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Start-up tecnologiche, è quì la leva di una nuova politica industriale e della crescita

Il decreto Passera è un’occasione per una svolta nella politica industriale con l’occhio all’innovazione e allo sviluppo – Non basta far nascere nuove imprese ad alto potenziale tecnologico: occorre sostenerle concentrando le risorse sulle realtà più promettenti e puntando ad un’alleanza pubblico-privato – In campo la Fondazione Ricerca&Imprenditorialità

Start-up tecnologiche, è quì la leva di una nuova politica industriale e della crescita

Il decreto sulle start-up, a cui sta lavorando il ministro Corrado Passera, potrebbe essere l’occasione per la svolta verso una nuova politica industriale che guardi al futuro, se si vuole porre rimedio in modo organico al circolo vizioso bassa innovazione – bassa produttività – bassa crescita, in cui siamo bloccati. Le start-up tecnologiche sono una realtà nuova per l’Italia e la loro presenza ancora limitata. Ma ciò che rileva è il segnale di cambiamento che esprimono nel modo di immaginare e fare impresa. I protagonisti delle start-up tecnologiche evidenziano una loro sostanziale diversità genetica e funzionale rispetto agli imprenditori tradizionali, figli dell’era dell’artigianato e dell’industria manifatturiera materials-based. 

Il dato di fondo è che le start-up sono piccole realtà creative, tutte incentrate su risorse immateriali (capitale intellettuale più capitale umano), che hanno bisogno di tempo (da 4 a 7 anni in media) e di lavoro intelligente per esprimersi e assumere una loro identità, superando ostacoli e rischi di varia natura, prima di poter dimostrare di essere in grado di creare valore. Non è in sostanza sufficiente l’iscrizione nel registro delle imprese per sancire la conclusione effettiva del processo costitutivo di una start-up. Tutto questo implica che il compito dei policy makers non si esaurisce nel facilitare e semplificare la nascita di start-up, ma deve proseguire nel tempo: le start-up non possono essere abbandonate a sè stesse, a languire in uno stato embrionale troppo a lungo, con il rischio fondato di veder svilire la loro carica innovativa.

Il provvedimento sulle start-up potrebbe essere proficuamente valorizzato per attivare interessi, convergenze ed energie utili a dar vita a una strategia di sviluppo economico a medio-lungo termine, fondata sull’imprenditorialità innovativa, in linea con quanto stanno facendo altri Paesi, tra cui in primis gli Stati Uniti, che hanno capito fino in fondo la svolta in atto verso un capitalismo imprenditoriale. E’ veramente sorprendente che ci si debba far dare lezioni sulla nuova rilevanza dell’imprenditorialità quando nel mondo l’Italia è considerata la culla delle piccole imprese. Ma il fatto è che stentiamo a capire e metabolizzare i fondamentali della nuova fase del processo di accumulazione capitalistica, dove sono le imprese altamente innovative a base tecnologica a far maturare e sviluppare nuove opportunità di business e di investimento facendo leva sullo sfruttamento di nuova conoscenza. Su questo fronte in Italia siamo molto in ritardo e le conseguenze si vedono, con la crescita che langue e le crisi aziendali che aumentano.

Anche le riforme adottate dal governo Monti finora non sono entrate direttamente in sintonia con il campo di gioco dell’economia reale. Occorre imprimere una svolta in senso microeconomico all’azione guardando in particolare alla nuova imprenditorialità innovativa che ha un punto di forza  nel saper fare trasferimento tecnologico in senso imprenditoriale, con una capacità di interazione, da un lato con la ricerca e dall’altro  il mercato e le imprese grandi e piccole già esistenti, svolgendo  un ruolo di ponte fra questi due mondi.

In Italia non siamo nella Silicon Valley, dove l’eco-sistema dell’innovazione è ben strutturato, dinamico e ottimamente funzionante per l’incubazione, il lancio ed il successo di mercato delle spin-off/start-up tecnologiche, con al suo interno una evoluta e ricca rete di venture-capitalists (tra i trenta più attivi a livello nazionale ben diciassette hanno sede in California) che sono pronti a scoprire i talenti imprenditoriali e nello scommettere e investire per il loro decollo e sviluppo, guardando a promettenti opportunità di exit.

Il contesto esterno dell’imprenditorialità – inclusivo di un ampio insieme di fattori istituzionali, economici, sociali e culturali – in Italia è decisamente deludente e inadeguato, perché al di là della carenza di servizi, infrastrutture e risorse finanziarie, nonché della presenza di ostacoli burocratici di ogni natura, ciò che manca è una “domanda di nuove imprese innovative”, ovvero un mercato privato e pubblico di clienti lungimiranti pronti a sperimentare e recepire le proposte innovative offerte dalle start-up, per cui l’accesso al mercato costituisce un grave handicap. Tutto questo limita anche l’operatività degli investitori di venture capital che per la loro scarsa propensione e capacità ad investire capitali nel cosiddetto “seed funding” sono alla inutile ricerca di nuove aziende innovative già ben strutturate, che sono però una rarità.

In Italia contiamo solo su alcune piccole isole di innovazione tecnologica avanzata, disperse nel mondo universitario o in incubatori di pregio, con una forte impronta imprenditoriale, dove esistono condizioni oggettive e soggettive per la gemmazione e il sostegno di spin-off e start-up. In campo universitario questo accade laddove ci sono docenti con elevate capacità di ricerca in settori scientifici di avanguardia che sanno formare nei loro laboratori ricercatori e tecnologi non solo accademici e che sanno preparli per misurarsi, se dotati di un “pratical sensing”, sui problemi dello sviluppo e dello sfruttamento degli outputs della ricerca, collaborando anche con imprese avanzate. Il ruolo di incubazione svolto dalle 10-15 migliori università di ricerca, dove si concentra il grosso delle circa 1.200 spin-off accademiche presenti in Italia, va potenziato e qualificato con l’apporto di competenze e mezzi per innalzare le loro capacità, con un concreto sostegno delle istituzioni pubbliche e sociali. Bisogna in sostanza evitare inutili dispersioni di risorse aggregando attorno ai poli scientifico-tecnologici di valore e agli incubatori qualificati, esistenti sul territorio nazionale, i soggetti privati e pubblici, capaci di attivare energie e risorse utili a dar vita ad eco-sistemi dell’innovazione market-pull, dinamici e produttivi, superando l’esperienza delle improduttive infrastrutture del trasferimento tecnologico, sostenute da ingenti fondi pubblici, avviata negli anni ’90 con i parchi scientifici e tecnologici nel Mezzogiorno e proseguita agli inizi degli anni 2000 con il varo di una rete di distretti tecnologici, dove sono pochi i casi di successo.

Nonostante questo quadro, fatto più di ombre che di luci, ci sono molti e tutti importanti ragioni per sperare che il provvedimento del ministro Passera, proprio per merito della originalità e attualità del campo di riferimento, possa costituire l’occasione per imprimere una svolta nel modo di immaginare le cose industriali, obiettivo questo che oggi in Italia si pone con più urgenza che nel recente passato.

Di fronte all’onda d’urto della grande crisi globale e alle profonde trasformazioni in atto nella società, nell’economia e nell’industria su scala internazionale si avverte pressante l’esigenza di una politica industriale in discontinuità, che guardi al futuro e quindi alla costruzione del nuovo, piuttosto che al passato, e quindi alla conservazione dell’esistente. La crisi sta aprendo spazi insperati per il dispiegamento di una forte spinta all’innovazione tecnologica che è il terreno di coltura di nuove generazioni di imprenditori fortemente innovativi. E’ una comunità questa dove sta crescendo il numero di giovani, di frequente in possesso di elevati titoli di studio e di spirito di iniziativa e capacità individuali, a cui occorre guardare con grande simpatia e fiducia, perché rientrano tra i migliori esponenti di quella che è stata chiamata la “prima generazione digitale e globale insieme”.

Supportare e dare spazio alle nuove imprese innovative, e per il loro tramite al cambiamento nel sistema imprenditoriale e industriale, è la via con cui tutti i Paesi, vecchi e nuovi, sono alla ricerca della forza propulsiva dell’economia del XXI secolo. E ci sono fondate ragioni per andare in questa direzione. Per merito della grande crisi mondiale, con i suoi effetti dirompenti, è in atto una accelerazione dello sviluppo di nuovi trends scientifici e tecnologici (green-technologies, ICT, nanotecnologie, scienze della vita, nuovi materiali, tecnologie biomedicali, micromeccatronica, ecc.) con un consistente aumento degli investimenti pubblici e privati in R&S che sono destinati a far anticipare di molto le possibilità e i tempi per trasformare la ricerca in impresa, aprendo le porte allo sfruttamento industriale delle invenzioni e quindi la corsa agli investimenti. L’Italia, se vuole evitare il rischio di un continuo restringimento della propria base produttiva e occupazionale, deve compiere ogni sforzo per conquistare un proprio posizionamento nelle nuove filiere tecnologiche, destinate ad imprimere una svolta in senso innovativo e di sviluppo all’intero sistema industriale e dei servizi. Solo così si può aspirare seriamente a creare le pre-condizioni per mirare, nel medio lungo andare, a una crescita sostenibile dell’economia e dell’occupazione.

Tutto il resto sono semplici palliativi per una crisi della crescita e dell’occupazione che è strutturale e affonda le sue radici nella scarsa capacità di innovazione. In questo disegno, le start-up tecnologiche possono giocare un proprio ruolo se si mettono in atto, con una organica alleanza strategica tra pubblico e privato, i processi e le energie per creare habitat confacenti alla loro nascita e soprattutto alla loro crescita e integrazione nell’economia, a livello locale, regionale e nazionale. Tutto questo può avvenire soltanto con il contributo fattivo delle nostre imprese più lungimiranti che debbono imparare a capire e sfruttare i vantaggi dell’open innovation aprendosi a collaborazioni organiche con le università di ricerca e con le spin-off/start-up, come facilitatori del trasferimento di outputs della ricerca. E’ lungo questa missione che è nata e sta operando la Fondazione Ricerca & Imprenditorialità.

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