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Racconto della domenica: “L’importante è rientrare nel bagget” di Maria Rosaria Pugliese

L’esistenza di un tranquillo pensionato, «uomo modesto […] ma non un poveraccio», divisa tra fedeli ricordi alla «sua Lucia» e una tenera cotta per una giovane dottoressa, animata da spese al supermercato «due volta alla settimana» e dalle solite «quattro chiacchiere» con gli amici pensionati, al parco o in sala d’aspetto del medico della mutua, viene sconvolta da una dispettosa fortuna. Improvvisamente fuori dal suo bagget, il savio Giannino perde la testa per «fiumi di latte e laghi di zucchero» e si sente arrivato in America. Il suo cuore «strapazzato» resta però, fino alla fine, quello di un uomo che «per tutta la vita aveva goduto della stima altrui».
Maria Rosaria Pugliese ci regala un racconto sulle emozioni piccole ma di grande valore, che non necessita di sconvolgenti eventi per commuovere. Uno scorcio di vita comune di incredibile umanità, sullo sfondo di una Napoli vera e sincera.

Racconto della domenica: “L’importante è rientrare nel bagget” di Maria Rosaria Pugliese

“Finalmente!” pensò Giannino Auriemma avviandosi tutto contento e di buon passo verso i giardinetti pubblici, un francobollo di verde scolorito dove gli anziani del quartiere si erano ritagliati un loro spazio, attrezzato poco alla volta con un tavolo e qualche sedia. Tra una partita di tressette, talvolta anche litigiosa, e un ti ricordi?” tiravano l’ora di pranzo o l’inizio del telegiornale senza essere troppo d’impiccio ai familiari. 

Una bronchite prepotente, inchiodandolo a casa, con l’unica compagnia di una tosse ostinata, lo aveva costretto a disertare il parco per quindici giorni. 

Ma non si lagnava Giannino. Lui, grazie a Dio, a parte qualche piccolo acciacco, non aveva grossi problemi di salute.

La visita settimanale nell’ambulatorio del dottor Elia, il medico della mutua, era un’abitudine consolidata, anche quella un modo per fare quattro chiacchiere con altri pazienti perlopiù anziani come lui che lamentavano problemi di prostata o di cataratta. Il dottore gli misurava la pressione, l’auscultava, gli faceva dire trentatré, lo rassicurava e lo congedava con un buffetto amichevole sulla guancia.

No, non si lagnava Giannino. Ne aveva visti di compagni di lavoro gagliardi e ben piantati, che venirci alle mani sarebbe stato un suicidio, ora sospinti su una carrozzella dalla pietà di un parente, o dalla necessità di un extracomunitario. Qualcuno alla pensione non c’era neppure arrivato. No, non poteva lagnarsi e non doveva.

“C’è sempre qualcuno che sta peggio di te” gli aveva detto la mamma, tanti tanti anni prima, quando era un bambino dallo sguardo trasparente e i capelli capricciosi. Per tutta la vita aveva tenuto presente quelle parole e per questo era stato un uomo felice. 

Certo aveva immaginato ben diversa la sua vecchiaia: gli sarebbe piaciuto avere accanto, negli anni in cui i passi e la vista diventano incerti, la moglie, il figlio e molti nipoti ai quali avrebbe raccontato di quando, dal fondo della catena di montaggio, si levava in sordina una canzone che crescendo via via d’intensità attraversava come un’emozione tutta la filiera e gli operai cantavano per non impazzire. Ma Lucia, la sua Lucia, gli aveva fatto il dispetto – l’unico in tanti anni di matrimonio – di congedarsi improvvisamente da questa vita in un ventoso giorno d’aprile, e in quanto a suo figlio aveva lavoro e famiglia a mille chilometri. 

Però quel bravo ragazzo non mancava di telefonargli tutti i venerdì sera dopo le nove e un paio di volte l’anno veniva a fargli visita insieme alla sposa dai capelli color della spiga.

Recentemente gli aveva dato una gran bella notizia: era in arrivo un bebè e quel venerdì Giannino aveva versato lacrime di gioia e d’orgoglio con la fotografia di Lucia tra le mani. “Saresti diventata nonna, vecchia mia.” 

L’importante è rientrare nel bagget. 

Aveva sentito queste parole, ripetute come un ritornello, durante una trasmissione televisiva che non mancava mai di seguire nel primo pomeriggio. Un programma utile, dedicato ai consumatori, nel quale venivano prodigati tanti buoni consigli per fare la spesa nel modo più economico possibile.

La frase lo aveva colpito tanto che per non dimenticarla l’aveva scritta.

Il piccolo schermo era l’unico lusso che poteva concedersi da quando era andato in pensione: settecento euro il mese, questo gli toccava dopo quarant’anni di fabbrica, un terzo passato alla catena di montaggio.

L’importante è rientrare nel bagget.

Il consiglio gli tornava alla mente in continuazione come certe filastrocche che si mandano a memoria nell’infanzia e non ci abbandonano più, oppure quei motivetti che ogni tanto, inesorabili, ci tornano a fior di labbra. 

L’importante è rientrare nel bagget. 

Ora doveva andare a fondo di questa storia, comprendere il senso preciso di tali parole, e chi se non don Filippo poteva illuminarlo? 

Era un suo ex compagno di lavoro Filippo, in pensione anche lui. Ex sindacalista e letterato a tutto campo. Esperto di problematiche del lavoro e profondo conoscitore dell’animo umano. Comunista di quelli che mangiano i bambini. Possedeva la rara virtù di spiegare le cose, le più complesse, in modo così elementare da farsi intendere anche dai semplici. 

Giannino sapeva dove trovarlo. Quando don Filippo elargiva pillole di saggezza ai giardinetti, la platea aumentava a dismisura: perfino le tate con i carrozzini si fermavano ad ascoltarlo, affascinate dalla sua capacità affabulatoria. 

«La melanzana è originaria dell’Asia. I suoi frutti sono grossi, violacei, di forma cilindrica con polpa interna amara.»

Quel giorno al sapiente maestro era stato chiesto cos’è una tesi di laurea. 

«Come tutti sanno esistono diverse qualità di melanzane, alcune prendono il nome della regione dalla quale provengono, per esempio le siciliane. E tanti, tantissimi sono i modi in cui gustarle: a funghetto, arrostite, a scarpetta, sott’olio, indorate e fritte. Fanno la loro figura tra gli antipasti e nella caponata. Da sole rendono una ghiottoneria un sobrio piatto di pasta. Guarnite con cioccolato e canditi diventano il più esotico dei dessert. Ma permettetemi, amici, permettetemi di rendere omaggio a quella pietanza divina, vero cibo degli dei, che è la parmigiana di melanzane.»

E qui don Filippo s’interruppe e fece un mezzo inchino per riverire un’invisibile parmigiana. Riprese, consapevole di aver in pugno il pubblico: «Sicuramente vi state chiedendo cosa c’entrano le melanzane con una tesi di laurea. Vengo al punto: fare una tesi di laurea su un determinato argomento significa ricercare e poi scrivere tutto ciò che riguarda quell’argomento. Se qualcuno vi chiedesse di fare una tesi di laurea per esempio sulla melanzana, dovreste parlare delle caratteristiche della pianta, delle sue foglie, dove si coltiva, l’epoca della semina, quante varietà se ne conoscono, dei suoi fiori, dei suoi frutti, che tipo di cibo danno e delle qualità di questo cibo. Insomma tutto ciò che c’è da dire sulla melanzana. Dalla a alla zeta».

Lo sguardo vorticante di don Filippo passò in rassegna le facce attente degli spettatori. Aveva fatto centro. 

Giannino che non si era persa neppure una parola, si avvicinò e pose il quesito che gli stava a cuore. Il significato di quel tormentone: L’importante è rientrare nel bagget”.

Don Filippo ripeté un paio di volte la frase guardando oltre l’interlocutore alla ricerca di una delle sue fulminanti metafore. Dopo un po’, attaccò: «Supponiamo, Giannino, che tu voglia farti un vestito. Naturalmente vai dal sarto e il sarto che fa per prima cosa?».

«Mi fa scegliere la stoffa e mi prende le misure» rispose pronto Giannino. 

«Benissimo. Ti prende le misure perché l’abito deve andarti a pennello. È il tuo vestito, devi indossarlo tu e tu soltanto devi rientrarci, giusto? E non deve essere né largo né stretto. Ora il tuo bagget [don Filippo conosceva pure qualche parola d’inglese] altro non è che la tua pensione, nella quale devi rientrare come nel famoso vestito. Nulla deve avanzare, nulla deve mancare». Tacque e perquisì Giannino con lo sguardo per assicurarsi che avesse capito. 

Era una vita che Giannino faceva i salti mortali per rientrare nel vestito! 

Quell’anima santa di Lucia aveva sempre usato il sistema delle tazzine. Spartiva il salario del marito nel servizio di porcellana esposto nella cristalliera: una tazzina per il padrone di casa, un’altra per le bollette, un’altra ancora per il mangiare e così via.

Il servizio era da sei e avanzava. 

Da quando era rimasto solo, Giannino aveva abbandonato le porcellane pur continuando a ripartire scientificamente la pensione. Metteva da parte nel primo cassetto del comò tra calzini e fazzoletti i soldi per la pigione e per le spese fisse e già andavano via due terzi. Divideva la somma restante in quattro o cinque – secondo il numero delle settimane – parti uguali e con ciascun mucchietto, assai esiguo per la verità, doveva far fronte a qualsiasi necessità per i relativi sette giorni.

Due volte la settimana faceva un po’ di spesa: giornata piena era quella in cui comprava qualcosa di straordinario, per esempio lo zucchero o il detersivo, giornata vuota quando acquistava solo pane e latte. 

Talvolta, grazie alle offerte promozionali o a sconti particolari, riusciva perfino a spendere meno di quanto preventivato e allora investiva il surplus nei Gratta e VinciAccantonato il banco lotto divenuto troppo costoso, gli piaceva tentare la fortuna raschiando la patina dorata dei tagliandi colorati che gli richiamava alla memoria i bigliardini di quando era ragazzo. Era stato un campioncino nel far rimbalzare la pallina tra gli omini di ferro metà rossi e metà blu. 

Così assennatamente campava il pensionato Giannino Auriemma che ricordava sempre l’insegnamento della mamma. 

Hai vinto!

Le lettere emersero da sotto lo strato verniciato formando la frase magica.

“Ho vinto?” si chiese Giannino rigirando tra le mani il talloncino fortunato. “Che cosa ho vinto?” Non sapeva che bisognava scoprire un’altra casella per conoscere il premio. Grattò per lui l’edicolante e l’informò: «Avete vinto tremila euro! Complimenti!».

«Tremila euro? Tre milioni! No! Si ricordò di raddoppiare: sono quasi sei milioni! Che confusione!»Giannino non aveva mai vinto nulla, aveva sempre vissuto del suo lavoro. Incassare sei milioni senza far niente lo sconvolgeva.

Quella notte Giannino sognò l’America.

Sognò ponti svolazzanti come farfalle e blocchi maestosi di vetro e di metallo lanciati verso il cielo, tanto luminosi da specchiarsi l’uno nell’altro.

Sognò una fiaccola accesa all’ingresso di una porta d’oro. 

Sognò fiumi di latte e laghi di zucchero. 

Sognò distese interminabili di grano e piantagioni di spinaci, sognò mandrie che pascolavano l’erba blu e purosangue bianchi al galoppo.

Sognò l’abbondanza. 

Sognò Lucia incinta e se stesso giovane che le carezzava il pancione.

Improvvisamente si ritrovò su un nastro d’acciaio, che scorreva velocissimo, insieme a tutti gli operai e le operaie che ballavano. C’era pure il capo del personale e la segretaria dell’amministrazione alla quale si ricorreva per un anticipo sulla paga, quando proprio non ci si faceva ad arrivare alla fine del mese. E il magazziniere che non sganciava parti di ricambio se non gli consegnavi il pezzo da sostituire. Il capo reparto, il responsabile dell’ufficio acquisti, Filippo, i sindacalisti, tutti piroettavano allegramente in equilibrio sul tappeto che filava a velocità supersonica.

Ballavano, cantavano, ridevano. Sembravano divertirsi un mondo. Si respirava una musica gitana, un’aria di festa che mai, proprio mai si era vista in fabbrica. 

Giannino si mise alla ricerca di Lucia. 

Non era facile trovarla in quella baldoria, il nastro era strettissimo e precipitava a rotta di collo, eppure nessun ballerino sdrucciolava. 

Finalmente scorse la sua baiadera che volteggiava tra le braccia di un sorvegliante. Stava per andarle incontro, quando si sentì chiamare.

Una vocina lieve lieve, un soffio dalla coda della passerella che penetrò la musica e lo raggiunse. Giannino si sentì soffocare dalla felicità: sapeva a chi apparteneva quella voce.

Esisteva. Era carne della sua carne, una stilla di luce in un buco nero, in una galassia lontanissima.

Si svegliò pervaso da un senso d’onnipotenza, come ubriaco o innamorato pazzo. Serrando dolcemente gli occhi tentò di riaddormentarsi, ma quel sussurro melodioso era svanito.

L’inaspettata vincita pose un problema cruciale a Giannino: l’investimento dei trenta biglietti da cento euro che aveva provveduto subito a riporre tra gli indumenti nel primo cassetto del comò. Gli venivano alla mente mille idee, ma le scartava a una a una. 

La crociera. Era stato l’edicolante a suggerirglielo. Crociere d’argento, formula per pensionati: sette giorni nel Mediterraneo a prezzi scontatissimi. “Sai che bello osservare il volo dei gabbiani, contemplare il tramonto sul mare da solo” pensò Giannino. Che tristezza! No, niente crociera o viaggi per la terza età, piuttosto avrebbe fatto un regalo al figlio e al nipotino che stava per nascere. Ma non soldi, quelli no, potevano pensare che avesse vinto l’Enalotto.

Un dono, avrebbe inviato un dono.

Per se stesso si accorse di non desiderare nulla, nulla che potesse essere comprato. Quella mazzetta di banconote che oziava nel comò gli stava solo complicando la vita. Gli sballava tutto il bagget

Una cosa però la fece: sfilò un biglietto da cento, acquistò un cartoccio di pasticcini, qualche bottiglia e si recò ai giardinetti, dove gli amici lo accolsero come Paperon de’ Paperoni. 

La dea bendata è anarchica. Non riconosce nessun ordine, nessuna autorità. Va dove vuole ignorando le regole.

L’occasione era troppo allettante perché don Filippo non improvvisasse un sermone sulla fortuna. «Statisticamente essa di regola preferisce i già benestanti, per questa ragione i ricchi diventano sempre più ricchi, diceva Marx.»

Naturalmente Giannino volle partecipare anche il dottor Elia della sua buona stella. E il martedì successivo si presentò all’ambulatorio dove però non trovò l’amico medico, ma una giovane dottoressa che lo sostituiva.

Lì per lì Giannino fu tentato di andarsene perché provava soggezione a parlare del denaro vinto e dei malanni con una donna che avrebbe potuto essere sua nipote: ma poi decise di rimanere perché nella sala d’attesa si mormorava che era proprio “brava”, la dottoressa. 

“Com’è severa ed è pure bella” pensava mentre il medico in gonnella lo visitava con professionalità, facendogli tante domande. 

Quando il controllo ebbe termine, la dottoressa occhialuta compilò una lunga ricetta e gliela porse: «Signor Auriemma…».

«Giannino, dottoressa.»

«Signor Giannino è necessario fare alcuni esami. Lei soffre di bronchite cronica e questo affatica il suo cuore.»

«Dottoressa, in questi giorni il mio cuore è strapazzato perché ho provato una forte emozione: sa cosa mi è capitato?» Con pudore, inceppando nelle parole, raccontò del Gratta e Vinci e del premio.

La donna sorrise e fu ancora più giovane.

«È una bella cosa. Però non trascuri di fare le analisi che le ho prescritto e mi porti i risultati. Mi raccomando.»

Forse la dottoressa occhialuta brava lo era per davvero: il tempo di Giannino stava proprio per scadere. Dopo qualche giorno, un mattino in cui l’aria frizzante anticipava l’autunno, al pensionato Giannino Auriemma il cuore s’arrestò di colpo mentre faceva la barba. E l’ultima cosa che l’uomo – a cui piaceva sempre essere ben rasato come un vescovo – vide fu la smorfia del suo viso insaponato riflessa nello specchietto del bagno. 

Un funerale di prima classe ordinò il figlio che, da solo, arrivò dalla città algida nella quale viveva. Era stato un uomo modesto, suo padre, senza pretese ma non un poveraccio e meritava esequie più che dignitose. Al giovane era capitato, una volta, di partecipare al funerale di un signore assai facoltoso. Nella villa, dove erano radunate donne elegantissime in gramaglie e uomini distinti in abito scuro, migliaia e migliaia d’euro sotto forma di lilium, rose, orchidee, era arrivato un tristissimo carrettone comunale a prelevare la salma. 

Giannino viaggiò in Mercedes grigio perla. La carrozza di rispetto, quella per le corone, non era necessaria: per tutta la vita aveva goduto della stima altrui. I fascetti di fiori dei compagni colorarono la bara di noce. Il figlio, con gli occhiali scuri, l’aria distaccata per tenere a bada la commozione, prese posto accanto all’autista in divisa. 

Quando tutto finì, compilò – senza togliersi gli occhiali – un assegno comprensivo di mancia per il beccamorto. 

Ora doveva soltanto restituire la chiave al padrone di casa, riprendere la ventiquattrore e recarsi in aeroporto. Aveva il volo fra tre ore. 

Nell’attesa del proprietario, tra le cose di suo padre, ritrovò gli odori familiari, l’essenza di pulito della madre. Sfilò da una cornice la foto in tinta seppia dei genitori in un giorno felice.

Li avrebbe presentati a suo figlio.

Non voleva portar via nulla, poiché altrove gli oggetti sarebbero stati fuori posto. Forse il piccolo alloggio sarebbe stato fittato a un altro pensionato oppure a una persona indigente e anche il mobilio, come un tesoro per il nuovo inquilino: c’e sempre qualcuno che sta peggio. 

L’orologio di suo padre però – un vecchio Seiko d’acciaio – l’aveva messo al polso, gli era sembrato il miglior testimonio. 

Ma perché tardava il buon uomo della chiave? Gli avrebbe fatto perdere l’aereo! Impaziente percorse in lungo e largo i pochi onesti metri quadri.

Dopo l’ennesimo dietrofront si accorse del cassettone d’impiallacciato che a ridosso della parete bianca, giganteggiava sui semplici arredi. Il primo tiretto non era allineato con gli altri, era aperto a metà.

L’uomo ne impugnò entrambi i manici per accostarlo, si rense conto che era bloccato, bisognava estrarlo completamente per incanalarlo sulle guide. Tirò a sé con forza, forse troppa perché venne quasi spinto all’indietro dal cassetto che fuoriuscì del tutto dal suo alloggiamento, rivelando la biancheria imbarazzata del pensionato.

Seminascoste tra maglie e mutande di lana, le banconote verdi strette da un elastico. Una due tre… Il figlio di Giannino non credeva a ciò che vedeva mentre faceva scivolare tra le dita i biglietti da cento euro. Mai e poi mai avrebbe immaginato che suo padre potesse avere dei risparmi! 

La sorpresa si trasformò in stupore, quando scoprì che curiosamente il gruzzoletto era pari all’importo dell’assegno che aveva appena compilato per le onoranze funebri. La bizzarra coincidenza lo lasciò immobile, intontito. Sentì un urgente quanto impossibile bisogno di parlare al genitore.

Un caldo soffio di vento lo avvolse con familiarità. 

Ora Giannino Auriemma era davvero contento: leggero, sollevato da ogni inutile zavorra, finalmente libero, andò incontro a Lucia per invitarla a ballare.

Maria Rosaria Pugliese ha esordito con Pazienti smarriti (Robin Edizioni, 2010): il romanzo si è classificato al terzo posto del Premio Domenico Rea 2011, è stato finalista al Premio Giovane Holden dello stesso anno e semifinalista al concorso What Women Write indetto dalla Mondadori. L’autrice ha collaborato all’antologia La gola (Giulio Perrone Editore, 2008), alla Enciclopedia degli scrittori inesistenti(Boopen LED, 2009; II ed. Homo Scrivens, 2012). Ha pubblicato racconti sul web, alcuni premiati. Ama viaggiare. È una lettrice appassionata di narrativa di matrice ispanica. Per goWare, nel 2014, ha pubblicato la raccolta Carretera. Quattordici storie strada facendo.

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