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Svimez: nel 2023 il Mezzogiorno è cresciuto la metà del Centro Nord, al 2080 perderà 8 milioni di residenti

Rapporto Svimez 2023 – Nel 2023 il Mezzogiorno è cresciuto dello 0,4%, contro il +0,8% del Centro-Nord – Sale l’occupazione, ma anche precarietà e povertà -Da autonomia differenziata rischio “frammentazione insostenibile”

Svimez: nel 2023 il Mezzogiorno è cresciuto la metà del Centro Nord, al 2080 perderà 8 milioni di residenti

Nel 2023 il Mezzogiorno è cresciuto dello +0,4%, la metà è del Centro-Nord (+0,8%) nonostante nel rispetto al pre-pandemia la ripresa dell’occupazione si sia mostrata più accentuata nelle regioni meridionali e nel post Covid il Pil sia aumentato del 10,7%. Ma l’allarme è soprattutto sul futuro: entro il 2080 il Sud rischia di perdere 8 milioni di residenti.

Sono questi i dati salienti che emergono dal rapporto 2023 sull’economia e la società del Mezzogiorno presentato oggi da Svimez.

Nel 2023 il Pil del Mezzogiorno è aumentato dello 0,4% 

Secondo i calcoli di Svimez, che confermano le previsioni dell’Istat, nel 2023 il Pil italiano crescerà dello 0,7%, percentuale che rappresenta una media tra il +0,4% del Sud e il +0,8% del Centro-Nord. 

Numeri che ancora una volta mostrano il divario di crescita che da decenni caratterizza il Paese, imputabile almeno per quest’anno soprattutto al calo dei consumi delle famiglie (-0,5%), che non dovrebbe osservarsi nel Centro-Nord (+0,4%). La dinamica sfavorevole per il Mezzogiorno è causata da una contrazione del reddito disponibile delle famiglie meridionali (-2%), doppia rispetto al Centro-Nord come nel 2022. Gli investimenti dovrebbero essere interessati da una dinamica positiva, ma in forte decelerazione rispetto al 2022: +5% dal +9,8 del 2021 nel Mezzogiorno, +3,3% dopo il +9,1 del 2022 nel Centro-Nord.

Il Pnrr evita la recessione al Sud 

E i prossimi anni? L’associazione prevede che il Pil nel 2024 cresca dello 0,7% a livello nazionale (+0,7 al Centro-Nord e +0,6 a Sud) e nel 2025 dell’1,2% (+1,3 al Centro Nord e +0.9% a Sud). Sulla dinamica territoriale del Pil 2024-2025 incidono gli effetti espansivi degli interventi finanziati dal Pnrr. La Svimez ha stimato in 2,2 punti percentuali l’impatto cumulato sul Pil nazionale nel biennio nell’ipotesi di completo e tempestivo utilizzo delle risorse disponibili: +2,5 nel Mezzogiorno e +2% nel Centro-Nord. Secondo le stime, il Pnrr eviterà la recessione al Sud in entrambi gli anni di previsione: –0,6% e –0,7% il Pil del Mezzogiorno nel 2024 e nel 2025 “senza Pnrr”. Anche il Centro-Nord beneficia dello stimolo, grazie al quale l’area evita una sostanziale stagnazione nel biennio: –0,2% e crescita piatta nel Centro-Nord Mezzogiorno nel 2024 e nel 2025 nello scenario “senza Pnrr”.

Sud: nel post-Covid Pil +10,7% spinto dall’edilizia, inflazione pesa su famiglie e salari

Dal futuro al recente passato. Nel biennio 2021-2022, il Pil del Mezzogiorno è cresciuto del 10,7%, più che compensando la perdita del 2020, pari a meno -8,5%. In questo caso si tratta di una dinamica simile a quella registrata nel Centro-Nord, dove la crescita nello stesso periodo è stata dell’11% e il calo nel 2020 è stato del -9,1%. Fatto 100 il dato di crescita cumulata del valore aggiunto extra-agricolo nel biennio, i servizi hanno contribuito per 71,1 punti nel Mezzogiorno e 63,6 nel Centro-Nord, spiega Svimez.

Ma a spingere alla crescita è stata soprattutto l’edilizia. Il contributo delle costruzioni si è spinto 7 punti oltre la media del Centro-Nord (18,9 contro 11,9), grazie all’impatto espansivo esercitato dal Superbonus 110%. Viceversa, il contributo dell’industria è stato limitato nel Mezzogiorno: 10 punti contro i 24,5 del Centro-Nord, in virtù anche del consistente assottigliamento della base produttiva subìto tra il 2007 e il 2022: quasi -30% di valore aggiunto, contro una flessione del 5,2% nelle regioni centro-settentrionali. Il confronto europeo rivela tuttavia il ritardo accumulato anche dall’industria del Centro-Nord: negli stessi anni il valore aggiunto industriale dell’Ue a 27 è aumentato di quasi il 14%, quello della Germania di oltre il 16%.

Per quanto riguarda l’inflazione, l’impennata dei prezzi al consumo registrata nel 2022 ha colpito con maggiore intensità le famiglie a basso reddito, prevalentemente concentrate nelle regioni del Mezzogiorno, sottolinea Svimez, secondo cui lo scorso anno l’inflazione ha eroso 2,9 punti del reddito disponibile delle famiglie meridionali, oltre il doppio del dato relativo al Centro-Nord (-1,2 punti). 

Rispetto alle altre economie europee, in Italia la dinamica inflattiva si è ripercossa in maniera significativa sui salari reali italiani, che tra il II trimestre 2021 e il II trimestre 2023 hanno subìto una contrazione molto più pronunciata della media UE a 27 (-10,4% contro -5,9%), e ancora più intensa nel Mezzogiorno (-10,7%) per effetto della più sostenuta dinamica dei prezzi. Questa dinamica si colloca in una tendenza di medio periodo delle retribuzioni lorde reali per addetto, anch’essa particolarmente sfavorevole al Mezzogiorno: -12% le retribuzioni reali rispetto al 2008 (-3% nel Centro-Nord).

Sale l’occupazione, ma tornano precarietà e povertà

Nel periodo post-Covid la ripresa dell’occupazione è stata più accentuata nelle regioni meridionali: +188 mila nel Mezzogiorno (+3,1%), +219 mila nel Centro-Nord (+1,3%). Dopo il rimbalzo occupazionale è però tornata a inasprirsi la precarietà. Dalla seconda metà del 2021, è cresciuta l’occupazione più stabile, ma la vulnerabilità nel mercato del lavoro meridionale resta su livelli patologici, sostiene la Svimez. Quasi quattro lavoratori su dieci (22,9%) nel Mezzogiorno hanno un’occupazione a termine, contro il 14% nel Centro-Nord.

In questo contesto, nel 2022 la povertà assoluta è aumentata in tutto il Paese, raggiungendo livelli inediti: sono 2,5 milioni le persone che vivono in famiglie in povertà assoluta al Sud: +250.000 in più rispetto al 2020 (–170.000 al Centro-Nord). 

La crescita della povertà tra gli occupati conferma che il lavoro, se precario e mal retribuito, non garantisce la fuoriuscita dal disagio sociale. Nel Mezzogiorno, la povertà assoluta tra le famiglie con persona di riferimento occupata è salita di 1,7 punti percentuali tra il 2020 e il 2022 (dal 7,6 al 9,3%). Un incremento si osserva tra le famiglie di operai e assimilati: +3,3 punti percentuali. Questi incrementi sono addirittura superiori a quello osservato per il totale delle famiglie in condizioni di povertà assoluta. 

Al 2080 il Sud rischia di perdere 8 milioni di residenti

Il calo delle nascite e il parallelo aumento della speranza di vita hanno fatto sì che l’Italia sia diventata uno dei Paesi europei più anziani, sottolinea il rapporto. 

Le migrazioni interne e internazionali hanno ampliato gli squilibri demografici Sud-Nord. Se da un lato, le comunità immigrate si concentrano prevalentemente nel Settentrione “ringiovanendo” una popolazione sempre più anziana; dall’altro, il Mezzogiorno continua a perdere popolazione, soprattutto giovani qualificati. 

Secondo i calcoli di Svimez, dal 2002 al 2021 hanno lasciato il Mezzogiorno oltre 2,5 milioni di persone, in prevalenza verso il Centro-Nord (81%). Al netto dei rientri, il Mezzogiorno ha perso 1,1 milioni di residenti, molti dei quali giovani: nello stesso periodo infatti, il Sud ha subìto un deflusso netto di 808 mila under 35, di cui 263 mila laureati.

Al 2080, stima Svimez, una perdita di oltre 8 milioni di residenti nel Mezzogiorno, pari a poco meno dei due terzi del calo nazionale (–13 milioni). La popolazione del Sud, attualmente pari al 33,8% di quella italiana, si ridurrà ad appena il 25,8% nel 2080.

In questo contesto, il progressivo processo di invecchiamento del Paese non si arresterà nei prossimi decenni: tra il 2022 e il 2080, il Mezzogiorno dovrebbe perdere il 51% della popolazione più giovane (0–14 anni), pari a 1 milione e 276 mila unità, contro il –19,5% del Centro-Nord (–955 mila). La popolazione in età da lavoro si ridurrà nel Mezzogiorno di oltre la metà (–6,6 milioni), nel Centro-Nord di circa un quarto (–6,3 milioni di unità). Il Mezzogiorno diventerà quindi l’area più vecchia del Paese nel 2080, con un’età media di 51,9 anni rispetto ai 50,2 del Nord e ai 50,8 del Centro. Per invertire la tendenza pluridecennale al calo delle nascite occorre mettere in campo politiche attive di conciliazione dei tempi di vita e lavoro e rafforzare i servizi di welfare, evidenzia il rapporto. 

Occorrerà rivolgere molta attenzione soprattutto alle donne, potenziando l’occupazione femminile e i servizi. Le regioni meridionali presentano oggi il tasso più basso di occupazione femminile in confronto all’Europa (media UE 72,5): Campania (31%), Puglia (32%) e Sicilia (31%).

Il report evidenzia inoltre gravi ritardi nell’offerta di servizi per la prima infanzia, soprattutto per quanto riguarda i posti nido autorizzati per 100 bambini tra 0-2 anni nel 2020: Campania (6,5), Sicilia (8,2), Calabria (9) e Molise (9,3). Queste sono le regioni meridionali più distanti dall’obiettivo del LEP dei posti autorizzati da raggiungere entro il 2027 (33%). Gli investimenti del Pnrr mirano a colmare queste disparità, ma non sono stati programmati a partire da una mappatura territoriale dei fabbisogni di investimento, bensì attraverso procedure a bando, con una capacità di risposta fortemente influenzata dalle capacità amministrative degli enti locali. 

I rischi dell’autonomia differenziata

Svimez dedica una parte del suo rapporto all’autonomia differenziata che, sottolinea l’associazione, espone l’intero Paese ai rischi di una frammentazione insostenibile delle politiche pubbliche chiamate a definire una strategia nazionale per la crescita, l’inclusione sociale e il rafforzamento del sistema delle imprese. 

L’autonomia differenziata rischia in oltre di congelare i divari territoriali di spesa pro capite già presenti e di indebolire le politiche nazionali redistributive tra individui e di riequilibrio territoriale. Le funzioni delegate assorbirebbero larga parte dell’Irpef regionale: il 90% circa nel caso del Veneto, quote tra il 70 e l’80% per Lombardia ed Emilia-Romagna. Rilevanti sarebbero gli effetti in termini di contrazione del bilancio nazionale, con la conseguente riduzione degli spazi di azione della finanza pubblica centrale. Il gettito Irpef trattenuto dalle tre regioni risulterebbe pari a circa il 30% del gettito nazionale.

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