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Racconto della domenica: “Sabra e Chatila” di Nando Vitali

A Capri, dove splende sempre «un sole infuocato» e il mare è «limpidissimo», da giorni l’acqua è una «lastra gelida», il vento piega alberi e pali della luce, i collegamenti sono interrotti. Nel porto immobile, tra le tante, una nave è in attesa di riprendere presto il suo viaggio. Quando tornerà a splendere in cielo la «luce potente», si lascerà dietro il Tirreno «guizzante di pesci e di spuma azzurra», diretta verso un altro e più lontano paradiso. Per farlo proprio. E, nel frattempo, ondeggia la pancia, cullando il suo carico prezioso come farebbe una mamma. Ma le sue sono però ninna nanne «di attesa e di paura».
Nando Vitali scatta una diapositiva a una Capri diversa da quella delle riviste, dalla «natura malvagia e soprannaturale». E per esserne salvi non basta certo «pregare e fare spesso la comunione.

Racconto della domenica: “Sabra e Chatila” di Nando Vitali

Il temporale si annunciava con misteriose saette che illuminavano il buio incipiente, e le nuvole si addensavano in modo minaccioso, come se una misteriosa forza le risucchiasse l’una verso l’altra, formando un unico grande ammasso.

Le due bambine si strinsero forte.

«Ho paura» disse Sabra, la più piccola.

«Non ti preoccupare, non è nulla. È solo il temporale» le rispose Chatila.

Ma all’esterno gli alberi si flettevano nello sforzo di contrastare il vento che veniva dal mare, spazzando furiosamente le acque al largo di Capri. Onde altissime andavano a spezzarsi sulla costa che cadeva a picco sulla lastra gelida dell’acqua, gorgogliando in risucchi strazianti, di bestie ferite.

I collegamenti per Capri erano interrotti da giorni. Sulla banchina stazionava una nave cisterna dalla cui pancia si allungavano tiranti metallici, che ricordavano tubi per l’ossigeno, facendo somigliare quel cargo a un’imbarcazione fantasma.

Di notte luci giallognole filtravano dagli oblò.

I fulmini dal cielo cadevano in modo obliquo sul ponte creando corto circuiti, come uno strano esperimento di cui se ne intuiva la natura malvagia e soprannaturale. Ma per capire cosa fosse la crudeltà si sarebbe dovuto entrare nella pancia della nave.

I due uomini adesso erano seduti al tavolo più prestigioso di Capri.

Un chitarrista, che di professione faceva il chirurgo plastico, animava la serata con accordi stucchevoli che gli uomini ascoltavano distrattamente, presi da ben altri pensieri. 

Le donne, invece apprezzavano. Apparecchiate come madonne. Con ex voto penzolanti, dalle orecchie alle caviglie. Il loro collo, scurito dalle lampade, era ricoperto di monili, prevalentemente etnici, e molto appariscenti. Gli esili polsi erano il terminale di braccia magrissime, punteggiate da macchie marrone chiaro e dalla pelle stirata sulle ossa lunghissime. Quelle donne sognavano amori romantici, e sognavano anche di togliersi scarpe troppo strette, sacrificate in piedi troppo grandi. Nella loro testa svanita da un velo di alcool, pensavano a quando sul letto girevole della camera d’albergo, circondato da specchi, sarebbero state stuprate dai loro uomini, mentre i cellulari sfregiavano la notte con musiche ridicole. 

Quelle signore, di tanto in tanto, con uno scatto rabbioso, si avviavano a fumare nell’unico angolo del locale dove era consentito. Da lì potevano vedere i faraglioni che nella notte sembravano cani da guardia alla catena.

«Come hai potuto fartele scappare?» disse uno dei due. 

L’altro non rispose. Si limitò a sorseggiare una birra scura. Poi, guardandosi intorno, sembrò avere negli occhi un tremolio rapace. Come se perlustrasse la sala alla ricerca di qualcosa. Avvertiva nell’aria gli atomi dell’elettricità che si cercano somigliando ad animali che si organizzino per la caccia.

L’uomo era soprannominato “lo Scuro”. Amava mangiare carne al sangue, i documentari sulla natura, bere birra, e aveva sulla coscienza molti morti che galleggiavano in attesa di riposo e di vendetta. Era molto probabile che dentro di lui si fosse formato un vuoto, nel quale tutto quello che cadeva si scioglieva in un acido mortale.

Assumeva droghe leggere, sogghignava di tanto in tanto, ed era appassionato di ogni varietà di uccelli da gabbia e da voliera. Ne aveva un’ampia collezione, una piccola giungla personale. Adesso pensava di procurarsi un’iguana. Credeva negli extraterrestri, coi quali diceva, schioccando la lingua, di essere in contatto, mostrando una cicatrice sul braccio destro, una specie di croce incisa nella carne. E inoltre, evidenziando un segno sul collo, sotto l’orecchio sinistro, diceva di averci ficcato un microchip. Ma era religioso e aveva staccato la flebo al suo vecchio per dargli riposo e sonno eterno, sotto suggerimento di padre Pio.

«Le riprenderemo, stai tranquillo» rispose infine, sospirando soddisfatto, lo Scuro. 

Aveva finalmente individuato la preda, e non se la sarebbe fatta scappare. Chiamò, infatti, il cameriere, gratificandolo con una mancia plateale.

La donna prescelta, all’altro capo della sala, era con altre due amiche. Dovevano essere dell’Est, ucraine o russe forse. Lei lo guardò come da un punto lontanissimo dell’universo, pulsando come una stella morente. Un poco lusingata, e un poco perduta. Ma vinse la stella morente. Strinse però con ingordigia nella mano, discretamente distesa, il denaro che il cameriere le aveva premuto nel palmo. Anche lui si prese un pezzettino di quella donna cercando il contatto con la mano. L’odore di lei, un misto di profumo di poco prezzo e sesso, fu per il galoppino una specie di elettroshock. Se ne tornò in cucina euforico e frastornato, bestemmiando di ammirazione, fra i fornelli, i sughi palpitanti e le gocce di grasso che colavano dai muri e le mattonelle azzurre tipiche dell’arte ceramica caprese.

Si alzarono dal tavolo, e il primo, che era detto “il Ragno”, si allontanò con passo sghembo, avvinghiato a un bastone di legno pregiato. Si avviò verso la banchina, dove lo aspettava la nave cargo Lucia. 

Il tempo minacciava ancora pioggia, e faceva freddo, anche se era settembre appena inoltrato. Era un uomo molto religioso, e quel temporale di due giorni prima lo aveva turbato. Pensava alle due bambine sfuggite. Al danno economico. In cuor suo, però, temeva la scure di Dio. La bestia furiosa che si scatenava contro i malvagi.

Nella stiva della nave c’era aria di attesa e di paura.

Sabra aveva cominciato a piagnucolare.

Con un piccolo singhiozzo trattenuto a stento. Si attaccava ai lunghi capelli neri di Chatila, accoccolata nell’incavo fra la gola e la pancia della sorella. Sentiva il suo respiro mischiarsi col suo, e con le spalle spingeva come a volerle entrare nel corpo.

Sul giornale locale avevano scritto dei pericoli che venivano dai nuovi ricchi che insieme ai soldi portavano morte e corruzione. Inquinavano la bellezza dell’Isola Azzurra. Ma erano notizie che si perdevano in superficie, fra i notiziari dei vip, i loro amori, le feste e qualche sagra cerimoniosa di santi in processione.

In altri articoli si diceva dei cambiamenti climatici che non avrebbero risparmiato nemmeno l’isola più bella del Mediterraneo. Già se ne sentivano gli effetti, specialmente a Villa San Michele, dove alcune specie rare di piante erano già morte. E poi un’infezione, una sorta di tigna bianca, che faceva somigliare i pini marittimi a lebbrosi mangiucchiati dal male. Tutto veniva ricondotto alla data millenaristica del 2012, di cui se ne aveva un’idea confusa, ma che in definitiva incoraggiava a cogliere della vita tutte le occasioni propizie di piacere.

Ma quando arrivava la notte, quegli alberi sofferenti gocciolavano sul terreno un liquido rossastro. Qualcuno aveva letto in quella fanghiglia la parola “aiuto”. Forse c’era chi soffiava sul fuoco della paura e della superstizione, o abili orchestrazioni turistiche per creare stupore.

Il parroco, però, sosteneva con convinzione che il diavolo si era trasferito a Capri sotto forma di autista di pullman turistici, e spargeva il contagio. Conveniva pregare e fare spesso la comunione.

Nei fatti non accadevano incidenti stradali così frequentemente sull’isola da tempo immemorabile. Specialmente agli incroci. Lì volavano fra i conducenti orrende bestemmie, scoppiavano liti furibonde per un nonnulla, e in particolare due bus erano rimasti incastrati da ore in una delle vie più strette di Capri, dove campeggiava un tabernacolo della Madonna con gli occhi velati di lacrime.

«Smettila di piangere» aveva intimato Chatila. «Finirai per farci scoprire.» E aveva carezzato gli occhi che non trovavano sonno ormai da tre giorni.

Il rapimento. Il viaggio. La traversata

Il viaggio per raggiungere Capri era stato molto lungo. Al momento del rapimento i bambini dovevano essere stati drogati. Alternavano fasi di torpore a rapidi risvegli nei quali, coperti dai cappucci e con le bocche imbavagliate, stentavano anche a respirare. Perfino il loro recente passato si perdeva nella mente, rimanendo confuso nelle pieghe del cervello. Sentivano solo il battito costante del cuore, che in modo autonomo segnava il tempo. La realtà e l’incubo si fondevano in rumori accidentali, nella bocca l’asprezza della sete, e un amaro che proveniva dal profondo dello stomaco, nella cupezza dell’intestino cieco. I sensi si erano contratti fino a un’essenzialità animalesca.

Chatila aveva sognato una macchia gigante – di cui non individuava l’origine – dal colore rosso che si allargava nel buio della sua mente.

Era stato, quello, un sonno molto breve, e si risvegliò di scatto tirando violentemente a sé Sabra, nel timore di perderla.

Adesso il ricordo e tutta la violenza di quella traversata le si era rovesciata addosso, azzannandola alla gola come un animale feroce. Nelle orecchie aveva un leggero ronzio che la teneva costantemente in allarme.

Era il residuo di fondo delle bombe che erano schizzate attorno a loro, lanciando nell’aria infuocata piccoli lapilli, uova arroventate che al contatto col terreno emettevano uno strano fumo, e un odore di carne bruciata. Proprio come quello che aveva sentito friggere nel campo dove erano state sistemate, o meglio dapprima stipate, come in un grande magazzino, dopo la tragedia, dopo che erano rimaste sole.

Successivamente nel campo, però, non erano state male.

Di lei e di Sabra, sua sorella, si occupavano delle belle ragazze in uniforme blu. Delle volontarie. Tutte molto gentili. Una di loro le aveva portate a sentire il canto del deserto.

Quando la notte si avvicinava, e nel campo risuonava un letargo silenzioso, e i container si illuminavano del fioco chiarore delle lampade portatili. Nella notte quelle abitazioni sembravano spettri incappucciati.

Fu in una di quelle notti che d’improvviso, nel sonno incerto, si ritrovarono trascinate di peso con dei sacchi che le ricoprivano la testa e metà del corpo, fino alla cintola.

Sabra e Chatila si erano cercate nel buio, e Sabra aveva gridato, fin quando, forse un pugno, l’aveva zittita, quasi stordendola. Chatila chiamò la sorella. Ne sentiva il mugolio sommesso che avrebbe distinto in mezzo a mille.

Lei frignava in continuazione, e riusciva a calmarla soltanto cantandole delle vecchie ninna nanne.

Capì che erano state rapite, e che nel camion che le trasportava, non erano sole. Si sentiva una specie di respiro collettivo che gravava su tutti. Un ansito caldo che, nonostante le bocche sigillate dal nastro adesivo, si nutriva ingordamente dell’aria come se l’aria fosse una cosa da mangiare.

Chatila sapeva che nessuno avrebbe risposto alle sue domande, ma strisciando nel buio alla fine aveva trovato la mano di Sabra. L’aveva stretta tanto forte da farle male. Ne aveva distinto le dita da ragnetto, e le unghie morbide e rosa che lei si infilava nel naso perché odoravano di capelli e di pane.

Successivamente la nave madre li aveva raccolti e portati sull’isola. Lì erano attesi.

Nella stiva, uomini, a loro volta mascherati di nero, li avevano liberati dai cappucci. La scena vista dall’alto era come un grande misterioso risveglio di uova aliene che si schiudevano. Nascevano esseri di vetro, dalla pelle liscia e gli occhi grandi, bambini e ragazzi, che si annusavano l’un l’altro.

Uno di loro, più audace e temerario, toccò Chatila e mormorò: «Conosci la clinica?».

Odorava di sporcizia. Ma a Chatila quel contatto piacque.

«La clinica? Cos’è la clinica?» rispose preoccupata Chatila. 

Zittì bruscamente Sabra che aveva iniziato a ripetere: «Chatila, Chatila, voglio andare via. Voglio mamma…».

Il ragazzo di fronte a lei la guardò fisso. Era magrissimo. I capelli rasati e gli occhi enormi e grigi, sul fondo si intravedeva come una scheggia rossa di sangue.

Chatila pensò che avesse un problema agli occhi. Quello sguardo le faceva paura, la inquietava, anche se era privo di qualsiasi minaccia.

Il ragazzo tirò fuori dalla tasca una bottiglia di Coca-Cola, e inalò, respirando avidamente. Un odore acido si sparse.

Fu come colpito da una scarica e irrigidì il collo.

Poi offrì la bottiglia a Chatila che fece un gesto con la mano per dire di no.

Nella pancia della nave le facce dei bambini erano spuntate come spore di funghi. Si guardavano intorno, e si organizzavano porzioni di spazio, assicurandosi la protezione delle spalle. Qualcuno si trascinava verso un punto immaginario procurandosi piccole collisioni con gli altri.

Uno più grosso, dal corpo dilatato e dalla faccia da vecchio, a cui mancava un occhio, si era alzato, avvicinandosi a un oblò dal quale filtrava una striscia di mare nero.

La nave di tanto in tanto si muoveva con piccoli spostamenti lamentosi. Nell’aria l’elettricità prometteva un temporale.

Le previsioni meteorologiche parlavano di una nuvolaglia scura in avvicinamento. E del formarsi lento e minaccioso di un vortice ventoso. Forse una tromba d’aria che veniva ondeggiando dal mare profondo. Un recente cataclisma all’altro capo del pianeta ingenerava nella gente comune una paura segreta che gli abitanti si passavano con frasi smozzicate. Si insinuava, si facevano accostamenti fra le colpe dell’amministrazione e lo scadimento dei costumi e della moralità. Alcuni gruppi di preghiera si erano radunati su di una spiaggia come se il frutto del peccato fosse fra loro, e qualche timida protesta era apparsa sul giornale locale, dove cittadini invocavano l’allontanamento degli stranieri che portavano con loro malattie.

«La conoscerai, la clinica. È là che siamo diretti. Ma non ti preoccupare ti tratteranno bene. Tu sei bella. Ma… tua sorella. Lei come farà?» disse il giovane, mostrando di saperla lunga, improvvisamente serio e rilassato.

«Tu non preoccuparti. Lei resterà con me. Ci penso io a lei» rispose stizzita Chatila. E si sedette ammutolendosi in modo definitivo.

Quando scoppiò il temporale la nave ondeggiò. Una luce rossastra si allargava all’interno della stiva come percorrendo la strada di un incendio.

Il ragazzo grosso infilò l’occhio deforme in una fessura da dove arrivava dell’acqua fredda che cadeva sul pavimento rendendolo scivoloso. I piccoli prigionieri sussultarono spandendosi intorno alla ricerca di un’uscita. La luce di una lampada poggiata su di un tramezzo oscillava deformando i corpi, facendoli somigliare a fili ritorti.

I bambini annaspavano sulle gambette. La piattaforma si riempiva d’acqua mischiandosi a una polvere nerastra che si era riversata da una grossa botte. All’esterno, in alto, verso una botola, si sentiva abbaiare, e i piedi dei bimbi sguazzavano come papere isteriche.

Chatila, con la mano afferrò quella di Sabra, trascinandola con sé.

Un boato si disintegrò nella notte.

Il cielo doveva essersi crepato. Un tetto precipitato su se stesso, ingoiando il proprio corpo in una presa mortale.

Poi una poderosa ondata, un’onda anomala, che pareva avesse un disegno preciso e distruttivo.

Il latrato dei cani, dapprima aumentò, poi si udirono una serie di guaiti tormentosi. Nella mente di Chatila, apparve l’immagine della madre morta. Il suo corpo senza vita, lì fermo sulla strada, e lei immobile, mentre le pale degli elicotteri sperperavano nell’aria un moto di energia che a lei sembrò irreale. Madremortapersempre.

La botola si aprì, e qualcuno dall’alto cominciò a urlare ai bambini di salire su, e di farlo in fretta. Ma Chatila pensò che era meglio nascondersi dietro a dei cordami che per un innaturale equilibrio di opposti erano rimasti fermi, ancorati. Gomitoli avvolti in forma di nido.

Piovevano urla e oggetti dappertutto. Un rumore di cose sbagliate e difettose che si intrecciavano fra loro.

Sabra e Chatila restarono lì. Sabra come un granchietto abbarbicato a Chatila. Quando tutti se ne furono andati scivolarono nella notte risalendo dalla botola, simili ad animali resuscitati a una glaciazione, come da un pozzo nero. Solo i tuoni a fargli compagnia, scortandole nel buio.

«Chatila ho freddo, non ce la faccio a correre. Fermiamoci…» diceva piagnucolando Sabra. La sua piccola mano assicurata a quella della sorella che la conteneva come un guscio. 

Sabra sentiva sulle gambe scoperte il filo tagliente delle piante e dei rami spezzati. L’acqua le cadeva sulla bocca e lei la leccava cercando di capire da quel sapore e dal vento che le arrivava sulla faccia, dove si trovava. Aguzzava le orecchie.

«Cammina e stai zitta» le rispose brusca Chatila, cercando di mantenere una velocità costante, costretta a strattonare di tanto in tanto Sabra. 

Poco più in là – ma loro non potevano vederla – la piccola foresta, era costeggiata da una strada. Ai suoi margini, sul bordo l’acqua cominciava a creare rivoli che scorrevano in un principio di fiume.

L’oscurità si spandeva come un morbo. Chatila sentiva il cuore battere forte. Pensò all’immensità di Dio che non poteva immaginarsi.

“Salvaci… salvaci.” Pensava con forza. Ma le tornavano in mente le bombe, il loro uscire dal cielo, uccelli dalla testa pesante.

«Voglio mamma. Mamma dove sta?» disse in modo monocorde Sabra, come una bambola rotta. 

Chatila non rispose. Ma la vide sull’asfalto fumante. Vide la loro mamma. Mammamortapersempre. Avrebbe voluto volare. Essere come quegli eroi dei cartoni animati che aveva visto in televisione, quando nel campo tutti si affollavano attorno al generatore. E quelle giovani ragazze vestite di blu ridevano e battevano le mani. Sembravano felici. 

“Non preoccuparti. Sarai felice. Ti sposerai e avrai tanti figli e una bella casa” le aveva detto il ragazzo che succhiava l’aria dalla bottiglia di Coca-Cola. 

Ma lei pensò a Sabra. E il cuore le si strinse. Lei che fine avrebbe fatto?

Arrivarono in un piccolo capanno. Le gambe di Sabra sanguinavano. Lei con le dita raccolse quel sangue e lo succhiò, e le venne da vomitare. 

Le piccole ginocchia erano incespicate più volte, e adesso erano mischiate di fango, acqua e sangue. La piccola gonna scomposta e strappata aveva perduto i colori. Il viso della bimba bruciava di febbre e di foglie profumate.

Nel capanno si mischiavano odore di letame e legna marcita.

Un piccolo tavolo e il corpo rinsecchito di un uccello che era andato a morire lì. Il becco tirato, e gli occhi bucati e neri.

Si addormentarono in un misto di paura e felicità.

Per due giorni restarono nascoste in un clima incerto, col pensiero di vivere, ma con la morte che le guardava dall’alto. Resistevano lavorando con la fantasia come si lavorano i metalli, formando oggetti, materia delicata, sorridendo, separandosi ogni volta solo per poco.

Anche se per Sabra, quando Chatila si allontanava, era un’attesa infinita.

I due

I due uomini entrarono nel capanno. Erano vestiti a festa, eleganti. 

Lo Scuro sorrise soddisfatto.

L’altro, il Ragno, che arrancava sul bastone, aveva l’aria scontrosa e si dava colpi sulla gamba marcia, che risuonarono nella mente di Sabra.

«Chatila sei tu?» disse Sabra. 

L’altra non rispose. 

Era imbavagliata e i suoi occhi erano pieni di lacrime che bruciavano la gola.

Un cane latrava all’esterno, e si sentiva un rumore di motore che borbottava a regime bassissimo. Il temporale si era definitivamente placato.

Un’auto rossa, una vecchia utilitaria malandata, dove avevano dormito i cani, stazionava fuori. Si sentiva puzzo di escrementi. Nel portabagagli erano sistemate piante e sacchi di fertilizzanti.

Il guidatore tamburellava sul volante e fumava nervosamente.

«La più grande la porto con me» disse quello con la stampella. «È una bella ragazzina…» 

Lo Scuro lo guardò interdetto, e dentro di sé pensò a quanto ci avrebbe guadagnato invece con l’altra, quella più piccola. Una come quella poteva valere molto. Davvero molto…

E gli vennero in mente le farfalle. Il loro volo breve ed effimero. Gli piacevano le farfalle, e tagliava loro le ali per vederle agonizzare. Le guardava estasiato e quasi provava un orgasmo come quando scopava. Quel lungo tremolio del corpo, i punti neri degli occhi. E infine la stanchezza mortale.

«Quella cieca la vendo al Califfo. Ma me la deve pagare bene il merdoso.»

E guardando Sabra disse fra sé, d’improvviso incupito: “Però che vita di merda”. E si accese una sigaretta.

Sulla porta della capanna l’ultima cosa fu la voce strascicata di Sabra che piagnucolando chiamavaChatila.

Il giorno dopo su Capri splendeva un sole infuocato, e i faraglioni si erano arroventati accecati dalla luce potente.

In Piazzetta ci si abbandonava a brioche e cappuccino.

Ma nella parte alta dell’isola, da dove si vedeva la clinica, due autisti di pullman, in preda a convulsioni, si contendevano il passaggio a un incrocio troppo stretto.

Ma non era il passaggio per il paradiso. Era solo il collo spezzato del bene abbandonato a se stesso. Un palo dell’elettricità abbattuto dal vento, si era messo per traverso ostruendo una delle vie che portavano al belvedere.

Il mare era limpidissimo, e a occhio nudo si vedeva il fondale. La Grotta Azzurra era guizzante di pesci e di spuma azzurra che restava sospesa sull’acqua limpida. 

All’orizzonte la nave cargo Lucia riprendeva il viaggio di ritorno, ormai svuotata. 

Quella che in gergo era chiamata “la clinica” era luogo di smistamento, abilmente mimetizzata da centro benessere dove uomini d’affari e famiglie perbene si disintossicavano dai veleni e dagli stress. Un fiume di carne umana che si lasciava manipolare e lisciare accettando la solitudine del mondo, ma non lo sfiorire del tempo. 

Sotto di loro, nei sotterranei, una bambina senza occhi si domandava dove fosse sua sorella. E non sapeva darsi una risposta.

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Nando Vitali è nato a Napoli nel 1953, quartiere di Bagnoli, è scrittore, editor e docente di lunga data di scrittura e lettura creativa con il laboratorio L’isola delle voci. Ha collaborato, e collabora ancora, con diverse riviste e giornali. È il fondatore delle riviste letterarie Pragma e Achab e ha curato anche gli scritti di Nicola Pugliese, Michele Prisco, Luigi Compagnone. Autore di molti racconti, ha scritto anche romanzi: L’uomo largo (Edizione Terra del Fuoco, 1987); Chiodi storti. Da Ponticelli a Napoli Centrale (Compagnia dei trovatori, 2009); I morti non serbano rancore. Foibe. L’avventurosa storia del Capitano Goretti (Gaffi Editore, 2011); Ferropoli (CastelvecchiEditore, 2017).

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