematici il Pd di Zingaretti non tocca palla e non ha ancora trovato il modo di ribaltare il tavolo rafforzando la propria identità riformista. Secondo Lei, l’ipotesi di un’alleanza con i Cinque Stelle sarebbe un’opportunità o un tragico errore per il Pd? 

“Mi sembra significativo che, almeno per questa legislatura, Zingaretti abbia chiuso il discorso escludendo che il Pd possa allearsi con i Cinque Stelle. Il futuro è tutto da scrivere”. 

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