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Quando la Fiat andò in Unione Sovietica

Nel novembre del 1972 andava a regime a Togliatti, la città russa impropriamente nota in Italia come Togliattigrad, lo stabilimento del VAZ che la Fiat aveva realizzato in Unione Sovietica e che produceva 600 mila vetture all’anno – Fu una scommessa di Vittorio Valletta, storico capo della Fiat per oltre 45 anni – Ecco come andarono le cose

Quando la Fiat andò in Unione Sovietica

Nel novembre del 1972 andava a regime a Togliatti (città russa impropriamente nota in Italia come Togliattigrad per non confonderla con il leader del PCI, da cui aveva preso il nome) lo stabilimento del VAZ (acronimo in russo di Stabilimento Automobilistico del Volga) che la Fiat aveva progettato, costruito e consegnato, chiavi in mano, all’Unione Sovietica.

La produzione, iniziata nel 1969, sarà, su base annua, di 600.000 vetture, di cui 400.000 Fiat 124 (berlina e familiare) e 200.000 Fiat 125, opportunamente modificate dalla stessa Fiat per fronteggiare le condizioni climatiche e infrastrutturali del territorio sovietico, con una occupazione di circa 60.000 lavoratori.

Con la presa in carico della gestione dello stabilimento da parte dell’ autorità sovietica, rientravano a Torino i circa 700 ingegneri e tecnici Fiat che avevano partecipato per la prima volta in Unione Sovietica, dopo il secondo conflitto mondiale, alla realizzazione di un progetto industriale da parte di una grande azienda occidentale, per di più italiana, in un momento in cui la guerra fredda accennava appena a ridimensionare i suoi contorni.

La molla fondamentale del progetto voluto da Vittorio Valletta, lo storico capo dell’esecutivo Fiat per oltre 45 anni, era il desiderio di internazionalizzare l’immagine della Fiat stessa, acquisendo tecnologie ad ovest per espandere il business ad est.

La filosofia industriale dominante dell’epoca privilegiava infatti la fornitura di impianti (ed il successivo ricco mercato delle commesse accessorie, delle ricambistiche, ecc.), anche come politica economica in cui convergevano gli interessi aziendali con le aspirazioni mercantilistiche del sistema bancario.

In realtà i rapporti commerciali ed economici con l’ Unione Sovietica erano già iniziati negli anni venti del secolo scorso, quando la Fiat incaricò un antifascista esule in Francia, il giornalista torinese Oddino Morgari, di avviare contatti commerciali permanenti con il governo di Mosca.

Negli anni trenta la Fiat realizzava il progetto completo per la costruzione di una fabbrica di grandi dimensioni per la produzione di cuscinetti a sfera nelle immediate vicinanze di Mosca e, prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, portava a compimento la costruzione di un altro stabilimento per fusioni in lega leggera.

A metà degli anni cinquanta Valletta riaffidava ad intermediari il compito di riavviare i contatti con i ministeri moscoviti, in ottica di possibili e profittevoli intese politiche ed economiche tra la Fiat e l’Unione Sovietica.

Grazie a questi contatti, nel 1961 l’azienda torinese partecipò, insieme all’Ansaldo, ad una commessa per la produzione di una serie di petroliere, di cui la Fiat fornì i propulsori, e nel febbraio 1962 il governo sovietico annunciò l’iniziativa di organizzare a Mosca, nella primavera successiva, una mostra di prodotti, mezzi e sistemi di produzione Fiat. L’operato della Fiat aprì peraltro una serie di problematiche internazionali.

Il “Professore”, come era chiamato Valletta, intuendo la potenzialità dei contatti con l’ Unione Sovietica, probabilmente favoriti anche da responsabili del PCI, il più grande partito comunista dell’ occidente, non intendeva comunque assumere specifiche iniziative senza consultare il governo italiano, ma soprattutto senza prima informare gli Americani ed ottenerne un’approvazione di massima.

Con gli Stati Uniti la Fiat aveva infatti instaurato un legame particolare già dai primi del novecento quando, prima tra le aziende europee, si era insediata con uno stabilimento automobilistico a Poughkeepsie, nello stato di Nuova York, rimasto in attività sino allo scoppio della seconda guerra mondiale, o aveva introdotto, a partire dagli anni trenta, sulle proprie linee di montaggio il modello di organizzazione del lavoro taylorista appreso dagli ingegneri Fiat inviati da Valletta nelle fabbriche Ford di Detroit.

Ma soprattutto era proseguito negli anni 50 quando, sotto indicazioni e pressioni della ambasciatrice americana a Roma Clare Boothe Luce che aveva collegato gli aiuti americani del piano Marshall ad un contenimento in Italia del comunismo, aveva adottato una politica di isolamento dei lavoratori comunisti nelle proprie fabbriche con la creazione dei cosiddetti reparti “stella rossa”. Ottenuto il pieno appoggio degli ambienti politici italiani, Valletta incontrò alla Casa Bianca il Presidente Kennedy nel maggio del 1962.

Nel corso della conversazione, che lo proiettava in un ambito di grande rilevanza politica e di rappresentatività dell’Italia nel suo insieme, Valletta (nominato poi senatore a vita nel 1966) constatò la convergenza del Presidente degli Stati Uniti sulle linee guida della strategia Fiat, che prevedevano l’assistenza ai sovietici per lo sviluppo della produzione di beni di consumo ed in particolare di automobili. A questo colloquio seguirono ulteriori contatti con esponenti dell’ esecutivo americano e della stessa CIA.

Valletta non tralasciò neppure di sondare gli ambienti industriali e politici francesi, anch’essi interessati all’ apertura di quel nuovo, enorme mercato: va ricordato che in quegli anni la Fiat France era il primo gruppo industriale estero in Francia con i propri stabilimenti automobilistici della Simca, dei veicoli industriali della Unic e di componentistica della Magneti Marelli e della Veglia Borletti. Dopo la visita del primo ministro sovietico Kossighin alla Mirafiori, nel 1965 fu conclusa a Mosca un’ intesa di massima concentrata sulla produzione di automobili.

Nel frangente il consiglio comunale di Torino,a maggioranza democristiana, sostituì, con una deliberazione unanime, il nome di una delle principali vie, che dal centro cittadino porta a Mirafiori, dal sabaudo corso Stupinigi all’attuale corso Unione Sovietica.

All’intesa di massima seguì poi nel maggio 1966 la firma a Torino di un protocollo avente ad oggetto le trattative finalizzate allo studio del progetto di uno stabilimento e della costruzione dello stesso in URSS per la produzione di automobili FIAT.

Grazie all’attività di Valletta volta a coagulare un consenso non solo formale da parte degli ambienti politici italiani, contemporaneamente alla firma del protocollo, ma questa volta a Roma, veniva siglata la convenzione tra l’IMI (Istituto Mobiliare Italiano) e la Vneshtorbank (la banca sovietica per il commercio estero) per il finanziamento dell’intera operazione per circa 150 miliardi di lire.

A margine del contratto il Governo italiano si impegnava a finanziare, in caso di necessità, gli acquisti da effettuarsi presso paesi terzi fino alla concorrenza dell’ ammontare di 50 milioni di dollari.

Il 15 agosto 1966 a Mosca veniva dunque firmato con le massime autorità sovietiche l’ accordo definitivo per la progettazione e costruzione di uno stabilimento chiavi in mano per la produzione di vetture Fiat da realizzare nella zona industriale della città russa sul Volga, che dal 1964 aveva assunto il nome di Togliatti.

Il progetto industriale coglieva appieno le aspirazioni della Fiat a consolidarsi su mercati avidi di progredire anche sul piano dell’industria leggera (meccanica in particolare), al fine di crearsi solide teste di ponte prima dei più reputati concorrenti europei (tedeschi e francesi in particolare), ed insieme rispondeva al meglio alle ambizioni politiche di tornare sulla scena internazionale da protagonisti (utilizzando la leva economica di un capitalismo rigenerato dal periodo del boom della prima metà degli anni sessanta).

Da qui, almeno nella fase di impostazione del progetto, una stretta concordanza ed una sintonia continua con le autorità politiche e monetarie del Paese, oltre all’acquisito consenso, come già detto, degli americani.

L’ idea di Valletta, tenacemente coltivata fin dai primi anni venti, appare quella di far leva sul prodotto automotoristico, fulcro allora di una forte integrazione verticale (dalla siderurgia alle varie meccaniche), per stimolare una progressiva capacità interna all’ azienda di diversificarsi, portando a maturazione molteplici capacità progettative – su fronti tra di loro collegati – e le conseguenti attitudini organizzatrici e realizzative.

L’ auto era dunque per Valletta il propulsore di una ingegnerizzazione della Fiat polivalente, in grado di portarla a possedere prima e a dominare poi un ampio spettro di tecnologie: metallurgiche, impiantistiche, metalmeccaniche.

Ne deriva l’ipotesi di lavoro, forse anche la scommessa, coltivata con il Progetto URSS, di sottoporre l’ intero complesso di Mirafiori ad una duplice tensione: produrre ingegneria impiantistica vendibile ed esportabile parallelamente ad un cospicuo incremento di rinnovamento ed automazione sul prodotto interno e tradizionale, l’ automobile appunto, fertilizzando tutte le sinergie nascenti da questo incrocio di attenzioni e di tensioni.

Valletta, dopo aver motorizzato l’ Italia prima con la Balilla e la Topolino e poi con la 500, la 600 e la 1100, non vide però i risultati della sua ultima sfida: morì infatti il 10 agosto del 1967.

Ma in realtà quali furono i costi e i benefici, anche in termini indotti e successivi alla attuazione del Progetto stesso in URSS? Sul conto economico del progetto, pur in assenza di documentazioni assolutamente probanti, si era ben presto diffusa negli anni successivi la certezza di un risultato non soddisfacente, anche se questo tipo di risultato probabilmente era stato già dall’ inizio in parte immaginato o previsto.

In termini indotti positivi, non vi è dubbio che l’ esperienza di una progettazione e costruzione da prato verde di uno stabilimento automobilistico, l’ ultimo era stata la Mirafiori a metà degli anni trenta, permise alla Fiat di acquisire e consolidare le competenze tecnologiche ed impiantistiche non solo per la realizzazione, alla fine degli anni sessanta e primi anni settanta, dei propri stabilimenti nel sud Italia di Cassino, Termoli, Sulmona o Bari, ma anche per la vendita di tecnologia ai concorrenti italiani ed esteri come, ad esempio, la progettazione e la vendita all’ IRI degli impianti di lastratura, verniciatura e montaggio dell’ allora costruendo stabilimento di Pomigliano d’ Arco dell’ Alfa Romeo a partecipazione statale.

Il costo indotto, di impatto più profondo, anche se non avvertito nell’ immediato, fu invece quello di aver eccessivamente divaricato l’ insieme “monolitico” delle risorse ed energie Fiat (in un certo senso la sua missione industriale originaria), polarizzandone il meglio e per un tempo non breve sul progetto sovietico, a danno di una crescita equilibrata e costante della gestione di gamma, ampiamente necessaria alle soglie dei critici anni settanta, mentre il mondo automobilistico e segnatamente la concorrenza diretta preparava novità e si disponeva ad un mercato senza più steccati.

Una volta sbilanciato il carico delle risorse interne a favore di tale progetto, l’ impatto inerziale – anche per gli adempimenti puntigliosi ed onerosi richiamati nelle clausole tecniche dell’ accordo con i sovietici – fu tale negli anni settanta da non potervi porre rimedio che sul tempo medio/lungo, mentre il cambiamento strategico dell’ industria automobilistica era già iniziato.

Bisognerà attendere i primi anni ottanta per il recupero da parte della Fiat del gap di gamma e di mercato con i lanci della Uno, della Thema e del motore Fire1000. Infine una curiosità.

Nell’ agosto del 1968 molte zone di Torino (il centro cittadino, il Parco del Valentino, il Lungo Po) furono trasformate in set cinematografici per girare un film inglese “The italian job”, regista Peter Collinson e protagonista Michael Caine, che narra di una gang britannica in trasferta a Torino per soffiare alla Fiat 4 milioni di dollari in lingotti d’oro provenienti dalla Cina (e non dall’Urss) come anticipo di un colossale contratto per la costruzione in quel paese di uno stabilimento automobilistico.

Continua…

One thought on “Quando la Fiat andò in Unione Sovietica

  1. Buonasera Dott. Giva,

    ho letto entrambi i suoi articoli riguardo alla Fiat e allo stabilimento Vas a Togliatti e li ho trovati estremamente interessanti.

    Sono laureando a Mgimo (Università Statale di Mosca per le Relazioni Internazionali), e mi trovo a dover toccare nella mia tesi magistrale degli argomenti che ineriscono proprio alle tematiche da lei affrontate nei suoi due articoli.

    Sarebbe cortesemente possibile da parte sua indicarmi del materiale che ha utilizzato al fine della redazione del suo articolo?

    La ringrazio in anticipo per il tempo concessomi e la ringrazio della sua disponibilità.

    Cordiali Saluti,
    Luca Virgulti

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