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Le pensioni e la schizofrenia di Lega e Cinque Stelle

Il contestatissimo e per ora congelato progetto di legge Lega-Cinque Stelle sul ricalcolo delle pensioni superiori a 4-5 mila euro mensili crea più contraddizioni e più ingiustizie di quante vorrebbe risolverne: ecco perchè

Le pensioni e la schizofrenia di Lega e Cinque Stelle

Quando non combinano grossi guai al Paese con dichiarazioni propagandistiche ed irresponsabili i vicepremier Matteo Salvini e Luigi Di Maio che affiancano, a Palazzo Chigi, il presidente Giuseppe Conte, pretendono di impersonare il governo del cambiamento, ma alla prova dei fatti si esercitano in quella attività che gli studenti somari svolgono da quando mondo è mondo: scopiazzano il lavoro degli altri. Il più giovane dei vicepremier, Di Maio, – nella sua ‘’prima volta’’: il c.d. decreto dignità – è stato scoperto dopo aver copiato – parola per parola – norme scritte nella Carta dei diritti promossa dalla Cgil a proposito della controriforma del contratto a termine e – addirittura in alcune parti – dalla riforma del mercato del lavoro dell’arcinemica Elsa Fornero (legge n.92/2012).

Anche il bonus per le assunzioni a tempo indeterminato – inserito nel testo per compensare, con alcune assunzioni o trasformazioni incentivate, la prevista perdita netta di posti di lavoro – non era altro che il rifinanziamento di un provvedimento varato dal governo Gentiloni. A volte però capita che gli studenti svogliati ed impreparati sbaglino addirittura a copiare (un po’ come fece Alessandro Di Battista quando scambiò la platea a cui tenere un comizio) e finiscano per mettersi nei guai. E’ quanto è successo ai capigruppo alla Camera del M5S (D’Uva) e della Lega (Molinari) che hanno presentato un progetto di legge (AC 1071) per penalizzare le c.d. pensioni d’oro (la definizione si riferisce a quelle di importo annuo pari o superiore a 80mila euro lordi, che poi risultano essere 4-5mila euro mensili al netto).

In caso di titolarità di più pensioni, il ricalcolo sarebbe stato applicato alle quote retributive del reddito pensionistico complessivo lordo se pari o superiore al suddetto ammontare). Ma da chi avevano copiato questa volta i ‘’nostri eroi’’? Addirittura dal nemico pubblico n.1 (almeno per Matteo Salvini) Tito Boeri, presidente contestato dell’Inps. I due sprovveduti deputati sono stati smentiti dai loro caporioni ed il progetto è stato congelato ( figuriamoci: in piena estate). Ricordiamo in sintesi ciò che prevedeva l’articolo 1 del progetto giallo-blu: a far data dal 1° gennaio 2019 i trattamenti pensionistici pari o superiori all’importo indicato e liquidati a carico di tutte le gestioni di carattere obbligatorio e pubblico (sembrerebbero scamparla solo le Casse privatizzate), sarebbero stati ricalcolati riducendo le quote retributive alla risultante del rapporto tra il coefficiente di trasformazione relativo all’età dell’assicurato al momento del pensionamento – come emergeva dalla tabella A allegata L. 335/1995 (la legge Dini) e successive modificazioni e integrazioni -, e il coefficiente di trasformazione corrispondente all’età prevista per il pensionamento di vecchiaia.

In sostanza, non era previsto alcun ricalcolo di carattere contributivo – al contrario di quanto è stato  annunciato da mesi – ma soltanto una penalizzazione economica in relazione all’ anticipo dell’età di pensionamento. Come si ricavava il taglio? Si prendeva il coefficiente di trasformazione (ovvero il moltiplicatore del montante contributivo ragguagliato, nel tempo, all’attesa di vita) corrispondente all’età in cui il soggetto andava o sarebbe andato in quiescenza, lo si confrontava con quello relativo all’età legale di vecchiaia prevista in quel periodo: ne usciva una percentuale che determinava l’ammontare del nuovo importo (limitatamente, lo ricordiamo, alla parte retributiva delle prestazioni pari o superiori ad 80mila euro lordi l’anno).

In sostanza, se l’età anagrafica al momento del pensionamento fosse pari a quella vigente per la vecchiaia, il rapporto sarebbe uguale ad 1 e quindi il trattamento resterebbe invariato; se fosse, per esempio, 0,70 ciò significherebbe che le quote di natura retributiva della pensione sarebbero ridotte al 70%. Era questa una musica che avevamo già sentito suonare con tonalità molto simili. Bastava sfogliare il documento ‘’non per cassa ma per equità’’ presentato dall’Inps nel 2015. Nel pacchetto era addirittura proposto un vero e proprio disegno di legge che all’articolo 12 comma 1 disponeva un procedimento analogo, con alcune differenze. Una di queste riguardava il grado di caratura delle pensioni prese di mira.

Nella relazione tecnica l’operazione veniva spiegata così: ‘’A chi ha redditi pensionistici elevati (superiori ai 5.000 euro lordi al mese), in virtù di trattamenti molto più vantaggiosi di quelli di cui godranno i pensionati del domani, viene richiesto un contributo equo dal punto di vista attuariale, ricalcolando le loro pensioni in base al rapporto fra i coefficienti di trasformazione vigenti per il sistema contributivo (ricalcolati all’indietro per ogni anno di decorrenza) per la loro età alla decorrenza della pensione e quelli all’età normale di pensionamento ottenuta applicando all’indietro negli anni gli aggiustamenti automatici all’aspettativa di vita previsti dalla normativa vigente. Ai pensionati con importi medio-alti (tra i 3500 e i 5000 euro al mese) e attuarialmente non in linea con i contributi versati, viene richiesto un contributo più dilazionato nel tempo, limitandosi a mantenere costanti in termini nominali (cristallizzando gli importi) le loro pensioni fino a quando queste raggiungeranno la pensione ricalcolata come sopra, senza riduzioni nominali negli importi delle loro pensioni”.

Ci vuol poco a capire che, nonostante il differente perimetro della platea interessata, il meccanismo era lo stesso. Visto che venivano usate persino le medesime parole. E che era stato, quindi, Tito Boeri a dare (indirettamente?) la linea (come per il resto è accaduto per quanto riguarda i vitalizi degli ex parlamentari). I due capigruppo affrontavano anche la questione dei trattamenti erogati prima del 2019 ovvero di quelli in vigore. Lo stesso criterio valeva anche queste prestazioni le quali sono ricalcolate riducendo le quote retributive alla risultante del rapporto tra i due coefficienti (salvo produrre – lo abbiamo già rammentato – come riferimento una tabella spuria di incerta origine, allegata al progetto di legge).

E non trovavano pace neppure i trattamenti (sempre pari o superiori all’importo canonico degli 80mila euro lordi) erogati prima del 1996. Ovvero si sarebbe andati a mettere le mani in tasca ad anziani signori e signore ormai ultraottantenni, in nome di discutibili principi di equità. Ma la storia non finiva qui. Mettendo a confronto la proposta D’Uva-Molinari con quanto contenuto nel contratto di governo emergevano i sintomi di una grave schizofrenia legislativa. Innanzi tutto, scomparivano le salvaguardie riconosciute alle pensioni elevate in rapporto alla copertura dei versamenti contributivi; anzi, veniva completamente abbandonato il trucco di cui si era servito il presidente della Camera Roberto Fico nella delibera sui vitalizi.

Nel progetto dei capigruppo, scompariva completamente il tentativo virtuale di ricostruire a tavolino dei montanti contributivi inesistenti, visto che i marpioni  si erano accorti di non disporre dei dati statistici per delinearli con un minimo di credibilità. Ma dove stava la fase più acuta della schizofrenia? Con questo provvedimento si voleva penalizzare chi aveva (o avrebbe) avuto l’opportunità di andare in quiescenza prima di aver maturato i requisiti anagrafici ordinari, mentre con le proposte di manomissione della riforma del 2011 (quota 100 o quota 41) verrebbe riattivato, alla grande, il meccanismo del pensionamento anticipato. In sostanza, quelle pensioni definite d’oro erogate in passato sarebbero riproposte, in parte, anche  nel futuro, con criteri agevolati.

La gallina delle uova dorate continuerebbe a farle. In sostanza, si sarebbe detto ad una persona che poteva contare su di un trattamento pari o superiore ad 80mila euro lordi: “Noi ti agevoliamo l’uscita anticipata dal mercato del lavoro e l’accesso alla pensione prima che tu abbia maturato i normali canoni della vecchiaia. Ricordati, però, che se tu utilizzi questa possibilità (ed è giusto che ti sia riconosciuta perché chiunque, dopo 41 anni di lavoro, ha diritto di andare in pensione a prescindere dall’età anagrafica!) manometteremo la quota retributiva del tuo assegno’’. A meno che la persona non si fosse rassegnata ad aspettare la maturazione del requisito anagrafico (quei 67 anni aborriti dalle campagne del regime) della vecchiaia.

C’è poi un ulteriore aspetto che, prima del congelamento, non era emerso adeguatamente, per quanto riguarda l’intervento sulle pensioni in essere. E’ noto che i trattamenti più elevati si concentrano in taluni settori e qualifiche della pubblica amministrazione (i cui pensionati, in misura superiore al 50%, godono di un assegno di anzianità). Bene. Nella XVI legislatura il governo di centro destra varò un provvedimento in forza del quale le amministrazioni erano autorizzate a mandare in quiescenza forzata (salvo alcune eccezioni) il personale che avesse maturato 40 anni di contribuzione. La misura riguardò anche dirigenti e qualifiche elevate, con età inferiori a quella di vecchiaia.

Oggi, secondo il Pdl giallo-blu, costoro vedrebbero penalizzato un trattamento che fu loro imposto. Ma tutto questo Circo Barnum a che cosa sarebbe dovuto servire? A finanziare in minima parte i 780 euro mensili della pensione di cittadinanza: il trattamento garantito a coloro che di contributi ne hanno versati pochi e non sempre per ragioni giustificabili. Resta, a questo punto, da soddisfare solo un’ultima curiosità. L’articolo 2 stabiliva che gli organi costituzionali e di rilevanza costituzionale, nell’ambito della loro autonomia, si adeguassero alle nuove disposizioni, entro 6 mesi dalla data di entrata in vigore della legge. Significava che la Camera avrebbe dovuto rivedere ed adeguare i criteri della fatwa sui vitalizi degli ex deputati? 

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