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Sanzioni Usa anti-Iran, per l’Europa quali conseguenze?

FOCUS ISPI – Il 5 novembre entra in vigore il secondo round di sanzioni USA verso l’Iran, conseguenza della decisione dell’amministrazione Trump di uscire dall’accordo sul nucleare – Quali ripercussioni sulle economie europee? Quali implicazioni per l’Iran e per la regione?

Sanzioni Usa anti-Iran, per l’Europa quali conseguenze?

Verso l’aumento del prezzo del petrolio?

L’approccio statunitense rischia di avere implicazioni per il mercato globale dell’energia, con un probabile aumento del prezzo del petrolio dovuto alla diminuzione dell’offerta di greggio, a fronte di una domanda crescente. Per questo motivo l’amministrazione Trump sembra intenzionata a concedere almeno nel breve termine alcune esenzioni (“waivers”) ad alcuni paesi, che potranno dunque continuare a importare petrolio iraniano in quantità via via minori. Lo shock petrolifero e il conseguente aumento del prezzo del petrolio sembrano dunque rimandati, così come l’obiettivo di “portare a zero” le esportazioni di petrolio iraniano. Tra gli otto paesi che godrebbero dei waivers – ma la cui lista definitiva verrà ufficializzata solo lunedì – ci sarebbero il Giappone, l’India, la Corea del Sud, mentre la Cina sarebbe ancora in trattativa con il Tesoro USA. A guidare la scelta di Trump sembra essere stato il timore di causare un innalzamento dei prezzi del petrolio proprio alla vigilia dell’importante appuntamento elettorale di midterm. Nel medio-lungo termine, però, l’obiettivo dell’amministrazione USA rimane quello di bloccare il settore energetico iraniano e privare Teheran della maggiore entrata di bilancio.

Nel caso del precedente embargo sul settore petrolifero iraniano (2012-2015), l’amministrazione Obama aveva deciso di imporre una riduzione “significativa” delle importazioni petrolifere dall’Iran, non, come deciso dall’amministrazione Trump, la riduzione “totale”. Ciò aveva permesso all’Iran di continuare a esportare, seppur in misura minore rispetto al periodo pre-sanzioni: le esportazioni di greggio iraniano avevano subito un calo di circa il 40%, passando da 2,5 milioni di barili al giorno nel 2011 a 1,5 milioni di barili al giorno nel 2012. Ulteriore elemento caratterizzante l’embargo del periodo 2012-2015 è che esso avvenne in un periodo di recessione o di bassa crescita per l’Europa, segnato dunque da un calo della domanda europea di petrolio. Infine, tale embargo fu caratterizzato da una sostanziale continuità delle esportazioni di petrolio iraniane verso i principali acquirenti, Cina e India. Da parte dell’amministrazione Trump vi è invece un atteggiamento molto più intransigente, che lascia presagire che gli Usa utilizzeranno tutti i mezzi a propria disposizione per raggiungere questo obiettivo. A differenza che con Obama, dunque, le sanzioni non sembrano rappresentare più uno strumento atto al raggiungimento di un obiettivo politico preciso – Teheran si è già seduta al tavolo negoziale, l’accordo è già stato concluso – ma semmai la componente principale di una strategia tesa a punire e isolare Teheran. L’embargo, così come le altre sanzioni, rischia così di essere a tempo indeterminato, proprio perché non legato a un obiettivo politico preciso e misurabile.

Sulla base di questi elementi, è possibile stimare una diminuzione delle esportazioni di petrolio iraniane più significativa rispetto a quella del periodo 2012-2015Recenti stime parlano di una contrazione di quasi 2 milioni di barili al giorno, ben superiore rispetto alla diminuzione di 1,2 milioni di barili al giorno provocata dalle sanzioni nel 2012-2015.

Soprattutto, si tratta di una diminuzione che rischia di essere maggiormente percepita anche dal mercato internazionale, perché avviene in un periodo di crescita economica generalizzata e non più con una recessione e un periodo di bassa crescita in Europa, dunque con una domanda di petrolio greggio superiore rispetto a quella del 2012-2015. Sebbene i principali paesi produttori, OPEC e non OPEC (Arabia Saudita, EAU, ma anche Russia) abbiano segnalato l’intenzione di colmare le quote di mercato lasciate scoperte dall’uscita dell’Iran, e in alcuni casi abbiano già firmato contratti per i prossimi mesi, rimane in dubbio la reale capacità di questi paesi di aumentare la produzione per soddisfare l’intera domanda globale, e la sostenibilità nel tempo di questa opzione. In questo contesto, un aumento del prezzo del petrolio nei prossimi mesi appare un’ipotesi sempre più probabile.

L’Europa prova a difendersi

La nuova strategia statunitense di pressione su Teheran, che ha nelle sanzioni il proprio principale strumento, ha suscitato la condanna da parte dell’Unione europea, così come di alcuni tra i principali stati membri. Dallo scorso maggio l’UE è impegnata nella ricerca di soluzioni che permettano alle proprie aziende di mantenere in essere i rapporti economici e commerciali con Teheran senza incorrere nelle misure punitive statunitensi.

In agosto sono stati approvati l’aggiornamento del Regolamento di blocco (Regolamento 2271/96), che impedisce ai soggetti europei di adeguarsi alle sanzioni secondarie statunitensi, e l’estensione del mandato della Banca europea per gli investimenti (BEI), alla quale è stato accordato il potere di fornire garanzie sulle attività finanziarie con l’Iran, in modo da sostenere gli investimenti europei – soprattutto di piccole e medie imprese – nel paese. Come si evidenzia in questo commentary, però, in entrambi i casi si tratta di strumenti dall’alto valore politico ma dalla scarsa utilità all’atto pratico: essi rischiano di essere delle armi spuntate di fronte all’intransigenza statunitense nel non voler concedere agli alleati alcuno spazio di azione per continuare a fare affari con l’Iran.

Lo scorso settembre, a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, l’Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza Federica Mogherini ha annunciato la creazione di uno “Special Purpose Vehicle” (SPV), ovvero un meccanismo legale in grado di supportare e processare i pagamenti da e verso l’Iran, senza esporre le aziende europee al rischio delle ripercussioni statunitensi. L’SPV dovrebbe rendere possibile processare i pagamenti relativi tanto alle importazioni quanto alle esportazioni iraniane, petrolio compreso. Il meccanismo di funzionamento sarebbe quello della permuta: per esempio, l’invio di petrolio iraniano a società francesi, che permetterebbe a Teheran di accumulare credito da impiegare poi per pagare altre società europee per beni importati in Iran. In questo modo, non vi sarebbe transito fisico di moneta né nel sistema finanziario SWIFT (che da novembre sarà esposto al rischio di ripercussioni Usa) né in banche iraniane colpite da sanzioni. Per completare la realizzazione dello strumento sono necessari ulteriori passaggi di carattere tecnico, che l’Unione spera di concludere entro la fine dell’anno, allo scopo di renderlo presto pienamente operativo. L’utilizzo di tale strumento dovrebbe essere esteso anche a Russia e Cina.

Al di là dei dubbi sull’esatto funzionamento – che potranno essere fugati solamente una volta divenuto operativo – esistono dubbi circa il fatto che l’SPV possa effettivamente essere al riparo dalla longa manus del Tesoro USA. Per questo motivo, esso sembra destinato a poter essere utilizzato solamente dalle piccole e medie imprese che non hanno esposizione verso il mercato statunitense. Esso rappresenta dunque uno strumento in grado potenzialmente di aggirare il nodo dei pagamenti da e verso Teheran, ma non sufficiente a tutelare le grandi compagnie con esposizione verso il mercato statunitense. Di conseguenza, lo scenario che appare al momento più probabile è quello di una continuazione delle attività delle piccole-medie imprese, ma di uno stop delle grandi compagnie, ovvero quegli attori che avrebbero potuto dare nuova linfa alla stremata economia iraniana.

Le conseguenze per l’Iran

Indubbiamente la nuova strategia statunitense avrà delle conseguenze. Ma non è altrettanto sicuro però che esse saranno quelle desiderate dall’amministrazione Trump. Dietro alle dodici richieste che il dipartimento di Stato ha rivolto a Teheran – e che secondo Trump dovrebbero portare a un “cambiamento nel comportamento” iraniano – sembra esserci in realtà l’obiettivo di arrivare a un cambio di regime. L’amministrazione Trump sembra scommettere sulla pressione dal basso sul regime, che aumenterà quando si intensificheranno le conseguenze negative sull’economia iraniana della reintroduzione delle sanzioni.

La situazione economica è già in netto peggioramento, e per i prossimi due anni le stime prevedono una recessione, accompagnata da un aumento dell’inflazione e un’ulteriore svalutazione del valore del rial. In questo senso, esistono molti dubbi circa il fatto che le sanzioni colpiscano il loro vero target, ovvero le Guardie della rivoluzione (IRGC) e le entità economiche ad esse legate. Nel 2017, il budget totale per difesa e sicurezza è stato di 16 miliardi di dollari, di cui circa 8 miliardi per l’IRGC, che può contare anche sulle rendite derivanti da attività economiche in diversi settori dell’economia iraniana. Non si tratta di numeri molto elevati, e occorre ricordare che anche nel precedente periodo di sanzioni internazionali l’IRGC è stata in grado di sostenere le proprie attività sui diversi scenari di guerra della regione: dal sostegno ad Assad in Siria al finanziamento delle milizie in Iraq, dal sostegno agli Houthi in Yemen (di cui non si conosce però la reale portata) a quello a Hezbollah in Libano. Come scrive Colin H. Kahl su Foreign Affairs, l’amministrazione Trump sembra ignorare il fatto che il successo delle operazioni iraniane all’estero negli ultimi anni è dovuto più alle opportunità apertesi in seguito al dilagare del caos e dell’instabilità regionale che non a ingenti risorse finanziarie. Senza contare il fatto che il ripristino delle sanzioni porterà – come nel precedente periodo – allo sviluppo di forme di economia illegale, alimentando quel mercato nero di cui a beneficiare è proprio l’IRGC.

Piuttosto, a subire le conseguenze delle sanzioni sarà  soprattutto la popolazione. Oltre agli evidenti effetti penalizzanti dell’imminente aumento del costo della vita, si segnalano già in questi mesi alcune difficoltà nel mantenere aperti i canali per il commercio di beni umanitari. Sebbene esistano delle esenzioni per i beni del settore medicale e altre categorie afferenti al commercio umanitario, si registra una riluttanza da parte delle banche europee a finanziare tali transazioni, soprattutto dopo che lo scorso 16 ottobre il dipartimento del Tesoro USA ha annunciato nuove sanzioni contro 20 aziende e istituzioni finanziarie iraniane tra cui la Parsian Bank, attraverso la quale transitava finora la maggior parte degli scambi con l’UE, inclusi quelli in ambito umanitario.

Il netto peggioramento della situazione economica che si prepara nei prossimi mesi, unito allo svuotamento di significato dell’accordo sul nucleare che potrebbe portare a un suo collasso, produrranno effetti anche sull’amministrazione Rouhani. Già estremamente indebolito, il presidente difficilmente godrà in questi rimanenti tre anni di mandato del capitale politico necessario a implementare quell’agenda di cauta apertura e riforme per la quale era stato eletto. Alle prossime elezioni presidenziali, nel 2021, a essere eletto potrebbe dunque essere un esponente della fazione ultra-radicale, che già in questi mesi sta incolpando l’amministrazione Rouhani del peggioramento della situazione economica, cercando dunque di sfruttare le azioni USA a proprio favore. Al contempo, però, si segnala un inasprirsi della retorica, con un invito al rafforzamento delle forze di sicurezza e della propria proiezione regionale: tradotto, un maggiore sostegno alle attività all’estero dell’IRGC.

Le conseguenze della nuova politica USA di massima pressione sull’Iran, dunque, rischiano di essere il peggioramento delle condizioni di vita della popolazione – nei confronti della quale tuttavia Trump continua a esprimere ostentatamente i propri sentimenti di vicinanza -, l’emarginazione della fazione politica dei “moderati” riconducibile al presidente Rouhani e la riascesa degli ultraradicali, e il rafforzamento degli apparati di sicurezza, con l’intensificazione delle operazioni militari all’estero.

Da Ispionline.it.

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