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MONET, ultime ore al Vittoriano

Nella splendida cornice dell’Ala Brasini del Vittoriano a Roma, Monet ha aperto a romani e turisti per oltre sei mesi le porte della sua casa di campagna a Giverny, dove custodiva le sessanta opere in mostra e che sono oggi tradizionalmente conservate al Musée Marmottan Monet di Parigi.

MONET, ultime ore al Vittoriano

Tutto è iniziato nel 1872 con Impressione, levar del sole. Il paesaggio non è altro che un’impressione, ed istantanea, e per questo ci si diede quell’etichetta, a causa mia. Avevo mandato una mia cosa fatta a Le Havre, dalla mia finestra, col sole in mezzo alla nebbia e qualche albero di nave che si innalzava sullo sfondo. Mi avevano chiesto un titolo per il catalogo e non poteva certo essere preso per una veduta di Le Havre, quindi ho detto: ‘Metta Impressione’, le parole di  Claude Monet per spiegare il nome dell movimento pittorico di cui era uno dei principali esponenti, l’Impressionismo.

Monet ha inciso sulla tela le sensazioni, le imprecisioni, le sbavature della vita e ha trovato nel nome del suo più iconico dipinto la migliore interpretazione possibile delle sue pennellate veloci e irregolari, potenti da entrare dentro con tutta la forza della verità.

 La mostra segue due filoni paralleli: l’ordine cronologico della realizzazione delle opere e l’evoluzione stilista dell’artista.

Un corridoio virtuale coperto dalle ninfee dello stagno di Giverny introduce alla mostra curata da Marianne Mathieu e promossa dall’Assessorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali di Roma Capitale, con il patrocinio del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e della Regione Lazio ed è prodotta e organizzata dal Gruppo Arthemisia in collaborazione con il Musée Marmottan Monet di Parigi.

La prima sala custodisce i lavori di gioventù di Claude Monet: le sue prime caricature, i primi disegni creati sui banchi di scuola per cui il pittore prendeva spunto dalle foto che apparivano su Le Figaro, dai volti della borghesia di Le Havre e quelli della sua famiglia. Eugene Bodin, il re dei cieli, esaminando queste opere gli ha detto “è un ottimo inizio, ma presto ne avrai abbastanza delle caricature, studia, impara a vedere, a disegnare, a dipingere e fare paesaggi”. E così fu.

I ritratti ai figli Jean e Michel coprono le pareti di fronte: l’interesse di Monet converge già sull’armonia dei colori e della luce. Il suo obiettivo non era rendere bene e precisamente i suoi personaggi, quanto la luce sui loro volti.

Ma il momento del cambiamento Monet lo ha vissuto in Italia, a Dolceacqua nella provincia ligure di Imperia, dove nel 1883 si è recato in compagnia di Pierre-Auguste Renoir. È l’incontro con il sole del sud che influenza il pittore e gli fa mutare prospettiva sul colore: da quel momento schiarirà la tavolozza e sarà spinto a cercare colori sempre più intensi e caldi.

La pittura di sensazione rompe le regole accademiche e si sofferma sugli effetti della luce, sulle vibrazioni atmosferiche, sui riverberi delle acque attraverso il contrasto di colori brillanti definiti sulla tela con pennellate libere e veloci.

Uno dei temi più cari a Monet è quello delle ninfee, le stesse che galleggiavano nello stagno del suo giardino a Giverny. Sulla tela Ninfee, 1916-1919 il tema è quello della sensazione dello spazio, dell’immensità. Guardando il dipinto si percepisce una dimensione quasi filosofica dello spazio che si articola su due livelli, quello macro che suggerisce il senso di immensità di fronte alla tela e quello micro che descrive la singolarità, la fragilità del soggetto che occupa la tela.

Monet anche in questo caso non è interessato alla descrizione dei fiori, a renderli in modo perfetto, piuttosto a creare un equilibrio, una composizione generale, vuole adottare un punto di vista e trasmetterlo al visitatore.

Il motivo del ponte è un’altra eredità del viaggio italiano a Dolceaqua, non rappresenta tanto un simbolo della modernità, quanto un gesto pittorico per rivedere il dipinto in chiave moderna e inserirvi al centro una grande diagonale che squarcia la tela. Nell’opera Il ponte giapponese, 1918-1924 si vedono due archi paralleli che sorvolano lo stagno delle ninfee. Questa composizione deriva dalle carte giapponesi e l’intero giardino risente di contaminazioni orientali. I colori infuocano l’acqua dello stagno, sono le luci dell’alba e del tramonto.

I salici piangenti costeggiano lo stagno: torna il tema del macrocosmo e della realizzazione di una composizione generale. Spesso i salici sono ritratti come delle quinte a teatro e rappresentano uno dei soggetti cari a Monet: goffo, ingombrante, solo; d’ispirazione forse per quella foga nel succhiare la vita dall’acqua, per quelle radici rigogliose che lo tengono attaccato alla terra, incrollabile.

Il salice piangente non è poetico solo per il nome, la chioma sembra danzare al minimo soffio di vento, creando continui e fugaci giochi di luce e ombra e questa pianta rappresenta un soggetto perfetto per Monet e per la sua poesia pittorica. Il colore è dato da un fitto incrocio di linee ondulate e sinuose che creano sia il movimento sia la rifrazione della luce tra le fronde e di riverbero sul tronco nodoso e sugli alberi che accarezzano l’acqua sottostante.

C’erano anche i glicini a coronare il ponte giapponese del giardino. Nel loro caso, la natura rappresentata sulla tela è rarefatta, si ha l’impressione che Monet tratti la pittura a olio come se fosse un acquerello o dell’inchiostro, mentre le ninfee sono quasi astratte.

Lo stagno delle ninfee non ha mai smesso di ispirare il pittore al punto di trasformarsi in un’esperienza totalizzante: “non dormo più per colpa delle ninfee, di notte sono ossessionato da quello che sto cercando di realizzare. Mi alzo al mattino piegato dalla fatica, l’alba mi ridona coraggio, ma l’ora tarda arriva e non appena varco la soglia dello studio. Ciò nonostante non vorrei morire prima di aver detto quello che avevo da dire, o almeno di aver tentato di dirlo e i miei giorni sono contati. Domani forse”.

E come tutte le buone ossessioni, meno riescono, più lontane e difficili si percepiscono, più sono intense e assillanti.

 

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