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Recovery Fund: l’immobilismo di Conte e le proposte Assonime

Assonime ha mobilitato un nutrito gruppo di esperti per formulare un progetto di governance – con un ministro ad hoc – che tolga finalmente dalle sabbie mobili il Recovery Fund e assicuri efficienza e trasparenza nella selezione e gestione dei progetti finanziabili con le risorse europee, ma è indispensabile che la politica batta un colpo

Recovery Fund:  l’immobilismo di Conte e le proposte Assonime

È l’ultima proposta in ordine di tempo. E non solo nel senso che viene dopo quelle formulate da Giorgio La Malfa e da Marcello Messori e Marco Buti, ma anche nel senso che ormai siamo proprio al limite massimo di tempo se vogliamo cogliere al meglio l’occasione offertaci dall’Europa con le risorse del Next Generation Eu. Il presidente dell’Assonime Innocenzo Cipolletta e il direttore generale Stefano Micossi hanno mobilitato un nutrito gruppo di esperti per formulate un progetto di governance capace di assicurare efficienza e trasparenza nella selezione e gestione dei progetti che potranno essere finanziati dai fondi europei. La proposta si basa sulla necessità di creare un ministro responsabile di tutto il complesso iter procedurale tenendo i rapporti sia con Bruxelles che con le amministrazioni italiane da coinvolgere.

L’attuale ministro per i rapporti con l’Europa, Vincenzo Amendola, che già sta seguendo la complessa materia su indicazione del presidente del Consiglio, dovrebbe essere dotato, tramite una apposita legge, di poteri ulteriori per poter coordinare anche il fronte interno, e creare delle strutture tecniche in grado di valutare i progetti, seguirne l’attuazione, intervenire nel caso si creassero degli intoppi.

La proposta di Assonime individua con chiarezza le ragioni per le quali l’ Italia non riesce a portare avanti in tempi certi le opere necessarie ad aumentare la competitività complessiva. Non trascura la complessità politica di trovare entro pochi mesi una convergenza tra maggioranza e opposizione in Parlamento e ancor più tra il centro e la periferia. Dedica un lungo capitolo alla necessaria semplificazione, o meglio alla riforma delle procedure ordinarie della Pubblica Amministrazione, senza la quali appare difficile rispettare i tempi stringenti posti dall’Europa (tutti i 209 miliardi disponibili dovranno essere spesi entro il 2026) e ancor più ottenere risultati apprezzabili per il superamento della profonda recessione nella quale il Covid ha fatto precipitare l’economia italiana.

Dal Governo e dalle forze politiche non c’è stata finora alcuna reazione. Del resto il premier Conte deve essersi reso conto delle difficoltà cui si andrebbe incontro se ci si affidasse ai vari poteri ministeriali e regionali. Difficoltà che probabilmente farebbero perdere all’Italia questa straordinaria possibilità di ripartire su nuove basi puntando a più crescita e più occupazione. Infatti all’Assembla di Confindustria nello scorso settembre, Conte aveva preannunciato una legge ad hoc per la costituzione di una cabina di regia incaricata di gestire il Recovery Fund. Ma la reazione dei vari centri di potere politici deve essere stata tale che il premier non ha più parlato della cosa e si è limitato ad inserire in legge finanziaria un articolo in cui si affida alla Ragioneria dello Stato il compito di verificare l’attuazione dei progetti lasciando senza risposta sia la questione politica della scelta delle priorità sia la selezione dei progetti presentati da enti pubblici o privati.

Insomma siamo molto lontani non solo dall’avere una governance accettabile (e raccomandata dalla Ue), ma anche dall’avere idee abbastanza chiare su dove vogliamo andare, cioè su come vogliamo essere tra quattro o cinque anni. In effetti il piano concepito da Bruxelles è molto ambizioso: esso punta a migliorare le potenzialità di crescita di tutti i paesi europei, riconoscendo per la prima volta che vanno aiutati in maniera speciale, gli ultimi vagoni del convoglio. E nello stesso tempo favorire la transizione verso un’economia più verde e più digitale. Per ottenere questi risultati bisogna costruire una matrice in cui ci deve essere coerenza sinergica tra riforme e progetti. Solo così sarà possibile utilizzare i fondi aggiuntivi che la Ue mette a disposizione per modificare nel profondo il funzionamento delle economie, raggiungendo in definitiva lo scopo di offrire maggiori opportunità a tutti i cittadini e creando una più salda coesione sociale.

Ad esempio, l’obiettivo della trasformazione digitale richiede da una parte una trasformazione delle regole della PA per renderla capace di operare sempre di più in rete, e dall’altra la capacità di fare gli investimenti infrastrutturali ( ma molti sindaci si oppongono alle antenne del 5G), di modificare le competenze dei lavoratori attraverso adeguata formazione, e infine di modificare il mercato del lavoro per non vincolare le persone ad aziende prive di futuro, aiutandole invece a trovare lavoro in settori di avanguardia.

Ma al di là delle enormi complicazioni tecniche, sarebbe necessario che le autorità politiche trovassero un accordo di massima sul tipo di società che vorremmo diventare e soprattutto su quali riforme sono necessarie per eliminare gli ostacoli corporativi che oggi impediscono il progresso dell’intero paese. Si dovrebbe anche concordare le modalità per superare le resistenze di chi, a torto o a ragione, potrebbe sentirsi danneggiato dal cambiamento, offrendo non solo incentivi materiali, ma anche una visione credibile, capace di suscitare nella grande maggioranza della popolazione quella fiducia che è ingrediente necessario per mobilitare le energie dei cittadini.

Purtroppo le forze politiche, sia di governo che di opposizione, appaiono incapaci di offrire una visione positiva dell’Italia. Non hanno la cultura e la capacità, prima ancora che il coraggio politico, di lottare per un qualcosa in cui si crede fermamente. I 5 Stelle non hanno alcuna idea e sono solo alla ricerca di una qualche bandiera che possa temporaneamente sostituire la loro assenza di identità. Il Pd vuole essere europeista ma non ha il coraggio di immaginare riforme che mettano in discussione alcuni settori del suo elettorato. E quindi, ad esempio, difende ancora il contratto nazionale di lavoro, invece di spingere per una contrattazione decentrata. Per il Sud distribuisce incentivi a pioggia, invece di puntare sul rafforzamento dei ceti produttivi. Della destra non vale la pena parlare: si tratta di statalisti autarchici completamente fuori tempo.

In questo quadro chi potrebbe creare il consenso per approfittare della irripetibile occasione offertaci dall’Europa di rinnovare il nostro sistema amministrativo ed economico e poter tornare a crescere? Il Presidente del Consiglio dovrebbe affrontare di petto le difficoltà, sfidare le forze politiche ad essere coerenti, smettere di rifugiarsi nell’immobilismo evitando così il rischio di inciampare correndo. Ma dovrebbe essere un Churchill e non un semplice Conte italiano.

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