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Startup e spin off tecnologiche sono davvero il futuro dell’Italia?

Non sempre startup e spin off sono davvero tali e solo le imprese esistenti possono agevolare il decollo di startup tecnologiche – La collaborazione fra università, centri di ricerca e imprese è certamente auspicabile ma l’obiettivo deve essere più alto e puntare al rinnovamento imprenditoriale.

Startup e spin off tecnologiche sono davvero il futuro dell’Italia?

L’articolo su FIRSTonline di Riccardo Varaldo del 9 settembre scorso (“Star up tecnologiche: è qui la leva della nuova politica industriale”) ci chiede di dare una risposta all’interrogativo se startup e spin off tecnologiche siano il futuro dell’Italia con un’operazione che ha implicitamente un orizzonte temporale di  4-7 anni. Gli  informati, gli esperti di finanza, i cittadini del mondo, (una fauna  ben nota e individuabile) rispondono negativamente argomentando con insofferenza che un orizzonte così dilatato non aiuta a risolvere i problemi delle imprese italiane perché il mondo cammina veloce trainato dalla tecnologia in continua evoluzione. 

L’ottimista commenta che proprio questa rapida evoluzione impone un ripensamento della mentalità e dei comportamenti dell’imprenditoria italiana e quindi la soluzione si trova nella riduzione dei tempi e nel continuo flusso di innovazioni che i giovani imprenditori possono garantire. Il pessimista scuote il capo (il pessimista non si espone mai chiaramente perché sa che ha una larga base di consenso) perché conosce l’amministrazione pubblica con i suoi limiti, le banche interessate ai giochi sui mercati finanziari, i finanziatori che vogliono un cospicuo profitto a breve, il mercato che non ama le novità e ancora meno la concorrenza, i concorrenti che cercheranno di impedire il consolidamento delle iniziative, ecc. Le recenti novità sono gli impegni e i vincoli dettati dalle organizzazioni internazionali che una volta si concentravano sulla politica anticongiunturale e adesso suggeriscono riforme senza spiegarne il motivo  e con orizzonte anch’esso di 4–7 anni.  

Varaldo a questa lista di difficoltà aggiunge la mancanza di managerialità e di conoscenza del mercato nei nuovi imprenditori e io aggiungerei che molte spin off e startup non sono tali ma sono un tentativo di modificare il rating delle università e dei centri di ricerca per ottenere risorse pubbliche e consentire  ai ricercatori di continuare nelle loro ricerche senza un reale interesse per lo sviluppo industriale. Forse è opportuno ricordare che le nuove regole sul finanziamento della ricerca incentivano le spin off ma non sempre ci sono valutatori in grado di giudicare l’innovazione e la speranza di vita dell’iniziativa.

Si parla dell’assenza di domanda per le spin off ma è un mercato, per definizione, rischioso e quindi solo le grandi imprese e/o le medie imprese del settore potrebbero interagire con l’offerta. Le prime hanno la pessima abitudine di privilegiare il bilancio consolidato e quindi l’uniformità delle regole che certamente un piccola impresa neonata non è in grado di sopportare e crolla sotto il peso della burocrazia aziendale. Le medie imprese hanno un padrone che difficilmente accetta la presenza di un giovane arrampicatore, conoscitore delle tecnologie ma non del mercato e delle banche. Il piccolo imprenditore è ancora più insofferente della concorrenza in house e pensa di sopravvivere perché è flessibile e artigianale. Risultato: la domanda di queste nuove imprese tecnologiche innovative proviene dalle grandi e medie imprese straniere che si appropriano, giustamente, degli investimenti fatti dall’Italia per formare giovani ricercatori e imprenditori. Esiste un ritardo nell’imprenditoria italiana che preferisce muoversi verso lidi più tranquilli e protetti come il settore terziario nonostante i cambiamenti in atto dai quali emerge che manifattura e servizi sono classificazioni da integrare  perché le loro imprese  devono interagire  per sfruttare la   conoscenza e incentivare  lo scambio relazionale. L’obiettivo è sempre la  creazione del  valore e la sua  distribuzione  ai fattori della produzione se si vuole alimentare il processo circolare  di sviluppo mediante l’accumulazione.

Questi elementi sono chiaramente espressi nell’articolo di Varaldo e il richiamo alle imprese innovative e all’esigenza di creare un collegamento fra imprese, università e centri di ricerca è certamente appropriato. Purtroppo, questo avviene raramente perché le grandi imprese hanno chiuso i loro centri di ricerca e le medie e piccole imprese non hanno risorse sufficienti per investire in ricerca ma senza  un linguaggio comune e un accordo reciproco sull’argomento da approfondire è quasi impossibile lo scambio di conoscenze e la continuità del dialogo.

Termino con un’altra domanda: se il ragionamento su startup e spin off è corretto e largamente condiviso quali sono i limiti di questa strategia centrata sull’innovazione? Le nuove imprese per sopravvivere richiedono intelligenza aziendale sviluppata e ricerca incessante, risorse umane e finanziarie adeguate, servizi pubblici e privati efficienti. Sono limiti che incontrano tutte le imprese che intendono svilupparsi e perciò il mercato non può essere locale ma deve avere una dimensione almeno nazionale. Un altro limite è la scarsità di capitali che le banche non prestano perché non sono in grado di valutare gli effetti economici di un’innovazione e quindi chiedono garanzie reali. Se si escludono i dibattiti nei convegni, non è un limite la disponibilità di risorse umane preparate perché, in effetti, poche imprese chiedono personale skilled, che di solito non è impiegato in lavori consoni alla sua preparazione e in ogni caso riceve un salario poco collegato alla sua professionalità. Si può superare l’ostacolo della dimensione del mercato creando reti di imprese export oriented ma sarebbe già sufficiente una soluzione nazionale di import substitution. Nel caso dei finanziamenti si percepisce che i figli dei benestanti possono accedere al credito con la garanzia reale dei genitori ma non sempre le condizioni ottimali si sommano in questo giovane imprenditore potenziale, anzi, a volte si ha la sensazione che i padri non li vogliano nella loro azienda e li indirizzino verso la politica attiva e i ruoli di rappresentanza. Salvo eccezioni, si direbbe che gli imprenditori italiani invecchiando non sentono l’obbligo di lasciare al Paese strutture produttive adeguate forse perché coscienti delle difficoltà e dei limiti cha li hanno tormentati nella loro vita aziendale ma solo le imprese esistenti possono agevolare il decollo di startup tecnologiche.

In conclusione, se dovessi indicare una strada da percorrere consiglierei la strategia suggerita da Varaldo basata sulla collaborazione fra università, centri di ricerca e imprese ma l’obiettivo deve essere il rinnovamento imprenditoriale (mi rendo conto che è di moda negli altri campi) e non mi limiterei alle startup/spin off.  Solleciterei le banche a valutare i rischi facendo riferimento non solo al passato e al capitale produttivo ma anche all’età media del management e al grado di innovazione presente e prospettico che caratterizza l’impresa affidata. Se le banche non ritengono di avere sufficiente professionalità in questo campo partecipino al finanziamento del venture capital sapendo che le perdite attese sono minime se confrontate con le perdite che infliggono alle banche molte grandi imprese e a volte anche gli investimenti in titoli di Stato. Non confiderei sulle amministrazioni pubbliche che vivacchiano nella confusione dei ruoli e nella certezza che non ci sono soldi, ma chiederei una legislazione di aiuto alla crescita (non alla nascita) di startup e spin off tecnologiche. Alla loro nascita devono collaborare le università e i centri di ricerca poiché da queste iniziative quelle istituzioni ne trarranno concreti vantaggi, almeno si spera.

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