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L’Avvocato Agnelli e i doveri della classe dirigente

Ricordo dell’ultimo incontro con l’Avvocato Agnelli, di cui il 12 marzo ricorre il centenario della nascita – Dalla guida della Fiat a senatore a vita, è stato un punto di riferimento sicuro del Paese, rispettato anche da chi lo contrastava e sempre pieno di curiosità – Amava gli Stati Uniti ma credeva fermamente nell’Europa – Fu un leader e un uomo coraggioso, profondamente convinto che non c’è vera democrazia senza una vera classe dirigente e che non c’è classe dirigente senza assunzione di responsabilità e senso del dovere

L’Avvocato Agnelli e i doveri della classe dirigente

Ho incontrato per l’ultima volta l’Avvocato Agnelli all’inizio del 2003, poche settimane prima della sua morte. Ero stato appena nominato amministratore delegato della società editrice de La Stampa, il giornale che amava, quello che considerava la gemma più luminosa della sua corona. Non si alzò dal letto, parlava a fatica. La Fiat attraversava una gravissima crisi. E anche La Stampa non se la passava bene. Mi raccomandò di mantenere sempre alto il profilo del giornale, di salvaguardare la cultura sabauda proiettandola in un contesto internazionale. Agnelli amava i giornali come portatori della cultura democratica di un paese, che per vivere in libertà, deve avere mezzi di informazione affidabili e credibili agli occhi dei cittadini.

Lo aveva dimostrato anche come Presidente di Confindustria nel lontano 1975, quando sostenne che Il Sole 24 Ore doveva essere il giornale dell’economia italiana e non il portavoce della lobby confindustriale. L’Avvocato Agnelli, di cui proprio il 12 marzo cade il centenario della nascita, è stato un punto di riferimento per gli italiani nella seconda parte del secolo scorso, quella della ricostruzione economica e dell’affermazione della democrazia nell’Occidente dopo due tremende “guerre civili”. Certo non tutti lo amavano, qualcuno lo criticava, ma tutti lo rispettavano riconoscendogli attaccamento al dovere e senso di responsabilità. Lui era consapevole di essere nato privilegiato e ha sempre ritenuto un punto d’onore tener fede agli obblighi che quella posizione comportava, obblighi verso i propri lavoratori, e verso il paese.

L’enorme folla accorsa al Lingotto per porgergli l’ultimo saluto in quelle tristi giornate di fine gennaio del 2003, conferma che gli italiani, e non solo i torinesi, hanno sentito che la sua morte privava l’Italia di un punto di riferimento sicuro, un faro a cui rivolgersi nei momenti più difficili della vita collettiva. Del resto Agnelli era al contempo cittadino del mondo e profondamente italiano. La gente mi riconosce – diceva – perché sono stato sempre al loro fianco. Ho combattuto in Russia e in Africa quando la patria chiamava (sia pur per colpa di una brutale dittatura), mi sono divertito quando c’era da divertirsi, sono tifoso di calcio e ho gioito o sofferto per i risultati della squadra del cuore come milioni di altri tifosi, ho cercato di difendere la Fiat dagli attacchi dei predatori, ho ricercato la pace sociale con l’accordo sindacale del 1975 sul punto unico di contingenza.

Sull’Avvocato Agnelli c’è un mare di aneddoti. Quasi mai riescono a restituire un foto esatta del suo vero modo di essere. Era certamente curioso, nel senso che voleva capire bene le cose della vita. Ricercava l’eccellenza in tutto: se andava a vela voleva lo skipper migliore su piazza; se voleva imparare i segreti del poker ingaggiava i migliori professionisti del tavolo verde. Amava le donne ma le rispettava. Non faceva pettegolezzi: “Io parlo CON le donne e non DI donne“. Cercava di capire la natura profonda delle persone che incontrava facendo una raffica di domande. La cosa più difficile per un azionista – diceva – è quella di capire gli uomini e scegliere quelli giusti a cui affidare le sorti dell’impresa o di un suo settore.

Era un vero conservatore, e cioè credeva nel principio di autorità, guardava con fastidio ai populismi che rischiano di sfociare in totalitarismi, eppure aveva interesse per gli uomini di sinistra. Tanti collaboratori della Stampa lo erano. Stimava Lama segretario della Cgil e suo avversario in molti scontri sindacali. Non che volesse convincerli delle virtù del capitalismo e del libero mercato, apprezzava in loro l’impegno per migliorare la società, la dedizione a un ideale che spesso aveva messo a rischio la propria libertà personale. Così come nel mondo degli affari era curioso degli uomini nuovi, di quelli che venivano dalla gavetta e che cercavano di raggiungere le vette del successo.

Quando nel 1966 successe a Valletta nella carica di presidente della Fiat, il boom economico del dopoguerra volgeva al termine. Da allora le crisi si sono succedute a ritmo crescente lasciando solo brevi spazi di sereno tra una bufera e l’altra. Ci fu il 1968 e poi il terrorismo, la marcia dei 40 mila, la stagnazione insieme all’inflazione, la crisi politica sempre più evidente fino ad arrivare a tangentopoli. La Fiat ne fu coinvolta. Alcuni dirigenti di primo piano vennero arrestati. Le voci giornalistiche davano per possibile l’apertura di indagini anche sui vertici dell’azienda, Romiti e Agnelli. In una atmosfera cupa si decise di uscire allo scoperto, cercare di diradare la cappa di sospetti che stava paralizzando l’azienda. L’occasione fu la partecipazione dell’Avvocato ad un convegno della Confindustria a Venezia.

Preparammo un intervento in cui si rigettava l’idea della Fiat come azienda che prosperava sulla corruzione, anzi, se qualche mazzetta era stata data ai politici era per far valere i propri legittimi diritti. Insomma la Fiat era casomai concussa e non un centro di corruzione. L’Avvocato era nervoso, mi telefonò la mattina all’alba per sapere se avevo qualche novità circa gli umori della platea. Ma tutto era stato organizzato bene. Dopo i primi tre o quattro capoversi di convenevoli, quando il discorso dell’Avvocato toccò la questione di Tangentopoli e della posizione Fiat, dalla platea partì un forte e prolungato applauso. Gli industriali, messi sotto schiaffo dalle procure, si stringevano intorno al loro leader naturale e ritrovavano la voglia di reagire, e l’orgoglio di riaffermare il proprio ruolo nel contesto sociale e politico italiano.

Era legato agli Stati Uniti ma credeva fermamente all’Europa. Si batté, contro il parere di Romiti e di Cuccia, per l’ingresso dell’Italia nell’euro con il gruppo di testa. Sapeva benissimo che per le imprese sarebbe stata una bella sfida in quanto non sarebbe stato più possibile contare sulla svalutazione della lira. Ma sapeva altresì (e la questione è ancora di attualità) che l’autarchia, il rinchiudersi nei propri confini non assicura maggiore protezione, ma costringe l’intero paese in una gabbia, una vera e propria prigione. Forse un giorno si scriverà una biografia dell’Avv. Agnelli sfrondata dai pettegolezzi, ma capace di restituirci un uomo complesso, con tante umane contraddizioni ma che è stato per il nostro paese una figura emblematica della nostra storia del secolo scorso.

Attraverso di lui si dovrebbe affrontare una ricostruzione storica della rinascita e poi del lento declino del nostro paese a partire dal dopoguerra fino ai nostri giorni. Capire le ragioni per le quali abbiamo smarrito il sentiero della crescita. Se oggi ripensiamo agli ultimi cinquant’anni del secolo scorso, e facciamo il confronto con il mondo di oggi ci accorgiamo che tutto è cambiato. La vita di allora ci sembra remota non di decenni, ma di secoli. Le grandi aziende di quegli anni non ci sono più, o si sono rimpicciolite tanto da confondersi con tutte le altre. Nella politica i partiti-chiesa, cioè ideologici, sono scomparsi ed al loro posto ci sono formazioni personali oppure basate sull’uno vale uno (che poi non è vero tanto che si decide di cambiar nome in una riunione di quattro persone).

I problemi che ci angustiavano in quegli anni, come la guerra chimica, o la contrapposizione tra finanza laica e finanza cattolica, sono svaniti. Così come a livello generale non siamo più tormentati dall’iperflazione. Siamo in un mondo totalmente diverso. Il protagonismo individuale spinto dai social ha demolito le vecchie classi dirigenti, che certo avevano non pochi torti, ma ha lasciato il vuoto al loro posto. Eppure, lentamente, si sta facendo strada la convinzione che una vera democrazia non può vivere senza una classe dirigente meritevole di avere la fiducia della maggioranza dei cittadini. E qui sta, forse, l’insegnamento più duraturo che possiamo trarre dalla figura dell’Avvocato Agnelli, uomo dell’altro secolo, ma che ci ricorda che la funzione del dirigente è inscindibile dalla assunzione di responsabilità, dal senso del dovere, e dal coraggio nell’affrontare i pericoli.

Ecco, volendo qualificare con un solo aggettivo la figura di Agnelli si può dire che è stato un uomo coraggioso.

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