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Racconto della domenica: “Sono molto seccato, quasi offeso” di Francesco Costa

Il bell’Angelo Amoroso, che d’amore non è che poi ne abbia ricevuto così tanto, se ne sta appeso a testa in giù su un palco, con le speranze fatte «a pezzi» e l’orgoglio mangiato dai «cani randagi». Nello spettacolo della vita ha sempre fatto quello che alla fine, già stabilito dall’inizio, è morto. Il punto è che è mica morto davvero, lui. E non ci pensa nemmeno a farsi seppellire.
Esperto narratore di tragedie umane, Francesco Costa firma un altro racconto irridente e vero.

Racconto della domenica: “Sono molto seccato, quasi offeso” di Francesco Costa

Ecco, s’è fatto scuro, s’è spenta ogni luce. Non si vede da qui a lì, e perfino la tenda rossa con le frange d’oro è diventata nera, mentre davanti agli occhi miei nuotano strani pesci di un tenue color lilla. Vado pazzo per i pesci, forse perché sono gli unici, in questo schifo d’epoca, a non esternare opinioni su questo e quest’altro. Nuotano, ecco tutto, e fanno già abbastanza. 

Qui dicono che non mi sono comportato bene. Il ruolo di un infame, mi hanno affibbiato, e per conto mio non ho molto da obiettare. Non è civile, infatti, bombardare una città, e nemmeno appiccare il fuoco alle sue case, e non avrei dovuto tagliare la gola a mio fratello con quella lama affilata. È vero che anche lui non è stato molto tenero con me, e basta guardarmi per capire che non me la passo troppo bene, ma forse avrei fatto meglio a levare l’occasione perché accopparsi tra fratelli è una cosa che, per principio, disturba.

Mi sta salendo il sangue alla testa perché mi tengono appeso per i piedi in questo buio ricamato di vertigini, e tremo all’idea di precipitare a capofitto nel vuoto, e rompermi magari la noce del collo.

Passi risuonano nella tenebra, qualcuno corre verso di me, vedo due donne, coperte di veli scuri, che si fermano laggiù e mi guardano. Vorrei dir loro qualcosa, ma non posso parlare perché hanno stabilito che sono già morto. Quelle, intanto, si mettono a strillare. La più vecchia, che rimane in ogni caso un bel pezzo di donna, grida: «Ma tu ti rendi conto della disgrazia che c’è capitata? Abbiamo perso in un sol colpo due fratelli, che si sono ammazzati tra di loro».

L’altra, sulla cui testa cresce un cespo di riccioli d’oro che fa più luce d’un fanale, ribatte: «Uno, però, è stato sepolto con tutti gli onori, mentre quest’altro deve starsene qui, appeso, per essere fatto a pezzi edivorato da uccelli o da cani».

“Te lo dico io il perché”, vorrei dire alla bionda, ma devo starmi zitto perché ai defunti s’impone il silenzio, e così le risparmio il romanzo delle mie pene, la sete d’amore che mi brucia, e la vecchia, amarissima storia di non aver contato mai niente per nessuno. 

«Dammi una mano, Ismene! Tiriamolo giù!» esclama la sorella più robusta, che è la maggiore. 

«Antigone, sta’ attenta! Lo sai che è proibito dargli sepoltura.»

«E ti pare bello che il suo cadavere resti qui, sulla strada, per essere mangiato dai cani randagi?»s’incollerisce Antigone che ha un bel caratterino, ma sul serio, e che non andrebbe mai presa di petto.

«Se lo seppellirai, sarai messa a morte» l’ammonisce Ismene.

«Tiriamolo giù!» insiste Antigone, che è proprio una capa tosta, e le due sorelle tendono le mani verso la mia testa per afferrarmi e calarmi sul pavimento. Qui viene il difficile, e la situazione si fa alquanto delicata. Arrivato a questo punto, infatti, ogni sera sudo freddo, tornando a chiedermi come ho fatto a cacciarmi in questa situazione. 

È cominciata poco più d’un mese fa.

Angelo Amoroso, ventiquattro anni, ecco come mi chiamo, ecco chi sono. Un ragazzo napoletano, di bell’aspetto, con tanto di muscoli e ricci neri, ma puoi farteli fritti, i muscoli e i ricci, se stai di casa a Fuorigrotta, dove puoi pure illuderti di abitare a Napoli, se proprio ti va, ma in realtà vegeti in una periferia parecchio simile a quelle di altre città sparse in giro per il pianeta. Tutte sconfortanti, intendo dire, con giardini senza fiori e mercatini in cui vendono a prezzi stracciati merce che è stata scartata altrove. Se poi non ti guadagni neanche l’ombra d’uno stipendio, perché stai senza fatica, allora vuol dire che a Napoli non hai motivo di andarci spesso, e devi passare le tue giornate in quest’esteso dormitorio, tra lo stadio San Paolo e il camposanto, dove da ormai dieci anni riposa mamma mia, e dove Pietro l’ha raggiunta di recente. 

Nella vita mia non c’è una cosa che vada per il verso giusto, a cominciare dal fatto che, da quando è rimasto vedovo, mio padre s’è fatto tanto apprensivo. Si chiama Giuseppe Amoroso e s’ammazza di straordinari in un ufficio postale verso Agnano. Recita ogni sera, iniziando puntualmente alle otto per poi smetterla intorno alle dieci, la stessa litania: “Prendi esempio da tua sorella”.

E cioè? Abbiamo superato tutt’e due il concorso per lavorare alla scuola materna, però a Olga la prendono perché è femmina, e a me non mi vogliono perché tengo le palle. Che dovrei fare? Segarmele? Se la scuola discrimina i maschi perché non li ritiene in grado di pulire il culo ai neonati, è forse colpa mia?

E meno male che papà non mi chiede di prendere esempio da mio fratello, perché in tal caso dovrei spararmi. Guidava come un pazzo, Pietro, la sera che ha avuto l’incidente, e sulla sua tomba non ci vado mai, perché mi pare che papà me ne fa quasi una colpa, d’essere ancora vivo, il che si spiega col fatto che Pietro prendeva voti altissimi all’università, e ci faceva ridere tutti, mentre io a scuola non ho mai fatto scintille, e in quanto a tenere allegra la gente, non mi ritengo esattamente un asso.

Tengo sempre il cuore pesante, per questo motivo del lavoro che non si trova, e per le visite che in questi ultimi anni la morte ha fatto all’improvviso in casa nostra, ma mio padre dovrebbe piantarla di buttarmi sempre giù, però se glielo strilli sul muso, lui singhiozza che è in ansia per me, per il mio futuro, per la mia salute, perfino per i calli che non tengo, e che vorrebbe vedermi sistemato prima di chiudere gli occhi, manco tenesse novant’anni. In realtà ne ha appena finiti cinquantuno. Il suo guaio è forse che, da quando è morta mamma, non s’è innamorato più. Così, almeno, sostiene Olga che invece è innamorata da quasi sei anni del figlio minore del cantiniere che si chiama Antonio e disgraziatamente è balbuziente.

Ho conosciuto Rita in metropolitana, mentre gironzolavo senza meta per tenermi alla larga dalle lagne paterne, e m’è piaciuta subito. Datemi pure dell’imbecille, ma io, al posto delle teste della gente, vedo bocce di vetro con dentro dei pesci. Certi tengono in testa ferocissimi barracuda, cioè pensieri orrendi, di quelli che vengono in mente solamente agli assassini. Altri ospitano pesciolini minuscoli, tanto aggraziati, il che corrisponderebbe a riflessioni un po’ sceme, ma certamente di poco danno. I pesci di Rita sono tropicali, a righe arancio e gialle, e mentre danzano tra mille bollicine, fanno ogni tanto capolino dai suoi occhi.

“Lavoro in teatro. Sono assistente alla regia” ha detto.

“Uh, che bello!” ho stronzeggiato io.

“Vuoi lavorare? Cerchiamo un attore.”

Senza pensarci, le ho detto di sì, perché profumava di mandorle, e rideva un sacco, ma oggi ne sono un tantino pentito, perché Rita è in realtà falsa. Proprio così, è tutta fasulla! Si finge pecorella, ma è una volpe! Sbatteva le ciglia, facendo più aria che con un ventaglio, per illudermi che tra noi due stesse per iniziare un bel film, di quelli con parecchi violini nella colonna sonora, e invece mi ha incastrato come un fesso senza neanche darmi un bacio. Ecco perché mi ritrovo qui appeso.

L’idea di appendermi come un salame è di Matteo Belmonte, un regista teatrale che è cresciuto a Posillipo, in una specie di maniero antico, anche se va raccontando a tutti, chissà perché, d’aver vissuto un’infanzia di stenti. Rita afferma che solo così gli si placano i sensi di colpa per i privilegi di cui ha goduto e tuttora gode. Pare sia famoso pure a Londra e a Berlino, e io mi chiedo veramente come mai. Forse lassù non sanno indovinare chi tiene la cazzimma, cioè chi è tutto calcolo e niente cuore, eppure è così semplice capire che questo tiene nel petto solamente un orologio a cucù. Il suo sguardo ti gela, da dietro gli occhialetti incorniciati d’arancione, e quei riccioli grigi potranno pure suggerire un’idea di genio sregolato, ma di sicuro andrebbero scorciati. Nell’invisibile boccia di vetro che porta sul collo, vedo un gigantesco pesce spada che punta a segare il mondo in sottilissime fettine per poi papparselo senza rimorsi. Forse piace all’estero, ammesso che sia vero, perché tiene la cupezza di chi sa darsi importanza, oltre all’arroganza traseticcia del topo, e non a caso veste sempre di grigio e di nero. 

«Il cadavere di Polinice dev’essere calato dall’alto!»

Il maestro ha deciso, e nessuno ha fiatato. Polinice, lo avrete capito, sarebbe il sottoscritto. Così, ogni sera, mi avvolgono in un lenzuolo, ma così stretto che a stento rifiato, dal quale mi spuntano solamente la testa e i piedi. Sopra un soppalco si piazzano due giganti, Vittorio e Cristiano, che mi tengono per le caviglie. Sotto di noi ci sono Ada Rocca e Lena Renzi, che recitano le parti di Antigone e Ismene, e che devono sollevarsi sulle punte dei piedi per prendermi tra le loro braccia e poi depormi, con la maggior delicatezza possibile, sulle assi del palcoscenico. Il tutto, ovviamente, senza smettere di declamare gli stramaledetti versi di Sofocle.

«Speriamo che funzioni meglio di Sergio!»

Così ha sospirato Matteo Belmonte, studiandomi in tono assorto, e per stargli alla pari Rita fa boccuccia con aria dubbiosa, mentre io mi chiedo con un certo batticuore chi sia Sergio, per quale motivo non funzionava, e soprattutto che fine ha fatto. 

Faceva evidentemente il morto prima di me, ma sarà ancora vivo? Sarà tutto intero? Mi sono sorpreso a chiedermelo con una certa trepidazione durante tutto l’arco delle prove, anche perché m’impensierisce alquanto la fragilità delle braccia che dovrebbero sostenermi: Ada Rocca è un donnone, d’accordo, ma io peso settantotto chili, e Lena Renzi è poco più d’una ragazzina, con due braccelle rachitiche che fanno una certa compassione. 

Chi mi garantisce che non scivolerò loro di mano? Come posso essere certo che non mi faranno precipitare sulle tavole del palcoscenico, con la certezza, cadendo da oltre due metri, di spaccarmi la testa come un melone?

Durante le prove, a dire il vero, Ada e Lena hanno gonfiato i bicipiti e se la sono cavata onorevolmente, tant’è vero che io esisto ancora, ma stasera stiamo andando in scena davanti al pubblico, e nel buio percepisco il respirare, il bisbigliare, il tossicchiare d’un centinaio di spettatori che si sono ammassati nella microscopica platea. E non posso escludere che la loro presenza, oltre alla paura del giudizio dei critici, riempia d’emozione le due attrici, rendendole più incerte nei movimenti, meno tempestive, più maldestre, con gran pericolo per la mia incolumità.

C’è, poi, un altro dettaglio che mi allarma un tantino: no, non è il fatto che rischio la pelle senza beccare neanche una lira, perché qui sostengono che più della vil pecunia conta il prestigio d’aver a che fare con un sommo artista. Non è questo a darmi fastidio, e neanche che in trenta e più giorni di prove non sia riuscito a instaurare con Rita uno straccio d’intimità. Una sera, anzi, che l’ho avvolta nei miei tentacoli, la spudorata ha avuto la faccia di dire: “Ti prego, non sciupiamo la nostra bella amicizia”, ed è solo per educazione che non ho replicato: “Perché, fra noi c’è una bella amicizia?”. 

Non m’inquieta neanche il fatto che, per ammazzare la noia di tenermi sospeso per le caviglie, quei buontemponi di Vittorio e Cristiano si divertano a titillarmi le piante dei piedi un attimo prima di calarmi di sotto, costringendomi a mordermi le labbra per non ridere, poiché Sofocle non prevede che Polinice sghignazzi, no, non è neanche questo a turbarmi. Si tratta d’altro. 

È Matteo Belmonte, è il genio riccioluto, a preoccuparmi.

Ha premiato con baci infuocati, e pubblici abbracci, gli sforzi che la florida Ada ha fatto ogni sera per tirarmi giù dall’impalcatura. I due formano una celebre coppia di amanti, le cui fotografie appaiono di continuo sui giornali, mentre se la spassano con uomini politici, prevalentemente dell’area progressista, perché agli altri la tragedia greca mette sonno. Sono molto affiatati, o almeno così dicono, benché lei conti dodici primavere in più, e calcasse già le scene quando lui faceva l’asilo. Fin qui tutto bene, ma ieri sera ho gettato un occhio nel camerino del maestro, e l’ho sorpreso mentre, osservando giusto un minimo di cautela, baciava con foga da studente la diafana Lena che, in omaggio a un’idea simmetrica che il genio coltiva dell’esistenza, ha dodici primavere meno di lui, ed è quindi più fresca della collega. 

Non è che m’interessino in modo speciale gli affari di cuore del glacialmente gentile, e internazionalmente noto, Matteo Belmonte, ma non posso fare a meno di pormi un quesito: se è già difficile per le due rivali in amore raccogliermi dalle mani di Vittorio e di Cristiano a causa della mia rispettabile stazza, che cosa succederà quando, in aggiunta al panico che la presenza del pubblico procurerà inevitabilmente alle due attrici, esploderà in Ada il dispetto, e la furia, di sapersi tradita dal suo uomo con Lena? 

La loro presa rimarrà sufficientemente solida, oppure sfuggirò loro di mano per piombare sulle tavole del palcoscenico, fasciato come una mummia e quindi incapace di muovere anche un dito, ponendo così fine ai miei stupidi giorni? Stupidi, sì, perché proprio stasera ne ho saputa un’altra, giusto un attimo prima che si levasse il sipario. Quasi non credevo ai miei occhi quando, nel buio dietro le quinte, ho visto l’infaticabile Matteo Belmonte ficcare la lingua in gola a quella furbacchiona di Rita, le cui grazie ancora m’illudevo, figuriamoci, di poter godere a tempo debito. 

Ada e Lena non bastano a riempire le nottate e i pomeriggi del celeberrimo regista, no, perché adesso vuole farsi pure a Rita. 

Perché alle donne piacciono i peggiori, i più furbi e i più falsi? Se fossi donna, lo giuro sulla testa di papà, non degnerei Matteo Belmonte d’uno sguardo. Il mondo, però, va avanti a modo suo, e nessuno glielo può impedire. Le donne, ma non soltanto loro, preferiscono chi finge autorevolezza a chi manifesta un genuino entusiasmo, perché l’entusiasmo è di chi resta giovane a lungo, e si sa che dei giovani si ride sempre volentieri. 

Ed eccomi qui, atletico e ricciuto, carino quanto basta, anche se da anni non mi annusa neanche un cane, appeso a mezz’aria sopra le tavole del palcoscenico, pronto per essere calato tra le braccia delle due artiste. Saranno all’altezza del duro compito? Con le dita sudate mi sfiorano le tempie, tentano di afferrarmi per le spalle, e io socchiudo un occhio per cercare di indovinare dalle loro espressioni se Ada ha saputo di Lena, e se questa ha saputo di Rita. Se è così, potete pure dire addio ad Angelo Amoroso che sta per sfracellarsi sopra queste tavole senza lasciarsi dietro niente che sia da rimpiangere. Porca miseria, però io non voglio crepare! C’è ancora tanta vita nel mio futuro! Per un passo così impegnativo mi pare ancora un po’ presto. In platea, da qualche parte, sono seduti Olga e papà. Chissà quale reazione avrebbe il vecchio vedendomi cadere, ma scommetto che non piangerebbe la metà delle lacrime che ha sparso per Pietro. Neanche la metà, ve lo assicuro, e tutt’a un tratto mi sale un’incazzatura, ma di quelle bibliche, perché mi sono scassato di dipendere sempre da cose che non posso controllare, e vi giuro che se mi salvo stasera, in teatro non ci torno più e mando affanculo pure papà. Faccio la domanda d’assunzione per Pistoia, precisamente, perché mi dicono che lì si piglia subito il posto, e che negli asili infantili accettano pure i maschi, così dico addio a Fuorigrotta e finalmente mi vedo un po’ di mondo. L’importante, però, è che stasera non mi ammazzino. Ada, per la verità, mi fa scorrere un brivido per la schiena quando lancia un urlo a Lena.

«Diamogli degna sepoltura!»

A te e a màmmeta, vorrei replicare, ma non posso, perché Sofocle non prevede neanche che Polinice imprechi, e allora devo solo aspettare che queste due cretine mi tirino giù, però vi confesso come se foste tutti miei parenti stretti che, nell’attesa, mi sento un po’ strano, diverso dall’Angelo Amoroso d’ogni giorno. Voi direte che è per la fifa di spezzarmi il collo, ma io so che non è soltanto per questo. La verità è che sono molto seccato, quasi offeso.

Francesco Costa. Giornalista, napoletano, ha sceneggiato film come L’altra donna di Peter Del Monte (che ha vinto il premio speciale della giuria alla Mostra di Venezia del 1980), e Così fan tutte di Tinto Brass. È autore di dieci romanzi, nella maggior parte di ambientazione partenopea, due dei quali sono diventati film (La volpe a tre zampe con Miranda Otto e L’imbroglio nel lenzuolo con Maria Grazia Cucinotta). Forse a causa delle origini tedesche è attento al tema del doppio, del sosia e dei complotti. Autore anche di libri per bambini, vince il Premio Selezione Bancarellino 2011 con La scuola dei veleni. I suoi libri sono tradotti in Germania, Spagna, Grecia, Giappone.

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